VAYAK’HEL – Shabbat Shekalim 5784: 10 LEZIONI

3 Marzo 2024 0 Di HaiimRottas

PARASHÀ
I° Sefer Es 35:1-38:20
II° Sefer: Es 30: 11-16


HAFTARÀ
Sefarditi II Re 11:17-12:17
Italiani / Ashkenaziti II Re 12:1-17

Questo Shabbat 9 Marzo 2024 29 Adar Rishon 5784 Shabbat Shekalim leggeremo 2 parashot: la prima Vajjak-hèl e la seconda una speciale Shekalim che si legge il Shabbat precedente o coincidente a Rosh Chodesh Adar Shenì o Adar pashut.

Si Annuncia Rosh Chodesh

 

UN SANTUARIO VIVENTE
Anche quest’oggi vi proponiamo due brani tratti dal libro “Saggezza Quotidiana” edito da Mamash.
La saggezza del Rebbe e dei suoi predecessori è piena di insegnamenti utili anche per la nostra vita
quotidiana. Chiunque voglia raffinare e migliorare sempre di più il proprio percorso spirituale troverà
in questo libro una “guida” utile, se non indispensabile.
Oggi in questi due brani possiamo trovare che la loro stessa ragione d’essere è in un concetto forse
noto, ma a volte, non sufficientemente considerato. Nella parashà di Vayak’hèl, tra le altre cose,
Hashèm ordina a Moshè di comandare Israèl di costruire il Tabernacolo. Quest’ordine viene a seguito
del famigerato episodio del Vitello d’Oro in cui il popolo ebraico è protagonista di una grande caduta
spirituale. L’espiazione per questo “peccato” consiste proprio nella costruzione del Tabernacolo.
Ovviamente, il Tabernacolo non è solo un luogo fisico, un manufatto, per quanto complicato e
affascinante. Il Tabernacolo, infatti, doveva e deve essere costruito “ogni giorno” dentro di noi da
ogni persona. Esso, in estrema sintesi, è costituito dagli aspetti spirituali, psichici e fisici di ogni
persona. Anzi! Si potrebbe affermare che lo scopo principale di questo ordine è insegnare ad ognuno
di noi di costruire o meglio di fare di noi stessi un Tabernacolo, un luogo Santo e Santissimo per far
risiedere Hashèm dentro di noi.
Il primo brano tratta proprio di come l’elenco di quattro materiali usati per la costruzione delle
coperture del Tabernacolo celi, in realtà, una “guida” su come possiamo utilizzare le nostre emozioni
per collegarci e relazionarci al meglio con Hashèm.
Il secondo brano ci spiega come dalla forma e dal materiale usato per la costruzione della Menorà
possiamo arrivare a comprendere meglio la natura e il legamene che intercorre tra l’uomo, le sue
emozioni principali, la sua anima e Hashèm.
Buona lettura e un caro saluto a tutti voi
*
Vayak’hèl
Costruire il Tabernacolo
Esodo da 35, 1 fino a 38, 20
La decima sezione del libro dell’Esodo si apre mentre Moshè scende dal monte Sinày, per la terza e
ultima volta, e immediatamente “raduna” (vayak’hèl, in ebraico) Israèl. Moshè informa il popolo che
Hashèm lo ha perdonato per il peccato del Vitello d’Oro e gli comanda di costruire il Tabernacolo,
come segno di questo perdono.
*
Shemòt 36, 8–19
Le prime opere fabbricate dagli artigiani sono gli arazzi che formano la copertura del Tabernacolo.
Le Dinamiche della Nostra Relazione con Hashèm.
[Gli artigiani fabbricarono gli arazzi] Con lino ritorto, lana turchese, porpora e cremisi. (36, 8)
Questi materiali alludono alle quattro basi del nostro rapporto emozionale con Hashèm.
La lana scarlatta è rossa, come il fuoco a cui allude. Il fuoco, nella nostra anima, è l’ardente amore
per Lui che deriva dalla meditazione del Suo essere infinito. Comprendendo fino a che punto Hashèm
è al di là della creazione e che Lui è la vera realtà, siamo sopraffatti da un desiderio appassionato di
sfuggire ai limiti del mondo, per conoscerlo e fonderci con Lui.
La lana turchese è il colore del cielo allude alla esperienza con la maestà di Hashèm. In questa
esperienza, anche se contempliamo l’infinito di Hashèm, ci concentriamo sulla nostra irrilevanza
rispetto a Lui. Questo ci riempie di sentimenti di stupore.
La lana porpora è una miscela di blu e rosso, di amore e meraviglia, che allude alla clemenza,
composta di amore per l’ideale e rabbia per come l’ideale non è realizzato. Nello specifico, abbiamo
compassione della nostra anima divina quando consideriamo la sua condizione: vivendo
spiritualmente distante dalla sua dimora naturale, cioè, dalla presenza di Hashèm.
Il lino ritorto è bianco e allude al nostro amore innato per Hashèm, un sentimento al di sopra e al di
là della razionalità. Questo amore ci rende capaci di sacrificarci per l’onore di Hashèm, poiché
esprime il nostro legame inscindibile con Lui.
*
Shemòt 37, 17–29
Successivamente gli artigiani realizzano il Tavolo dei dodici pani. Dopo questo, Moshè getta l’oro
per il Candelabro nella fornace e Hashèm lo modella.
Sette Modi per Illuminare il Mondo
[Hashèm] realizzò il Candelabro d’oro puro. (37, 17)
Il Candelabro, la fonte di luce nel Tabernacolo, simboleggia l’intuizione e illuminazione:
l’improvviso e inafferrabile lampo d’intuizione e illuminazione nella mente è simile a un fulmine
lampeggiante che attraversa un cielo oscuro.
Ogni anima divina è una fonte d’illuminazione divina. È in questo senso che l’anima è
metaforicamente chiamata “la lanterna di Hashèm”. Le sette luci del Candelabro simboleggiano i
sette tipi fondamentali di anime ebraiche. Ogni tipo ha il suo percorso particolare nel rivelare la
Divinità, basato sulle sette emozioni fondamentali (Ogni persona ha sette tipi di emozioni nel cuore
che corrispondono ai sette giorni della creazione, ai sette millenni del mondo):
(1) l’amore di Hashèm;
(2) il timore di Hashèm;
(3) il collegamento a Lui, attraverso lo studio della Torà;
(4) il superamento degli ostacoli che si oppongono alla santità nel mondo;
(5) apprezzare la Sua bontà;
(6) l’orgoglio di essere l’emissario di Hashèm nel mondo;
(7) l’umiltà.

Vayak’hèl
DONNA DELL’ANNO


Il Messaggio quotidiano di Sivan Rahav Meir: 
Il messaggio della “donna dell’anno”, Parashà Vayak’hèl

Shterna Wolff, 44 anni, è stata proclamata, dal più grande quotidiano della Germania, la “donna dell’anno” della Sassonia, la quarta regione più estesa dello Stato tedesco. 
Stherna, nata in Israele, copre l’incarico di emissaria Chabad nella città di Hannover, da circa due anni, da quando suo marito, il rabbino Binyamin, è morto inaspettatamente per una infezione batterica. Madre di sette figli condivide la casa e la sua missione con una delle figlie, che è sposata, e con il genero. Stherna ha gestito il centro Chabad con tanta vivace iniziativa che è ben presto diventata un’importante figura di riferimento per gli ebrei, ma anche i non ebrei, della zona.  
Nella intervista che le ho fatto ieri, Stherna mi ha rivelato la cosa più importante che è riuscita a trasmettere da quando svolge la sua attività di emissaria Chabad. 
“Questa settimana troviamo nella Parasha di Vayak’hèl la descrizione della costruzione del Mishkàn, il centro spirituale che ha accompagnato il popolo di Israele nel suo viaggio nel deserto. La Torà loda il lavoro dei figli di Israele durante la costruzione e, in particolare, la fremente attività delle donne per cucire e tessere le coperture del Tabernacolo.
Il Rebbe di Lubavitch trae da questa descrizione un insegnamento per la nostra generazione: non abbiamo ricevuto i nostri talenti solo per la nostra crescita personale, ma anche per poterli usare nel fare buone azioni, per fare del mondo un Mishkàn, per aggiungere luce e santità al mondo “. Stherna sottolinea che questo messaggio vale per tutti, ma soprattutto per le donne, in particolar modo nella nostra generazione.
“Questa è la mia missione in Germania e sono felice di ricevere un riconoscimento così significativo. Usare le nostre abilità speciali per rendere il mondo il “Mishkàn del bene”, questa è la missione di ognuno di noi”.
Ci fa piacere aggiungere, come traduttrici del messaggio di Sivan in italiano che, secondo il rito italiano, subito prima della preghiera di Mussàf di Shabbat, chi conduce la Tefillà legge una benedizione particolare per tutte le figlie di Israele che preparano e ricamano le stoffe che ricoprono i Rotoli della Torà e l’Aron Hakodesh.

Si Annuncia Rosh Chodesh

 

NUOVA LEZIONE ATTUALE

L’Errore di Platone: Anche gli Angeli “Mangiano i Fagioli”?

Il Grande Quesito.
La nostra vita, il nostro matrimonio, la carriera, la famiglia, hanno funzionato come avevamo sognato?

In memoria del mio carissimo amico Rav Haim Moshe Mordechai ben Dovber Shaikevitz e del mio maestro Rav Ghershon Mendel ben Haim Meir Garelik

Un psicologo infantile trascorre molte ore a costruire un nuovo vialetto a casa sua. Subito dopo aver levigato la superficie del cemento, appena gettato, i suoi bambini piccoli, inseguendo una palla attraverso il vialetto, lasciano impronte profonde nel cemento. Allora l’uomo inizia ad urlale ai bambini parole furiose.
La moglie scioccata lo rimprovera: “Smettila! Ricordati che sei uno psicologo che dovrebbe amare i bambini!”.
L’uomo, ancora furioso, gli risponde: “Certo che li amo, ma solo in astratto, non in concreto..!”

Ideale Vs Reale
Platone, uno dei più grandi filosofi dell’antica Grecia (428-347 a.e.v), era guidato dalla ricerca della verità. Tanto che la sua principale tesi filosofica originava da una domanda: in un mondo dominato dall’imperfezione e in continuo mutamento, come è possibile arrivare a una conoscenza, una verità assoluta, che è al di sopra di questo perenne divenire? La sua risposta è stata che la realtà, (“quella vera”, eterna, perfetta e immutabile) non si trova nella caotica profusione di cose che vediamo, sentiamo e tocchiamo quotidianamente, come una sedia o una pentola.
La “verità, vera” della realtà sta in un principio comune che tutti possono raggiungere: L’IDEALE. Per meglio dire, ogni cosa, secondo Platone, ha un sua dimensione ideale, ad esempio, la forma ideale di una sedia, di una casa o di un albero ecc. In sintesi, Platone sosteneva che la realtà sostanziale che ci circonda è solo un riflesso di una verità superiore. La verità, credeva, è semplicemente il prodotto di un processo di astrazione che, partendo dalla realtà concreta che ci circonda, arriva a capire che le idee sono più reali delle cose. Le cose sono particolari, ma solo la verità (come intesa da Platone) è universale. In sintesi, il filosofo greco ha sviluppato una visione di due mondi: un mondo di idee immutabili e perfetto e un mondo di oggetti fisici mutevoli e imperfetti.
Ad esempio, un albero particolare, con uno o due rami mancanti, forse vivo, forse morto è distinto dalla forma ideale, ossia l’essenza di ciò che è un albero. L’albero, quello “vero”, consiste solo nell’ideale di esso che ognuno di noi ha nella propria mente e che ci permette di identificare i “riflessi” imperfetti degli alberi “reali” che ci circondano.
È difficile descrivere quanto profondamente questa idea di Platone abbia influenzato il pensiero e la civiltà occidentale: nella moda, nell’estetica. E soprattutto quanto le sue idee abbiano influenzato uno dei pensieri contemporanei, chiamato comunemente “Globalizzazione”, in tutte le sue articolazioni: economiche, sociali e culturali. Infatti, il filosofo insegnava che la verità può essere trovata solo nell’universalismo, non nei particolari della realtà. Più una cultura è universale, più si avvicina alla verità. La verità è astratta, perfetta, uniforme.
Inoltre, la visione di Platone abbracciava la dualità del bene vs male: conferendo la verità all’universo ideale, spirituale e perfetto; mentre la corruzione e falsità si trovano solo nell’universo imperfetto, fisico e concreto.
È altrettanto difficile capire quanto profondamente la tradizione chassidica ed ebraica abbiano respinto questa idea, apparentemente convincente o addirittura “suadente”. A dire il vero, il misticismo ebraico discute in grande dettaglio come ogni esistenza fisica abbia origine nel mondo incontaminato dello spirito. Un livello dove la “materia” può essere percepita in un modo molto più sano e completo. Nella letteratura midrashica, le due realtà sono conosciute come la “Gerusalemme celeste” in corrispondenza della “Gerusalemme terrena”: la seconda è fragile, vulnerabile e distruttibile, mentre la prima è eterna. Tuttavia, soprattutto gli insegnamenti chassidici hanno respinto le conclusioni di Platone, opponendosi fermamente alle sue conclusioni: allontanarsi dal piano fisico in favore di quello spirituale; ignorare il particolare a favore dell’universale, e disprezzare il concreto a favore di un modello ideale.
I nostri saggi sapevano come comprimere idee filosofiche profonde in frasi concise e apparentemente semplici. Per questo la loro “risposta” agli insegnamenti platonici è stata meravigliosamente bella e coincisa: “Dio ha promesso che non sarebbe entrato nella Gerusalemme celeste fino a quando non fosse entrato nella Gerusalemme terrena” (Talmud Ta’anìt 5a. Zohar Vayikrà 15b). Questo era il modo in cui i rabbini respingevano le drammatiche conclusioni dell’idealismo platonico.
Adesso cerchiamo di comprendere meglio le ramificazioni di queste due visioni del mondo conflittuali nell’ottica del vivere e dell’agire umano.

Doppie Vite
Si dice che una volta Richard Nixon abbia spiegato perché il popolo americano era appassionato di Kennedy e pieno di animosità nei confronti di Nixon: “Quando guardano Kennedy”, diceva Nixon, “vedono quello che vorrebbero essere; quando guardano me, vedono chi sono”.
La maggior parte di noi possiede due vite: la vita dei nostri sogni e la vita della nostra realtà, la vita che desideravamo e la vita in cui siamo finiti. Molte persone possono parlare almeno di due matrimoni: i matrimoni che sognavano di avere e i matrimoni in cui sono finiti. Ci troviamo di fronte alla sfida di costruire vite sane e felici in un mondo dominato dallo stress, ansia, dolore e disillusione. Molti di noi diventano frustrati e oppressi dalle realtà spezzate e imperfette con cui dobbiamo confrontarci ogni giorno. Spesso desideriamo ardentemente di fuggire nel mondo “ideale” di Platone, dove tutti gli oggetti difettosi vengono trasformati magicamente in idee perfette.
Questo accade per la maggior parte delle questioni della vita: bambini, carriera, relazioni, serenità psicologica e salute fisica ecc. Come bambini innocenti, giovani idealisti e sposi novelli, che sanno ancora “volare in alto”, ognuno di noi nutre una sua visione di come potrebbero essere la vita, il romanticismo, la famiglia e il successo.
Poi cresciamo e siamo chiamati al compito di tradurre questa visione magica in una realtà concreta. Ci troviamo di fronte alla sfida di costruire vite felici e sane in un mondo di stress, ansia, dolore e disillusione. Molti di noi diventano frustrati e oppressi dalle realtà spezzate e imperfette che dobbiamo affrontare. Quindi amareggiati e cerchiamo ardentemente di fuggire nel mondo ideale di Platone, dove tutti gli oggetti difettosi vengono trasformati in idee perfette.

Repetita Iuvant… Oppure No?
Su questo argomento c’è qualcosa di molto intrigante nella porzione di Torà di questa settimana (Vayak’hèl e Pekudè). Chiunque abbia anche solo una certa familiarità con la Torà è consapevole della sua singolare concisione. Saghe intere, ricche, complesse e profonde, sono spesso trattate in pochi brevi versetti. Ogni parola della Torà è contata e per questo ha bisogno di avere pagine e pagine di spiegazioni.
Per i saggi e i rabbini degli ultimi 3000 anni, era chiaro che non ci sono parole o lettere superflue nella Bibbia, tanto che ampie sezioni del Talmud si basano su questa premessa. Se un verso è ripetitivo o se vengono usate due parole, dove una sarebbe sufficiente, oppure se una parola più lunga viene usata in luogo di una parola più breve, significa che lì c’è un messaggio, un nuovo concetto, un’altra legge. Per dare un’idea di quanto sia coincisa la Torà, il Talmud afferma che Rabbi Akiva poteva dedurre “cumuli di leggi dalla semplice corona (segni sopra alcune lettere come sono scritte nei rotoli della Torà) di una lettera” (Menakhòt 29b).
È quindi sorprendente osservare che due intere sezioni della Torà sono apparentemente superflue! Queste sono le due sezioni finali del libro dell’Esodo – Vayak’hèl e Pekudè – che raccontano la storia di come il popolo ebraico costruisce il Tabernacolo, Mishkàn, che avrebbe accompagnato il popolo durante il viaggio di 40 anni nel deserto. Nelle sezioni precedenti di questo libro, Terumà e Tetzavè, la Torà fornisce un resoconto dettagliato delle istruzioni che Dio diede a Moshè riguardo alla costruzione del Tabernacolo. Con una descrizione meticolosa, Dio espone a Moshè ogni dettaglio: ogni mobile, oggetto, articolo e vaso che dovrebbe diventare parte del Santuario. Nulla viene tralasciato, dall’Arca Santa, i Candelabri e l’Altare ai pilastri, pannelli murali, ganci e pioli, ecc. tutti specificati con le loro esatte forme e dimensioni. In queste parti, Dio presenta anche a Moshè le istruzioni esatte su come tessere le vesti sacerdotali – fino all’ultima nappa – indossate da coloro che avrebbero svolto il servizio nel Tabernacolo.
Poi, alcuni capitoli dopo in Vayak’hèl e Pekudè, nella storia di come il popolo ebraico eseguì queste istruzioni, le due parti precedenti vengono ripetute quasi alla lettera. La Torà registra, ancora una volta, ogni singola parte del Santuario e racconta l’effettiva costruzione, intaglio e tessitura di ogni pilastro, pannello murale, piolo, gancio, barra, arazzo, mobile e vaso che comprendeva il Santuario. Per la seconda volta, veniamo informati di ogni tutto di ogni forma, decoro e disegno artistico di ogni articolo del Tabernacolo.
Ora, una singola frase, qualcosa come “Il popolo ebraico ha creato il Santuario esattamente come Dio aveva comandato a Moshè”, non avrebbe risparmiato alla Torà più di mille parole? Perché la necessità di centinaia di frasi puramente ripetitive di fatti che sono stati dichiarati in precedenza?
Uno dei peggiori errori che un oratore o uno scrittore può fare è essere ripetitivo. Questo è vero per chiunque parli o scriva. Tanto più, per quanto riguarda la Torà, un documento divino ben noto per la sua straordinaria brevità. Eppure, in questo caso la Torà apparentemente non mostra nemmeno il minimo tentativo di evitare di ripetersi centinaia di volte!

Dove Ospitare Dio?
La verità della questione è che la Torà non si ripete affatto, poiché tratta di due distinti santuari: un modello celeste e un edificio terrestre.
Le prime due porzioni delineano la struttura e la composizione del Santuario, così come è stato trasmesso da Dio a Moshè. Questo era il Tabernacolo concettuale e celeste; un progetto divino per una casa da costruire in futuro. Nelle sue istruzioni a Moshè, su come costruire il Santuario, Dio dice (Esodo 26, 30): “Tu erigerai il Tabernacolo secondo le sue leggi, come ti è stato mostrato sulla montagna”. In altre parole, sulla vetta del monte Sinày, a Moshè fu mostrata un’immagine, una visione, della casa in cui Dio desiderava dimorare. Questa immagine era, ovviamente, eterea e sublime; era una casa creata in cielo da Dio stesso e presentata a uno degli uomini più spirituali della storia, Moshè.
Platone lo descriverebbe come “il tabernacolo ideale”, quello che può essere concepito solo nella e dalla nostra mente.
In contrasto con questo primo Santuario celeste vengono le ultime due parti dell’Esodo, in cui Moshè discende dalla gloria del Sinày e presenta al popolo di Israèl la missione di costruire una casa fisica per Dio in un deserto. Qui il popolo ebraico è chiamato a tradurre una visione trascendentale di una casa spirituale in una struttura fisica composta da “banali” materiali, come il cedro e l’oro, che essendo cose materiali e concrete sarebbero, nell’ottica platonica, limitati e imperfetti.
Questo secondo Santuario costruito da Israèl può aver somigliato, in ogni dettaglio, al modello spirituale descritto diversi capitoli prima, ma nella sua stessa essenza era un Santuario completamente diverso. Uno è stato “costruito” da un Dio infinito e assoluto; l’altro da mortali in carne e ossa. Uno consisteva interamente di spirito etereo, l’altro di materia grossolana. Uno è stato progettato in cielo, l’altro sulla terra. Uno era perfetto, l’altro era imperfetto.
Nella nostra vita personale questi due “Santuari” riflettono le due vite che la maggior parte di noi deve affrontare. Ognuno di noi possiede il proprio “Santuario” celeste, immaginato come un concentrato di serenità spirituale e psicologica e che rappresenta una visione e un sogno per una vita piena di amore, passione e gioia senza fine. Questa è la casa ideale, la famiglia ideale, il matrimonio ideale, il lavoro ideale che molti di noi sognano. Poi abbiamo il nostro Santuario terreno, una vita spesso piena di prove, sfide, battaglie e battute d’arresto, e tuttavia è proprio quella in cui tentiamo di creare uno spazio per Dio in mezzo a un cuore pieno di tumulti e una vita stressante.

Il Paradiso in Terra
Sorprendentemente, alla fine della porzione di questa settimana, ci viene detto (Esodo 40, 34-38.) che fu solo nel secondo Santuario che la presenza divina venne a risiedere. Dio in definitiva, desiderava esprimere la Sua verità ed eternità all’interno della dimora fisica creata da esseri umani mortali e su un suolo arido. Dio, invece non desiderava risiedere nel Santuario spirituale. “Dio desiderava una dimora nei regni umili” (Midrash Tanchuma, Nasso 16) e questo è lo scopo dell’esistenza dell’uomo nella creazione divina (Tanya, capitolo 36).
Quindi, perché Dio ha scelto di dimorare nel Santuario fisico?
Se la Torà non avesse ripetuto la storia del Santuario – derubricandola semplicemente in una frase del tipo “Il popolo ebraico ha creato il Santuario esattamente come Dio aveva comandato a Moshè” – avremmo potuto pensare che il nostro Santuario terreno è prezioso, ma solo perché assomiglia al Santuario celeste. Il Santuario più importante, avremmo potuto erroneamente pensare, è quello perfetto progettato da Dio nei regni spirituali. Conseguentemente avremmo potuto credere che la bellezza della dimora terrena dipendesse da quanto è capace di rispecchiare la dimora celeste. È proprio questa nozione, l’ideale platonico (in tutte le sue forme e in ogni tempo), che la Torà “voleva bandire”, ripetendo l’intera storia del Santuario una seconda volta. Dio non desiderava una duplicazione del Santuario spirituale sulla terra. Il valore della dimora terrena non era in relazione a quanto rispecchiasse o meno il suo gemello celeste. La Torà in questo modo ci vuole insegnare, in modo inimitabile, che Dio desiderava un secondo e distinto Santuario, che rispecchiasse il progetto di quello spirituale. Ma, allo stesso tempo, restasse distinto e unico nel suo scopo: creare una dimora per il divino in un universo grossolano; una candela della verità in un mondo di bugie. È in questa dimora piena di lotte che Dio si lascia trovare!
Quindi, se la Torà non avesse ripetuto la storia del Santuario, si sarebbe risparmiata centinaia di frasi, ma ci avrebbe privato del suo messaggio forse più potente: solo l’uomo, vivendo la sua vita quotidiana ordinaria, imperfetta e frammentata – permeata della moralità e spiritualità della Torà e delle azioni spirituali mitzvòt – può creare il paradiso in terra.
Forse è per questo che Dio ha scelto il secondo, e non il primo, Santuario come sua dimora. In superficie, il Santuario in cielo è molto più bello e perfetto del Santuario in terra. La verità, tuttavia, è che esistono una bellezza e una grande verità nel nostro tentativo di introdurre una scintilla di idealismo in una terra spiritualmente desolata che un palazzo costruito in cielo non potrà mai duplicare.
Quando Dio vede un essere umano fisico, pieno di lotta e ansia, allungare la mano per aiutare una persona bisognosa o impegnarsi in una mitzvà, Dio si rivolge ai miliardi di angeli che riempiono i cieli e dice: “Hai mai visto qualcosa più bella di così”? (Midràsh Rabbà)

Questo saggio si basa su un discorso pronunciato dal Rebbe, Shabbàt Vayak’hèl – Pekudè 5718, 15 marzo 1958 (Likuté Sikhòt, vol. I, pp. 195-198) e da un articolo di Y. Y. Jacobson

CORONA VIRUS: PERCHÉ?
https://youtu.be/UzBWoletIOI

l Rapporto Tra Dio E Medicina
In conseguenza alle domande sul significato di questo periodo ho raccolto alcune riflessioni in base agli insegnamenti dei grandi maestri.

Dalla porzione di questa settimana di Vayak’hèl…

https://www.facebook.com/shlomo.bekhor/posts/10157996402895540