BEMIDBAR 5783

17 Maggio 2023 0 Di HaiimRottas

B’H’ Questo Shabbat 29 IYÀR 5783 20 MAGGIO 2023 cominceremo a leggere il 4° libro della Torà Bemidbàr: Parashà Bemidbàr Num 1 – 4: 20
HAFTARÀ
Hos 2:1,22

Si legge 6° Pirke Avot

Vigilia di Rosh Chodesh

Si annuncia Rosh Chodesh

I TRE CENSIMENTI
La parashà di Bemidbàr si apre con il comando di Hashèm di censire il popolo ebraico. Di fatto, ci
furono tre censimenti nei tredici mesi che seguirono l’esodo dall’Egitto. Qual è il significato
spirituale di questo genere di conteggio comandato da Hashèm? Perché questi tre censimenti
furono tanto vicini fra loro? Infine, qual è il legame fra questo concetto e la festa di Shavu’òt, che
cade sempre in prossimità con la lettura di Bemidbàr?
Le Nozze con Hashèm
La parashà di Bemidbàr ha un legame particolare con la festa di Shavu’òt, come di norma accade
fra ciascuna parashà e il periodo dell’anno in cui viene letta; infatti, Bemidbàr si legge lo Shabbàt
prima di Shavu’òt.
Shavu’òt, la festa che commemora il Dono della Torà a Israèl, viene chiamata anche il
“matrimonio” di Hashèm con il Suo popolo. Poiché lo Shabbàt che precede le nozze lo “sposo” sale
alla Torà e si eleva spiritualmente come preparazione al giorno delle nozze stesso, così Bemidbàr si
legge come preparazione all’unione fra Hashèm e Israèl, che avvenne con il Dono della Torà e che
avviene ogni anno di nuovo, perché tutte le feste ripetono la stessa rivelazione di Hashèm nel
mondo come la prima volta.
Il nesso di questo rapporto si cela nelle prime parole della parashà (1, 2), in cui Hashèm comanda:
“Censite tutta la congregazione dei figli di Israèl”, ma esso non può emergere chiaramente finché
non si comprende il vero significato del censimento.
Rashi commenta che questo censimento è il terzo consecutivo comandato da Hashèm e spiega:
“Poiché essi (il popolo ebraico) sono cari (ad Hashèm), Egli li conta sempre: quando uscirono
dall’Egitto li contò; quando caddero a causa del peccato del Vitello d’Oro li contò; quando si
apprestò a far posare la Sua presenza fra loro nel Tabernacolo li contò, poiché al primo di nissàn il
Tabernacolo fu eretto e al primo di iyàr (il mese successivo) li contò”.
Emergono subito tre problemi da questo commento:
1) quando si possiedono cose preziose spesso le si estraggono per contarle, come per
riacquistarne familiarità. Hashèm però conosce bene il numero dei figli di Israèl e non ha bisogno
di censimenti. Quindi, per quale motivo Dio ha ordinato questo censimento collettivo?
2) Perché trascorse un mese fra l’evento a cui era dovuto il terzo censimento (l’edificazione del
Tabernacolo) e il censimento stesso?
3) Perché vi era una differenza fra questi tre censimenti? La Torà, infatti, non precisa da chi fu
effettuato il primo (all’uscita dall’Egitto); il secondo poi fu effettuato da Moshè, mentre il terzo sia
da Moshè che da Aharòn. Perché Aharòn fu coinvolto proprio nell’ultimo censimento e non nei
due precedenti?
Una Manifestazione d’Amore
Innanzitutto, è necessario cercare di capire la portata e il significato “semplice” del censimento.
Quando si contano oggetti o persone, si trovano tutti a uno stato di parità; l’uomo più santo e il
più grande peccatore sono entrambi contati una volta, né una in più, né una in meno. Poiché,
come ci dice Rashi, il censimento era una manifestazione dell’amore di Hashèm, doveva essere un
atto rivolto a quell’aspetto, dove ciascun israelita è uguale all’altro. Non uguali nell’intelletto o
nell’integrità morale (ove ognuno è diverso dall’altro), bensì nella loro anima ebraica ovvero
nell’essenza. Poiché si tratta di qualcosa che è quasi impossibile da scorgere (normalmente non si
riesce a percepire l’anima), il censimento interviene allo scopo di mettere in risalto questo fatto, di
portarlo alla superficie e rendere ogni israelita consapevole di questo.
È ora possibile risolvere una delle difficoltà del commento di Rashi che scrive che Hashèm conta il
popolo “sempre”, ovvero in continuazione! Tuttavia, Rashi stesso precisa che ci furono tre
censimenti, a cui se ne aggiunse un altro, trentotto anni dopo (vd cap 26 in parashà Pinekhàs),
durante le peregrinazioni nel deserto e poi altri ancora, ma a intervalli molto lunghi. Secondo il
midràsh, ci furono in totale nove censimenti fino ai nostri giorni e il decimo avverrà solo con
l’avvento di Mashìakh. È difficile interpretare le parole di Rashi nel senso che i censimenti sono
solo dei “momenti speciali”, poiché egli dice chiaramente “sempre”, non lasciando spazio a
comprensioni diverse.
Però, ora che abbiamo visto come lo scopo del censimento era di far emergere l’essenza di
ciascuna anima ebraica, questa rivelazione acquisisce una profondità che trascende le erosioni del
tempo, poiché essa è letteralmente sempre valida ed effettiva. Proprio come affermato da Rashi
nel suo commento, ossia che “Hashèm li conta sempre”.
Il Tempo e l’Amore
Inoltre questo spiega il fatto che quando, in epoche di persecuzione, l’ebreo si lascia trascinare
dall’idolatria (e da qualunque altra trasgressione, perché costretto dall’inclinazione al male), il
campo del pensiero che gli si apre davanti è molto vasto: egli potrebbe pensare che, poiché il
pentimento cancella tutti i peccati, dato che nulla può frapporsi dinanzi al pentimento, e dato che
sta tradendo la propria connessione essenziale della sua anima col Creatore solo per breve tempo
e poiché la via del pentimento è sempre aperta, può arrivare a credere di non aver motivo di
preoccuparsi per un singolo peccato.
Eppure, la storia ci insegna che in ogni epoca e fra persone di ogni genere, gli israeliti si sono
mostrati desiderosi di sacrificarsi ad Hashèm, piuttosto che tradire la propria fede, anche per un
solo istante. Questo, perché il rapporto fra Hashèm e l’anima ebraica trascende il tempo: romperlo
per un attimo non è meno grave che romperlo per un intero millennio.
Dunque, questo è l’ulteriore e profondo significato celato nell’espressione di Rashi “Egli li conta
sempre”: il censimento genera un amore per Hashèm che è più profondo delle vicissitudini del
tempo e di qualunque ragionamento logico e razionale. Esso rivela il punto più profondo e celato
dell’anima, che consente a Israèl di essere sempre pronto a sacrificarsi.
Le Tre Fasi della Rivelazione dell’Anima
È ora possibile comprendere la differenza fra i tre censimenti menzionati da Rashi: essi
rappresentavano tre fasi del processo di rivelazione. Al primo censimento, l’anima ebraica venne
risvegliata dall’amore di Hashèm; al secondo, l’amore iniziò a esercitare la sua influenza sulla vita
di Israèl; al terzo, infine, l’amore colmò tutte le azioni del popolo perché tale unione è nata
dall’impegno del popolo dal basso e non un ordine forzato dall’alto.
Il primo censimento, che avvenne con la partenza degli ebrei dall’Egitto, risvegliò lo spirito di
sacrificio al punto da fargli desiderare di seguire Hashèm in un deserto sterile e incolto, questo
però non toccò le loro emozioni.
Il secondo, quello che precedette la costruzione del Tabernacolo, si spinse più in là, coinvolgendo
anche intelletto e le emozioni degli ebrei, che si stavano preparando all’opera che avrebbe
condotto fra loro la Presenza Divina, come è scritto e “Mi faranno un Santuario e risiederò fra loro”
(Shemòt 25, 8). L’impeto però proveniva ancora dall’esterno: era per comando divino che
compivano il loro operato, non per un impulso interiore.
Con il terzo censimento venne, invece, il servizio nel Tabernacolo voluto dal popolo e non per
ordine divino, quando gli ebrei, con la loro volontà, portarono Hashèm fra loro. Allora ciascuna
loro azione testimoniava una completa unione dell’anima con Hashèm. Poiché se l’unione nasce
da un comandamento rimane sempre un’unione superficiale che non si lega alla essenza
dell’uomo.
È ora chiaro perché fu necessario un mese fra il completamento del Tabernacolo (in nissàn) e il
terzo censimento (in iyàr). Nissàn è infatti il mese di Pèssakh, quando si coglie la rivelazione
proveniente dall’alto: non fu il merito degli ebrei a far sì che Hashèm li facesse uscire dall’Egitto,
bensì fu soltanto grazie alla Sua bontà e misericordia. Iyàr è invece il mese del conteggio
dell’Òmer, e questo conteggio inizia con l’offerta delle primizie dei cereali (portando dell’orzo),
questa offerta viene accompagnata con l’offerta di alcuni sacrifici particolari. Tutto questo è legato
alla fatica della semina raccolta dell’uomo che si eleva in santità portando le primizie al Santuario.
A Pèssakh, invece, l’uomo non ha compiuto nessun intervento, poiché la rivelazione era solo
dall’alto. Grazie all’Òmer si crea una connessione che proviene dal basso, la risposta divina ai
nostri meriti e non soltanto a causa della grazia divina che scende dall’alto, e questo è accentuato
più di tutto nel mese di iyàr dove in ogni giorno contiamo l’Òmer.
Proseguendo nello stesso senso, si può capire perché Aharòn prese parte solo a quest’ultimo
censimento: Moshè era colui che comunicava la rivelazione divina, un canale fra l’alto e il basso.
Aharòn, il sacerdote, era colui che elevava il popolo di Israèl dal basso all’alto.
Con il terzo censimento, Israèl raggiunge finalmente la fase in cui le sue azioni sono permeate dalla
consapevolezza dell’anima, anche nell’intelletto ed emozioni, e non solo in maniera superficiale
poiché solo ora può dare luce alla “rivelazione proveniente dal basso”.
Adesso il legame fra Bemidbàr e Shavu’òt è chiaro. Al Dono della Torà, Israèl e Hashèm sono uniti
in maniera tale che Hashèm trasmette la sua rivelazione dall’alto, permettendo ai figli di Israèl di
elevarsi da soli dal basso verso l’alto. Così, in preparazione alla ripetizione annuale dell’evento,
leggiamo la parashà che ci narra il terzo censimento; in cui le due rivelazioni simboleggiate da
Moshè e da Aharòn o dal mese di nissàn e da quello di iyàr si uniscono. Considerando sempre il
censimento come un gesto di amore da parte di Hashèm, si può ricreare quella unione infinita e
profonda, che caratterizzò il Dono della Torà, in cui Hashèm “sposò” il Suo popolo Israèl.
(Likuté Sikhòt, vol. VIII pp. 1-7)

La mattina del primo giorno della festa di Shavuòt, una madre va in camera da letto per svegliare suo figlio e gli dice che è giunta l’ora di prepararsi per andare in sinagoga, ma il figlio risponde con un perentorio: “Non vado.”
“Perché no?” gli chiede.
“Ti darò due buoni motivi”, dice il figlio: “Uno, non mi piace” e “due, non mi piace.”
Sua madre risponde: “Ti darò due buoni motivi per cui DEVI andare in sinagoga. “UNO, hai 54 anni”, e “DUE, sei il rabbino”.
Shavu’òt è una ricorrenza che di solito viene ricordata per il dono della Torà, per la sottomissione di Israèl (Naassè Venishmà-Faremo e Ascolteremo), per la festa delle primizie della frutta, per la nascita e la morte di Re David e per altri motivi ancora. Tuttavia c’è un’altra motivazione non meno importante e spesso dimenticata: la grandezza della donna!
Durante Shavu’òt, infatti, leggiamo la Meghillà di Ruth e ricordiamo la grandezza di questa donna così vicina all’ebraismo, che si convertì e dalla cui discendenza nascerà il Re David. Ecco quindi un’occasione per soffermarci a pensare all’importanza del ruolo della donna e al carico di responsabilità che la investe, dall’accudire la casa all’educazione dei bambini, essa è il pilastro della famiglia e quindi anche della nostra discendenza.
La festa di Shavu’òt cade il 6 di Sivàn (in diaspora anche il 7), al termine del conteggio dell’‘Òmer, un periodo di sette settimane, contate partendo dal primo giorno di Pèssakh.
All’inizio di tale periodo, si faceva offerta al Santuario di Yerushalàyim di un òmer (unità di misura) del primo raccolto di orzo e, al termine delle sette settimane, di un òmer del primo raccolto di frumento. La festa ha preso nome da queste “settimane”.
Shavu’òt è detta anche “Zman Matàn Toratènu”, “Il tempo in cui ci è stata data la Torà”. Il nome della festa si riferisce alle sette settimane trascorse dall’uscita dall’Egitto fino al momento del Dono della Torà sul Monte Sinày. Milioni di uomini, donne e bambini, furono testimoni della rivelazione; il Midràsh insegna che le anime di tutte le generazioni, assistettero all’evento ai piedi del monte, udendo i Dieci Comandamenti dalla voce di Dio stesso.

Con le parole “Naassè venishmà”, “Faremo e ascolteremo”, il popolo ebraico accettò di osservare i Comandamenti di Dio anche prima di capirli, diventando così il simbolo della presenza di Hashèm nel mondo, esempio di comportamento etico e morale basato sulla legge di Dio.
La Torà è ben più di un libro sacro e il suo contenuto va al di là delle conoscenze e della saggezza. La Torà ci offre una serie di leggi divine, una guida universale applicata in tremila anni da tutti gli ebrei. Si compone di due parti, una scritta e una orale, entrambe date a Moshè sul Sinày. La parte orale spiega e chiarisce quella scritta ed è stata trasmessa di generazione in generazione fino alla sua compilazione finale, il Talmùd. Questo, a sua volta, ci collega alla rivelazione sul Sinày e ci offre una guida per la vita di ogni giorno: ovunque e in ogni situazione la Torà, scritta e orale, ci fornisce gli strumenti per giudicare le nostre azioni.
Per rispettare il nostro patto, il primo giorno di Shavu’òt ci si reca al Bet haKnesset: uomini, donne, bambini e perfino neonati, tutti hanno l’obbligo di ascoltare attentamente i Dieci Comandamenti. per seguire la lettura dei Comandamenti.
I saggi dicono che dobbiamo sempre vedere la Torà come se l’avessimo appena ricevuta; a Shavu’òt dobbiamo rinnovare l’impegno di studiarla e osservarla.
Shavu’òt, a differenza di Pèssakh e Sukkòt dura solo un giorno (due in diaspora), e non prevede precetti particolari. Il Rebbe di Lubàvitch spiega che questa non è da considerarsi una mancanza, ma una superiorità che essa ha sulle altre feste. Nelle altre celebrazioni, infatti, l’unione che abbiamo con Hashèm non è diretta, ma avviene tramite determinate azioni, legate alla matzà e alla sukkà. L’unione che si ha a Shavu’òt, invece, non ha bisogno di tramite perché in essa si rivela l’essenza che unisce Israèl a Dio, che è al di sopra della dimensione temporale. Per questo dura un solo giorno e per questo non ha bisogno di precetti perché, quando l’ebreo riceve la Torà, l’unione con Hashèm è immediata in quanto il legame tra Israèl, la Torà e Hashèm è molto profondo. (Rebbe di Lubàvitch)
Inoltre Shavu’òt si usa decorare con fiori e piante sia le sinagoghe che le proprie case, in ricordo dell’improvvisa fioritura del Monte Sinày in onore del Dono della Torà. Uomini, donne e bambini hanno l’obbligo di recarsi al Bet haknèsset per la lettura dei Dieci Comandamenti.
ALIMENTAZIONE
Infine durante la festa di Shavu’òt si usa preparare specialità a base di latte e derivati. In alcune comunità si consumano latticini solo in un pasto, in altre tale usanza è esteso ai due giorni. Una delle molte spiegazioni di questo costume è che quando gli ebrei ricevettero la Torà non erano ancora esperti delle leggi della shekhità (macellazione rituale) e quindi si astennero dal mangiare carne. Inoltre, la Torà è tradizionalmente paragonata a tutto ciò che è dolce e per questo è associata anche ai latticini, che hanno un gusto dolce. Si può anche aggiungere un’interpretazione legata al valore numerico della parola “latte” (khalàv) che è di 40, come i giorni in cui Moshè è rimasto sul Sinày. Oltre a ciò, dato che Shavu’òt è considerato il giorno della nascita del popolo ebraico, esso è paragonato a un neonato, che non potrebbe sopravvivere senza latte. In modo analogo i Benè Israèl adulti, dovrebbero, metaforicamente, nutrirsi solo di Torà, fonte di vita di ogni ebreo.
Che in questo giorno possa Hashèm ricordarsi della sua promessa di redimere l’umanità e far giungere Mashìakh in modo completo ed evidente, Amen.

(Tratto dal libro Lekhàyim manuale delle feste Ed. Mamash, pp.365-370)

Il nome ebraico del Libro della Genesi, Bereshìt, significa “in principio”; il libro presenta lo sfondo storico e religioso necessario alla creazione del popolo ebraico, alla consegna della Torà e al dono della Terra di Israele. Il nome ebraico del Libro dell’Esodo, Shemòt, significa “nomi”, e descrive il modo in cui Hashèm estrasse “una nazione dall’altra” e plasmò l’identità e la psiche del popolo ebraico, il cui compito è quello di trasformare questo mondo in un santuario di consapevolezza del divino. Il nome ebraico del Libro del Levitico, Vayikrà, significa “ed Egli chiamò”, il quale mostra nel dettaglio come gli ebrei siano tenuti a rispondere alla “chiamata” divina rimanendo separati dal materialismo di questo mondo, ma allo stesso tempo, elevandolo e rendendolo spirituale.
Il nome ebraico del Libro dei Numeri, Bemidbàr, significa “nel deserto”. L’immagine del deserto è quella di una terra desolata, non coltivata e non civilizzata, ed è infatti presa come simbolo del nostro mondo fisico, che è imperfetto, largamente indifferente, e spesso anche antagonista alla percezione del divino.
All’inizio della Genesi la Torà ci dice come il mondo – concepito inizialmente come giardino di Hashèm – si sia degradato tanto da diventare un “deserto” (Bereshìt), e come il piano superiore del progetto divino porti alla nascita di Israèl (Shemòt) al quale viene assegnata la missione di riportare il mondo alla sua natura intrinseca e inoltre ci insegna come farlo (Vayikrà). La Torà ora ci racconta di come Israèl viene mandato in questo “deserto” per compiere la sua missione: per testare la dedizione che mostra verso il suo destino e la resistenza agli elementi ostili dell’ambiente terreno che lo circonda. Questa tensione drammatica sottolinea l’importanza della storia di Israèl e il suo impatto sul creato, così come trasmessa nel Libro di Bemidbàr.
Non c’è quindi da stupirsi che la parashà che apre questo Libro – e che condivide con esso il nome Bemidbàr, “nel deserto” – descriva come Dio arruoli la giovane nazione nel Suo esercito. In verità, ci si era riferiti al popolo ebraico quale esercito da quando esso lasciò l’Egitto : “E fu proprio in quello stesso giorno che le legioni di Hashèm uscirono dalla terra d’Egitto”. Ma è solo in questa parashà, quando esso è in procinto di uscire dalla serena dimensione spirituale della “yeshivà” del Monte Sinày, una sorta di torre d’avorio spirituale, e inizia la sua peregrinazione nel deserto, che viene ufficializzato questo compito come esercito di Hashèm. Un viaggio pieno di presagi durante il quale Israèl è censito, organizzato secondo genealogia e coscritto in un esercito regolare.
Quindi la prima lezione di questa parashà è che non dovremmo mai illuderci che il mondo nel suo stato attuale sia un’entità benigna, neutra e di non avere alcun ruolo nel suo perfezionamento. Il mondo e ogni cosa in esso è una sfida, una continua “chiamata alle armi” che ci esorta a radunare le nostre più potenti forze spirituali allo scopo di redimerlo, di riportarlo al suo stato originale, come è stato creato: una dimora per Hashèm.

DESERTO: LO SCOPO DELLA NOSTRA ESISTENZA

Pensare di aver sconfitto il “nemico” e tutte le tentazioni che ci circondano, illudersi che esse non ci influenzino negativamente o di poter convivere tranquillamente con le nostre innate tendenze, questo è già un sintomo di caduta.
Ma perché tutti questi dettagli? La Parashà di Bemidbàr sembra essere un infinito database di nomi di famiglie, statistiche e ridondanze. Non sarebbe stato molto più semplice se la Torà avesse riassunto l’intero censimento e il processo di reclutamento in poche parole o frasi?
Per cominciare a capire il perché, dobbiamo notare in primo luogo che – a parte pochissime eccezioni – la Torà descrive il conteggio di ciascuna tribù esattamente nella stessa maniera. Perciò, da una parte, il censimento rappresenta un importante strumento di eguaglianza: ognuno conta come un singolo, e le nostre rispettive individualità vengono perdute diventando componenti anonime dell’intero conglomerato. D’altra parte, ognuno viene contato, poiché l’insieme collettivo sarebbe inadeguato se mancasse anche di una sola unità costituente. Questo indica che ogni individuo ha il suo contributo esclusivo e che solo lui o lei può rendere la collettività completa.
In altre parole, il censimento esprime l’interazione paradossale tra l’individuo e l’identità collettiva. Ognuno di noi è un individuo unico, totalmente differente dall’altro, e benedetto con i suoi propri punti di forza e con le sue sfide. Ognuno di noi, quindi, ha un valore infinito e insostituibile. In generale, questa individualità è espressa dal fatto che il popolo ebraico è suddiviso in dodici distinte tribù, ognuna delle quali ricevette, dal comune capostipite Ya’akòv , la sua propria e particolare benedizione, basata sul tipo di servizio divino di ogni singolo. Il fatto che ogni tribù viene contata separatamente ci viene presentato dalla Torà per informarci della nostra unicità e del nostro essere indispensabili, per via del contributo insostituibile che ogni individuo realizza nella battaglia volta a rivelare il divino in questo mondo.
D’altra parte, poiché condividiamo tutti anche un’identità collettiva comune, allora ci rispecchiamo e siamo complementari l’un l’altro. Nessuno di noi è in grado di combattere da solo, e dobbiamo tutti raccogliere le forze e l’ispirazione uno dall’altro. Per questa ragione, non è sufficiente ascoltare e leggere il censimento solamente della propria tribù di appartenenza; dobbiamo ascoltare e leggere il censimento di tutte le tribù e ognuna individualmente, anche se apparentemente ci sembrano tutte uguali . In questo modo, assorbiamo tutte le forze spirituali di ogni singola tribù e siamo in grado di identificarci con tutte le loro particolarità. L’identità comune e collettiva che tutti condividiamo è il nucleo ed essenza dell’anima divina, “la parte superiore di Hashèm” che risiede dentro ognuno di noi. Ma paradossalmente, è questa stessa anima divina la fonte della nostra individualità. Questo perché il Divino stesso è al medesimo tempo semplice e complesso: Hashèm è un’unità assolutamente semplice e non complessa, e tutto ciò che è divino riflette questa unità. Ma Hashèm è anche la fonte di tutta l’esistenza, il che significa che l’unità inseparabile divina, contiene il potenziale per le infinite varietà di espressione. Pertanto ogni anima, che è parte di Hashèm, è sia un’espressione dell’assoluta semplicità divina, sia un’espressione di una delle infinite sfaccettature dell’Altissimo.
Quindi il paradosso che il censimento ci insegna a sviluppare è quello di focalizzarci su quell’aspetto della nostra personalità che abbiamo tutti in comune e che allo stesso tempo è la fonte della nostra individualità unica e infinita, ovvero il nucleo interiore dell’anima divina.
È questa essenza della Divinità che è dentro di noi che ci motiva e sprona nella “battaglia” quotidiana per redimere il mondo e riportarlo alla sua vera essenza originale. Una volta che siamo in sintonia con la connessione interiore che abbiamo con Hashèm e con la nostra missione per la quale siamo stati inviati nel mondo, niente potrà opporsi alla nostra dedizione e alla sfida del Libro di Bemidbàr: affrontare il viaggio pericoloso attraverso un “deserto”, apparentemente privo della presenza divina, per trasformarlo in ultima analisi in una Terra Promessa.
Il quarto libro della Torà rappresenta la conclusione dello scopo del creato ed è per questo che il nome di questo libro è Bemidbàr – Deserto, ossia la trasformazione del totale profano in un luogo divino tramite il Tabernacolo nel deserto. Pertanto, per realizzare questo ci vuole un “esercito” spirituale pronto a combattere la nostra vera missione nel mondo, e ogni persona al mondo fa parte di questo esercito ed è fondamentale per questo completamento, per il semplice fatto che è stato mandato in questo mondo. Questo si collega con il nome Numeri che sono i conteggi dei numeri delle tribù, che sono i conteggi delle schiere degli eserciti che combattono per riportare il deserto in un luogo abitabile da Hashèm.
Ispirati in tal modo, siamo pronti per arruolarci nei ranghi delle legioni di Hashèm, per venir censiti e coscritti nelle forze del bene e del sacro, la cui missione è portare il creato al suo autentico compimento .

(tratto dal nuovo libro della Torà dei Numeri in uscita)

Domenica sera 16 Maggio 2021 5 SIVÀN 5781 sarà la vigilia di Shavuot 5781 il patto sul monte di Sinày e la ricezione della Torà.
Come mai, tra tutte le mitzvòt che Dio ci ha dato, solo Dieci di queste vennero scolpite sulle Tavole? Nella Torà ci sono ben 613 comandamenti e i famosi Dieci sono inclusi in questo numero. Ognuno di essi ci offre l’opportunità di avvicinarci a Dio e una mitzvà non è meno importante di un’altra. Anche se credere nell’Onnipotenza Divina può sembrare superiore all’evitare di accendere una luce di Shabbàt, entrambi sono elementi necessari per compiere il volere Divino: il Signore desidera che noi osserviamo tutti i Suoi comandamenti e ciascuno di essi rappresenta il Suo volere eterno.
I Dieci Comandamenti, quindi, non sono più importanti degli altri. Come mai allora sul Monte Sinày ci furono dati solamente questi? I Dieci sono comandamenti generali e globali che contengono in sé gli altri 603; infatti, all’interno di essi è possibile trovare la radice di tutti gli altri.
Il comandamento dello Shabbàt, ad esempio, include i 39 lavori proibiti (melakhòt) e i loro derivati; “Non rubare” comprende le leggi relative al rapimento, all’inganno, agli imbrogli e altri ancora.
L’insieme dei Dieci Comandamenti può essere condensato nei primi due; infatti, gli altri otto derivano tutti da Io sono il Signore tuo Dio e da Non avrai altri dei davanti a Me. Questi due possono, a loro volta, essere concentrati nel primo comandamento, poiché il secondo deriva dal primo. Secondo la mistica, il primo comandamento può essere ridotto alla sua parola iniziale, Anokhì, Io; e questa può essere concentrata nella lettera àlef. Per questo quando un bambino impara la prima lettera dell’àlef-bet, sta di fatto imparando la Torà intera, racchiusa in una sola lettera.
Questo processo di riduzione è simile al DNA contenuto in una cellula che include le istruzioni per la composizione di un intero corpo. Ognuno di quei geni minuscoli e delicati fungono da mattoni per il nostro sistema corporeo; allo stesso modo, tutti i comandamenti che Dio ci ha dato sono codificati all’interno dei Dieci Comandamenti.
Quando verrà il Mashìakh ci saranno rivelati i segreti più profondi della Torà, riusciremo a capire il vero significato di ogni parola e di ogni mitzvà, lo studio sarà di una qualità talmente superiore a quello di oggi che i nostri saggi poterono affermare: La Torà studiata oggi è come un soffio rispetto a quella di Mashìakh.
Shavuot Sammeah e
Shabbat Shalom

Rav Shlomo Bekhor

NUOVO ARTICOLO ATOMICO DAL NUOVO VOLUME DELLA TORA’: PANORAMICA BEMIDBAR

Deserto: Lo Scopo della Nostra Esistenza

Il nome ebraico del Libro della Genesi, Bereshìt, significa “in principio”; il libro presenta lo sfondo storico e religioso necessario alla creazione del popolo ebraico, alla consegna della Torà e al dono della Terra di Israele. Il nome ebraico del Libro dell’Esodo, Shemòt, significa “nomi”, e descrive il modo in cui Hashèm estrasse “una nazione dall’altra” e plasmò l’identità e la psiche del popolo ebraico, il cui compito è quello di trasformare questo mondo in un santuario di consapevolezza del divino. Il nome ebraico del Libro del Levitico, Vayikrà, significa “ed Egli chiamò”, il quale mostra nel dettaglio come gli ebrei siano tenuti a rispondere alla “chiamata” divina rimanendo separati dal materialismo di questo mondo, ma allo stesso tempo, elevandolo e rendendolo spirituale.

Il nome ebraico del Libro dei Numeri, Bemidbàr, significa “nel deserto”. L’immagine del deserto è quella di una terra desolata, non coltivata e non civilizzata, ed è infatti presa come simbolo del nostro mondo fisico, che è imperfetto, largamente indifferente, anti-etico, e spesso anche antagonista alla percezione del divino. 

All’inizio della Genesi la Torà ci dice come il mondo – concepito inizialmente come giardino di Hashèm – si sia degradato tanto da diventare un “deserto” (Bereshìt), e come il piano superiore del progetto divino porti alla nascita di Israèl (Shemòt) al quale viene assegnata la missione di riportare il mondo alla sua natura intrinseca e inoltre ci insegna come farlo (Vayikrà). La Torà ora ci racconta di come Israèl viene mandato in questo “deserto” per compiere la sua missione: per testare la dedizione che mostra verso il suo destino e la resistenza agli elementi ostili dell’ambiente terreno che lo circonda. Questa tensione drammatica sottolinea l’importanza della storia di Israèl e il suo impatto sul creato, così come trasmessa nel Libro di Bemidbàr.

Non c’è quindi da stupirsi che la parashà che apre questo Libro – e che condivide con esso il nome Bemidbàr, “nel deserto” – descriva come Dio arruoli la giovane nazione nel Suo esercito. In verità, ci si era riferiti al popolo ebraico quale esercito da quando esso lasciò l’Egitto: “E fu proprio in quello stesso giorno che le legioni di Hashèm uscirono dalla terra d’Egitto”. Ma è solo in questa parashà, quando esso è in procinto di uscire dalla serena dimensione spirituale della “yeshivà” del Monte Sinày, una sorta di torre d’avorio spirituale, e inizia la sua peregrinazione nel deserto, che viene ufficializzato questo compito come esercito di Hashèm. Un viaggio pieno di presagi durante il quale Israèl è censito, organizzato secondo genealogia e coscritto in un esercito regolare.

Quindi la prima lezione di questa parashà è che non dovremmo mai illuderci che il mondo nel suo stato attuale sia un’entità benigna, neutra e di non avere alcun ruolo nel suo perfezionamento. Il mondo e ogni cosa in esso è una sfida, una continua “chiamata alle armi” che ci esorta a radunare le nostre più potenti forze spirituali allo scopo di redimerlo, di riportarlo al suo stato originale, come è stato creato: una dimora per Hashèm. 

Pensare di aver sconfitto il “nemico” e tutte le tentazioni che ci circondano, illudersi che esse non ci influenzino negativamente o di poter convivere tranquillamente con le nostre innate tendenze, questo è già un sintomo di caduta.

Ma perché tutti questi dettagli? La Parashà di Bemidbàr sembra essere un infinito database di nomi di famiglie, statistiche e ridondanze. Non sarebbe stato molto più semplice se la Torà avesse riassunto l’intero censimento e il processo di reclutamento in poche parole o frasi?

Per cominciare a capire il perché, dobbiamo notare in primo luogo che – a parte pochissime eccezioni – la Torà descrive il conteggio di ciascuna tribù esattamente nella stessa maniera. Perciò, da una parte, il censimento rappresenta un importante strumento di eguaglianza: ognuno conta come un singolo, e le nostre rispettive individualità vengono perdute diventando componenti anonime dell’intero conglomerato. D’altra parte, ognuno viene contato, e l’insieme collettivo è inadeguato se mancasse anche di una sola unità costituente. Questo indica che ogni individuo ha il suo contributo esclusivo e che solo lui o lei può rendere la collettività completa. 

In altre parole, il censimento esprime l’interazione paradossale tra l’individuo e l’identità collettiva. Ognuno di noi è un individuo unico, totalmente differente dall’altro, e benedetto con i suoi propri punti di forza e con le sue sfide. Ognuno di noi, quindi, ha un valore infinito e insostituibile. In generale, questa individualità è espressa dal fatto che il popolo ebraico è suddiviso in dodici distinte tribù, ognuna delle quali ricevette, dal comune capostipite Ya’akòv, la sua propria e particolare benedizione, basata sul tipo di servizio divino di ogni singolo. Quindi, ogni tribù viene contata separatamente, e questo ci viene presentato dalla Torà per informarci della nostra unicità e del nostro essere indispensabili, per via del contributo insostituibile che ogni individuo realizza nella battaglia volta a rivelare il divino in questo mondo.

D’altra parte, poiché condividiamo tutti anche un’identità collettiva comune, allora ci rispecchiamo e siamo complementari l’un l’altro. Nessuno di noi è in grado di combattere da solo, e dobbiamo tutti raccogliere le forze e l’ispirazione uno dall’altro. Per questa ragione, non è sufficiente ascoltare e leggere il censimento solamente della propria tribù di appartenenza; dobbiamo ascoltare e leggere il censimento di tutte le tribù e ognuna individualmente, anche se apparentemente ci sembrano tutte uguali. In questo modo, assorbiamo tutte le forze spirituali di ogni singola tribù e siamo in grado di identificarci con tutte le loro particolarità. L’identità comune collettiva che tutti condividiamo è il nucleo ed essenza dell’anima divina, “la parte superiore di Hashèm” che risiede dentro ognuno di noi. Ma paradossalmente, è questa stessa anima divina la fonte della nostra individualità. Questo perché il Divino stesso è al medesimo tempo semplice e complesso: Hashèm è un’unità assolutamente semplice e non complessa, e tutto ciò che è divino riflette questa unità. Ma Hashèm è anche la fonte di tutta l’esistenza, il che significa che l’unità inseparabile divina, contiene il potenziale per le infinite varietà di espressione. Pertanto ogni anima, che è parte di Hashèm, è sia un’espressione dell’assoluta semplicità divina, sia un’espressione di una delle infinite sfaccettature dell’Altissimo.

Quindi il paradosso che il censimento ci insegna a sviluppare è quello di focalizzarci su quell’aspetto della nostra personalità che abbiamo tutti in comune e che allo stesso tempo è la fonte della nostra individualità unica e infinita, ovvero il nucleo interiore dell’anima divina.

È questa essenza della Divinità che è dentro di noi che ci motiva e sprona nella “battaglia” quotidiana per redimere il mondo e riportarlo alla sua vera essenza originale. Una volta che siamo in sintonia con la connessione interiore che abbiamo con Hashèm e con la nostra missione per la quale siamo stati inviati nel mondo, niente potrà opporsi alla nostra dedizione e alla sfida del Libro di Bemidbàr, nell’affrontare il viaggio pericoloso attraverso un “deserto” apparentemente privo della presenza divina per trasformarlo in ultima analisi in una Terra Promessa.

Il quarto libro della Torà rappresenta la conclusione dello scopo del creato ed è per questo che il nome di questo libro è Bemidbàr – Deserto, ossia la trasformazione del totale profano in un luogo divino tramite il Tabernacolo nel deserto. Pertanto, per realizzare questo ci vuole un “esercito” spirituale pronto a combattere la nostra vera missione nel mondo,  e ogni persona al mondo fa parte di questo esercito ed è fondamentale per questo completamento, per il semplice fatto che è stato mandato in questo mondo. Questo si collega con il nome Numeri che sono i conteggi dei numeri delle tribù, che sono i conteggi delle schiere degli eserciti che combattono per riportare il deserto in un luogo abitabile da Hashèm.

Ispirati in tal modo, siamo pronti per arruolarci nei ranghi delle legioni di Hashèm, per venir censiti e coscritti nelle forze del bene e del sacro, la cui missione è portare il creato al suo autentico compimento.

Tratto dal nuovo libro Bemidbar pagine 32-33.

per il pdf cliccare qui:

www.virtualyeshiva.it/files/panoramica_bemidbar.pdf

Qualche anno fa, ho letto con grande stupore una notizia apparsa sul sito Yediòt Ahronòt: in Corea del Sud il Talmùd è diventato un libro obbligatorio in tutte le case. I coreani hanno spiegato che questa decisione è legata al fatto che, secondo loro, gli ebrei possiedono un’intelligenza particolare e sperano, attraverso lo studio del Talmùd, di poter diventare anche loro dei geni.
I coreani hanno davvero scoperto uno dei nostri segreti? È questa la vera ragione per la quale numerosi Premi Nobel sono ebrei? Certamente si! Lo dice chiaramente la Torà: Poiché la Torà è la vostra intelligenza davanti ai popoli (Devarìm 4, 6).
Il momento ideale per riflettere su questo argomento è Shavu’òt, che celebriamo questa sera, ricevendo di nuovo la Torà, come se fossimo ai piedi del Monte Sinày.
Come ci sono arrivati i sud coreani, questa festa è l’occasione giusta per prenderne coscienza anche noi.
Talvolta i gioielli più preziosi sono in casa, sotto i nostri occhi, e noi li cerchiamo altrove: l’erba del vicino è sempre più verde!
Diventiamo anche noi Coreani e studiamo un po’ di Torà e Talmud ogni giorno!!!
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Domenica mattina il primo giorno di Shavuòt dobbiamo tutti sentire i 10 comandamenti anche i bambini.
Perché i Dieci Comandamenti sono scritti al singolare?
Da una parte sono indirizzati al popolo ebraico come collettività, poiché se solo un ebreo non fosse stato presente sul Monte Sinai, la Torà non sarebbe stata data.
Dall’altra, essi sono indirizzati a ogni ebreo, come individuo, indipendentemente dagli altri. Ogni singolo ebreo ricevette la Torà in modo unico, personale secondo i suoi bisogni spirituali e psicologici.
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Il Rebbe di Lubavitch, prima di Shavuòt, augura sempre “kabalàt ha-Torà be-simchà u be-pnimiùt” – affinché ognuno ricevesse la Torà con gioia e ispirazione dal più profondo si sé.
Quando qualcosa ci influisce nella pnimiùt, la dimensione più profonda di noi stessi, essa tocca il nostro cuore. Non possiamo fare una cosa pensando ad un’altra. Ogni cosa deve essere fatta con tutto il cuore e con sincerità.
Con l’augurio di ricevere la Torà “be-simchà u-be-pnimiùt”! Amèn.

Riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.

Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor

BEMIDBAR

HaShem istruisce di fare un censimento delle dodici tribù d’Israele mentre sono nel deserto. Moshè conta 603,550 uomini in età di leva tra i 20 e i 60 anni; la tribù di Levì invece viene contata separatamente e include 22,300 maschi da un mese in poi. I Leviti dovranno fare servizio nel Tabernacolo al posto dei primogeniti che sono esclusi dal servizio a causa del peccato del Vitello d’Oro. I 273 primogeniti che non hanno un Levita per rimpiazzarli sono tenuti a pagare un riscatto di cinque shekel per riscattare se stessi.
Quando il popolo leva le tende i tre clan dei Leviti smontano e trasportano il Santuario per poi rimontarlo nel centro del prossimo accampamento. In seguito essi erigono le loro tende intorno ad esso, quelli del gruppo di Kehàt, che trasportano sulle loro spalle l’arca, la menorà ecc coperti con i loro rivestimenti speciali si accampavano a sud; quelli del gruppo di Ghershòn che si occupavano delle tappezzerie e delle coperture del tetto, ad ovest e le famiglie di Merarì, che trasportavano i pannelli delle mure ed i pilastri a nord. Moshè, Aharòn e i suoi figli si accampavano davanti all’entrata del Tabernacolo, ad est.
Oltre al cerchio dei Leviti, le dodici tribù si accampavano in gruppi di quattro che includevano tre tribù. Tale formazione veniva mantenuta durante i viaggi. Ciascuna tribù aveva il proprio nassì (leader) e la propria bandiera con il colore e l’insegna della tribù.

BAMIDBAR 5769 – DUE INGREDIENTI PER PRESERVARE L’EBRAISMO!

Il Significato delle 2 Coperture degli Oggetti del Santuario

BAMIDBAR 5766 – COME ESSERE PRONTI PER RICEVERE LA TORA!

Nel Pirkè Avot viene indicata la strada per studiare e ricevere con pienezza la Torà: il distacco dall’eccesso di materialità! La via dei Chassid!

BAMIDBAR 5765 – DALLA PRIMA ALL’ULTIMA RETTIFICAZIONE!

Si può anticipare l’ultima Redenzione? Può l’Era Messianica giungere in qualsiasi momento?

SHAVUOT

Le lezioni su Shavuot si possono trovare sul link sotto:
http://www.virtualyeshiva.it/2006/05/28/yom-tora-5766-fare-la-differenza/

Alcune delle lezioni su Shavuot imperdibili sono:
SHAVUOT 5770 – IL GIORNO IN CUI NON È SUCCESSO NIENTE, MA È SUCCESSO TUTTO!!!
Delle volte le più grandi preparazioni si fanno in silenzio.

http://www.virtualyeshiva.it/2011/05/03/emor-5771-3-matrimoni-pecora-toro-e-gemelli/

http://www.virtualyeshiva.it/2009/05/27/shavuot-5769-shavuot-vince-sotto/

http://www.virtualyeshiva.it/2006/05/28/yom-tora-5766-fare-la-differenza/

Durante la festa di Shavuot c’è la tradizione di leggere la Meghillà di Rut (Libro degli Agiografi). Come Shavuot rappresenta un momento di grande amore, tra HaShem e gli ebrei, nello stesso modo la meghillà di Rut narra un gesto d’amore altrettanto importante. Una vicenda dai profondi significati, studiata dalla mistica ebraica.

SHAVUOT 5771 – Meghilla di Rut cap I – Seconda lezione – LOT YEHUDA BOAZ: TRE UOMINI UN ANIMA

L’anima che ritorna in questo mondo per rettificarsi ha un evoluzione progressiva e si completa sempre di più da un ciclo all’altro.

SHAVUOT 5771 – Meghilla di Rut cap II – Terza lezione – SOLI NELLA NOTTE!!!

Un atto altamente immorale, si rettifica solo per mezzo di una profonda moralità.

SHAVUOT 5771 – Meghilla di Rut cap. IV – Quarta lezione – GUARDARE OLTRE IL CORPO!

Un grandissimo insegnamento di vita ci fa capire quali sono gli elementi significativi per avere un matrimonio di successo!

SHAVUOT 5771 – Meghilla di Rut cap.IV – Quinta lezione – LA SPADA NELLA ROCCIA!

Il divieto di convertirsi all’ebraismo vale solo per i moabiti o anche per le donne?

SHAVUOT 5771 – Meghilla di Rut cap.IV – Sesta lezione – PERCHE DAVID ERA CONSIDERATO UN FIGLIO ILLEGALE?

Il dubbio sulla identità di Rut si trascina per diverse generazioni fino a suo nipote Ishay che lascia ma non lascia sua moglie!

SHAVUOT 5771 – Meghilla di Rut cap.IV – Settima lezione – MEGLIO RAZIONALE O SPONTANEO?

Le caratteristiche fondamentali per essere un monarca, per essere un redentore!

SHAVUOT 5771 – Meghilla di Rut cap.IV – Ottava lezione – PERCHE’ LE ANIME PIU’ ALTE CADONO NEI POSTI PIU’ BASSI?

Il segreto della rimozione della scarpa di Boaz.