VAYIGGASH 5784: 7 LEZIONI

21 Dicembre 2023 0 Di HaiimRottas

Questo Shabbàt 23 DICEMBRE 2023, 11 del mese di Tevèt 5784 leggeremo la Parashà di Vayiggàsh

Gen. 44, 18-47, 27.

Si legge l’Haftarà di Yekhezeqèl 37,15-28

C’erano due mendicanti seduti fianco a fianco in una strada di Città del Messico. Uno era vestito come un cristiano, con una grande croce bene in vista alle sue spalle; l’altro era un ebreo chassidico con un cappotto nero e una lunga barba. Le persone, passando accanto ai due mendicanti, prima guardavano entrambi, ma poi, quasi tutti, mettevano i soldi nel cappello di quello seduto vicino alla croce. Dopo ore di questo schema ripetitivo, un prete si avvicinò al mendicante ebreo chassidico e gli consigliò bonariamente: “Ma non capisci? Questo è un paese cattolico. Le persone non ti daranno mai dei soldi se ti siedi lì come un vero ebreo. Specialmente quando sei seduto vicino a un mendicante che è accanto ad una croce. Anzi, probabilmente, gli danno i soldi solo per farti dispetto”. Il mendicante chassidico, dopo aver ascoltato il prete, si rivolse al mendicante vestito da cristiano e gli disse: “Moshè… vedi è incredibile… questo prete cerca di insegnarci come condurre gli affari…!”.

UNA LUCE DAL BUIO

Giuseppe si rivela ai fratelli
La storia di Giuseppe che si rivela ai suoi fratelli, dopo decenni di amara separazione, è senza dubbio una delle più drammatiche dell’intera Torà. Ventidue anni prima, quando Giuseppe aveva diciassette anni, i suoi fratelli lo disprezzavano a tal punto che, a causa della sua giovane età, lo rapirono, lo gettarono in una fossa e poi lo vendettero come schiavo a dei mercanti egiziani. In Egitto trascorse dodici anni in prigione, diventando alla fine il viceré del paese che all’epoca era la superpotenza mondiale. Ora, più di due decenni dopo, il momento era finalmente maturo per la riconciliazione.
“Giuseppe non poteva trattenere le sue emozioni”, riferisce la Torà nella porzione di questa settimana [Genesi 45, 1-7], tanto che fece uscire tutti i presenti dal suo cospetto. Una volta rimasto solo con i suoi fratelli si rivelò loro dicendogli, mentre piangeva a dirotto: “Per favore AVVICINATEVI… Io sono Giuseppe! Mio padre è ancora vivo?” I suoi fratelli erano così inorriditi da non poter rispondere… “SONO GIUSEPPE VOSTRO FRATELLO colui che AVETE VENDUTO all’EGITTO. E ora non rammaricatevi e non adiratevi per avermi venduto qui, poiché era per provvedere al vostro sostentamento che Dio mi ha mandato dinnanzi a voi… per farvi sopravvivere…”.

Uno Strano Incontro
Le emozioni non sono equazioni matematiche, esse sono la trama attraverso la quale viviamo la vita in tutta la sua maestosità e tragicità. Le emozioni scaturiscono da “regole” indipendenti e da un linguaggio particolare, distinti da quelli prestabiliti e strutturati della scienza. Per questo la particolare fraseologia utilizzata dalla Torà nel descrivere questo incontro, fortemente carico di emozioni, merita di essere analizzato meglio, poiché carico di insegnamenti e significati profondissimi, anche per la nostra vita quotidiana.
Come evidenziato da molti nostri Maestri, analizzando questo incontro quattro osservazioni sono “obbligatorie”:
1) Quando Giuseppe rivela la sua identità ai fratelli, dice: “Per favore AVVICINATEVI… Io sono Giuseppe!”. Nonostante siano soli con lui in una stanza, Giuseppe vuole che si avvicinino ancora di più. In questo momento ci aspettiamo che Giuseppe condivida con i suoi fratelli un segreto intimo. Ma questo, apparentemente, non accade.
2) Dopo che gli si avvicinano, Giuseppe disse: “SONO GIUSEPPE vostro fratello…”. Ma, perché? Appena un momento prima aveva già detto loro chi era…!
3) Oltretutto, la prima volta che Giuseppe si rivela non si definisce fratello; eppure quando si ripete di nuovo dice: “Sono Giuseppe VOSTRO FRATELLO…”. Perché questa omissione?
4) Infine, perché Giuseppe si sente in dovere di informarli che lo avevano venduto agli egiziani dicendo: “Colui che AVETE VENDUTO all’EGITTO”. Come se non fossero a conoscenza di ciò che avevano fatto al loro fratellino due decenni prima! Perché non poteva immediatamente iniziare la sua spiegazione sul perché non avevano bisogno di rimproverarsi per averlo venduto?
Il “Mistero” Di Giuseppe
Nella più lunga narrazione ininterrotta dell’intera Torà che va dalla Genesi cap. 37 a 50 non c’è dubbio che l’eroe, il protagonista indiscusso, sia Giuseppe. La storia inizia e finisce con lui. Lo vediamo da bambino, orfano di sua madre e amato da suo padre; da adolescente sognatore, in odio ai suoi fratelli; come schiavo, poi carcerato in Egitto; quindi come la seconda persona più potente, dopo il faraone, nel più grande impero del mondo antico. In ogni fase della Torà la narrazione ruota attorno a lui e al suo impatto sugli altri. Domina gli ultimi capitoli del libro della Genesi, gettando la sua ombra su tutti gli altri personaggi. In tutta la Torà non c’è nessuno che conosciamo intimamente come Giuseppe. La Torà sembra essere “infatuata” di Giuseppe, dei suoi viaggi e lotte più che con qualsiasi altra figura, forse anche più che con i due pilastri della fede ebraica, Abramo e Mosè. Quindi cosa nasconde la figura di Giuseppe? Cosa rappresenta in realtà?

L’anima non riconosciuta
La vita di Giuseppe incarna l’intero dramma e il paradosso dell’esistenza umana. Il Giuseppe esteriore non era uguale al Giuseppe interiore. Il suo comportamento esteriore non rese mai giustizia alla sua autentica grazia interiore: già da giovane, i suoi fratelli non potevano apprezzare la profondità e la nobiltà del suo personaggio. Il Midràsh e la Torà descrivono Giuseppe, all’età di diciassette anni, come un “ragazzino” immaturo, insinuando che dedicava gran parte del suo tempo a cose vane, come curare il proprio aspetto fisico. Giuseppe appariva alla maggior parte delle persone intorno a lui come un “ragazzino” viziato e vanitoso.
Successivamente, quando Giuseppe si elevò fino a diventare il viceré dell’Egitto, divenne la quintessenza di uno statista carismatico, un giovane leader affascinante e potentissimo che ha in mano tutto l’Egitto, un diplomatico e politico esperto con grandi ambizioni. Non era e non è facile rendersi conto che, in realtà, sotto queste “mutazioni” esteriori c’era un’anima intrisa di passione morale, uno spirito affine ai più alti principi della Torà. Per il “Giuseppe interiore” l’eredità monoteistica di Abramo, Isacco e Giacobbe rimase l’epicentro della sua vita; una sorta di cuore sopraffatto dall’amore verso Dio.
La singolare condizione di Giuseppe – che come detto sopra incarna il paradosso della condizione umana – è espressamente evidenziato in Genesi 42, 8: “Giuseppe riconobbe i suoi fratelli, ma loro non lo riconobbero”.
Il significato mistico di GIUSEPPE RICONOBBE I SUOI FRATELLI è: Giuseppe identificò facilmente la santità all’interno dei suoi fratelli. Dopo tutto, hanno vissuto la maggior parte della loro vita come pastori spirituali, dediti quasi esclusivamente alla preghiera, meditazione e allo studio.
MA LORO NON LO RICONOBBERO: eppure a questi stessi fratelli mancava la capacità di discernere la ricchezza morale impressa nella profondità del cuore di Giuseppe. Attenzione! Non solo mancavano di questa capacità di fronte al potentissimo Giuseppe, il Viceré dell’Egitto, ma più “colpevolmente”, anche di fronte al giovane Giuseppe, quando viveva con loro in Israele. Anche in quell’ambiente i fratelli lo vedevano come un estraneo e addirittura come un pericolo per l’integrità della famiglia di Giacobbe. Pertanto, non stupisce che quando incontrarono Giuseppe negli abiti di un leader egiziano non riuscirono a scorgere, oltre la maschera di un politico esperto e potentissimo, il cuore di un Tzaddik!
Fuoco Sotto La Cenere
Questa doppia identità caratterizzò tutta l’esistenza di Giuseppe, ed era molto difficile da scorgere e solamente quando la moglie del suo padrone tentò di sedurlo, questa doppia identità  diventò palese in un modo molto potente.
Questa bellissima, ricchissima e potentissima donna pensò che sarebbe stato facilissimo sedurre un giovane schiavo abbandonato, inducendolo a sacrificare la sua integrità morale per amore del piacere fisico. Ma quando arrivò il momento, quando Giuseppe fu messo di fronte alla prova, egli mostrò un coraggio eroico che lo portò a sottrarsi alla “grinfie” della “nobildonna”. Come risultato di quel santo gesto eroico, Giuseppe finì in prigione per 12 anni!
Il Midràsh paragona Giuseppe ad una fresca sorgente d’acqua nascosta nella profondità della terra, eclissata da strati di detriti di sabbia e ghiaia. In una metafora opposta che indica lo stesso concetto, la Cabalà paragona Giuseppe a un fuoco nascosto nella cenere. All’esterno, la cenere sembra nera, scura e fredda, ma quando ti esponi alla sua vera essenza, senti il calore, il fuoco e la passione che brucia!
Dietro Il Sipario
E poi venne il momento in cui Giuseppe si toglie la maschera! Lo Zohar svela una scena penetrante di ciò che è emerso nel momento in cui Giuseppe si è svelato ai suoi fratelli.
Quando Giuseppe dichiarò, “Io sono Giuseppe”, dice lo Zohar, i fratelli osservarono la luce divina che si irradiava dal suo volto; hanno assistito al maestoso bagliore che emanava dal suo cuore. Le parole “Io sono Giuseppe” non era semplicemente una rivelazione di CHI fosse, bensì di COSA fosse! Per la prima volta, Giuseppe permise ai suoi fratelli di vedere cosa fosse veramente. “Io sono Giuseppe!” deve anche essere inteso nel senso di “Guardatemi, solo così scoprirete realmente chi è Giuseppe”.
Quando Giuseppe gridò “Io sono Giuseppe”, dice il Midràsh, “il suo volto si infiammò come una fornace ardente”. La fiamma che bruciava nascosta per trentanove anni nella cenere, emerse in tutto il suo splendore abbagliante. Per la prima volta in tutta la loro vita, i fratelli di Giuseppe videro Giuseppe così come era realmente; entrarono in contatto con la più grande santità del mondo che emergeva dal volto di un viceré egiziano.

Perdita
“I suoi fratelli erano così inorriditi da non poter rispondere”, riferisce la Torà. Ciò che turbava i fratelli non era tanto un senso di paura o di colpa personale. Ciò che li terrorizzava, più di ogni altra cosa, era il senso di perdita che provavano per se stessi e per il mondo intero a seguito della vendita del fratello in Egitto.
“Se dopo aver trascorso 22 anni in una società moralmente depravata”, pensavano tra loro, “un anno come schiavo, dodici anni come prigioniero, nove anni come politico – Giuseppe conservava ancora tanta santità e passione così profonde, quanto più santo avrebbe potuto essere se avesse trascorso questi 22 anni nel seno del suo santo padre Giacobbe?!”.
“Che perdita per la storia dell’umanità hanno portato le nostre azioni!”, si tormentarono i fratelli. Il mettere a confronto l’attuale condizione di Giuseppe con quello che avrebbe potuto essere il suo potenziale, lasciò nei fratelli delle sentimenti di colpa enormi e di una perdita inconsolabile per ciò che percepivano come un’occasione mancata di proporzioni storiche.
Un Grossolano Errore
In quel preciso momento, quando i fratelli erano presi dai sensi di colpa per il “loro presunto errore”, Giuseppe gli disse: “Per favore, venite vicino a me”. Giuseppe voleva che si avvicinassero ancora di più e guardassero più profondamente nella luce divina che fuoriusciva dal suo volto.
Quando i fratelli si avvicinarono a lui, riferisce la Torà, Giuseppe gli disse: “Sono Giuseppe vostro fratello – sono io che avete venduto in Egitto”. Giuseppe non stava semplicemente ripetendo ciò che aveva detto loro in precedenza (“Io sono Giuseppe”), né li stava informando di un fatto di cui erano ben consapevoli (“Sono io che avete venduto in Egitto”), piuttosto Giuseppe stava rispondendo al loro senso di perdita irrevocabile.
Le parole “Sono Giuseppe vostro fratello – sono io che avete venduto in Egitto” nell’originale ebraico possono anche essere tradotte come: “Io sono Giuseppe vostro fratello – PROPRIO PERCHÉ mi avete venduto in Egitto!”. Ciò che Giuseppe stava affermando era il potente e movimentato messaggio secondo cui: “l’unica ragione per cui ho raggiunto altezze spirituali così enormi è perché ho trascorso gli ultimi 22 anni in Egitto (il paese più impuro al mondo) e non nel sacro ed idilliaco ambiente di Giacobbe!”.

Il Grande Catalizzatore
Il fantastico bagliore che emanava dalla sua presenza suggerì che Giuseppe non era lì NONOSTANTE i suoi due decenni trascorsi nella società egiziana, molto lontana dal paradiso celeste di suo padre. Al contrario, proprio le incredibili prove, tribolazioni e avversità che ha affrontato nella “giungla spirituale” egiziana sono esattamente ciò che ha scatenato il bagliore che i fratelli stavano attualmente vivendo.
Se Giuseppe avesse trascorso i due decenni in viaggio con suo padre, lungo la facile strada spirituale della Torà, avrebbe sicuramente raggiunto grandi altezze spirituali, intellettuali ed emotive. Ma QUESTA luce poteva emergere SOLO dalla profondità dell’oscurità, dalla fossa della promiscuità egiziana. Ecco perché Giuseppe chiede ai suoi fratelli di avvicinarsi a lui, in modo che potessero vedere e apprezzare da vicino la sua luce unica che poteva emergere solo grazie a un’esperienza, dolorosa, quanto unica.
Questo è anche il motivo per cui Giuseppe menziona, per la seconda volta, l’elemento della fratellanza non solo a livello biologico. Perché Giuseppe stava provando non solo a dire loro chi era, ma a condividere la realtà della loro parentela, il fatto che lui, come loro, era profondamente connesso alle sue radici spirituali ebraiche.

Se Solo…
Proprio come i fratelli, anche molti di noi vivono la nostra vita pensando “Se solo…”: se solo le mie circostanze sarebbero state diverse; se solo fossi nato in un diverso tipo di famiglia; se solo avessi una personalità migliore… L’eterna lezione di Giuseppe è che il viaggio individuale della nostra vita, in tutti i suoi alti e bassi, è ciò che alla fine ci permetterà di scoprire il nostro posto unico in questo mondo secondo la volontà di Hashèm.
Prove, successi, gioie, tribolazioni. Tutto serve a farci scoprire la santità che c’è in ognuno di noi, far brillare le nostre anime, per illuminare il mondo e agevolare la venuta di Mashìakh presto ai nostri giorni, Amen.

(Questo saggio si basa su scritti chassidici: vedi Sefat Emet Vayiggàsh. Likuté Sikhòt vol. 25 pagg. 255-257, edito da Y. Y. Jacobson)

LA ‘(SOL)LEZIONE’ FINALE
Un Valore Assoluto

Si tramanda uno stimolante Midràsh relativo alla parashà di Vayigàsh, secondo cui l’ultima lezione di Ya’akòv con il suo amato figlio Yossèf, svoltasi poche ore prima che fosse rapito e venduto come schiavo, riguardava la legge dei casi di omicidio non risolti.
La narrazione ci è ben nota. Il padre chiese a Yossèf, che all’epoca aveva 17 anni, di andare a trovare i suoi fratelli, che stavano conducendo il gregge della famiglia vicino alla città di Shekhèm. Quando il ragazzo arrivò a Shekhèm, i suoi fratelli lo rapirono e lo gettarono in un pozzo; poi lo vendettero come schiavo ai mercanti egiziani.
In Egitto, Yossèf iniziò a lavorare per un dignitario egiziano, poi trascorse 12 anni in una prigione e, infine, divenne viceré del paese.
Ventidue anni dopo che Yossèf fu strappato a suo padre, quest’ultimo sentì dire che il figlio era ancora vivo, ma non riuscì a crederci. Il Midràsh riporta che, poiché Yossèf sospettava che questo sarebbe potuto accadere, diede agli emissari un segno che dimostrasse a suo padre l’autenticità del messaggio: «Dite a mio padre», suggerì Yossèf, «che, quando l’ho lasciato 22 anni fa, avevamo appena terminato di studiare le regole del vitello che viene offerto come sacrificio di espiazione per un caso di omicidio irrisolto».
Il Midràsh spiega che questo è il significato del versetto della parashà: “Gli dissero [a Ya’akòv]: ‘Yossèf è ancora vivo e regna su tutto l’Egitto’; ma il suo cuore lo rifiutò, perché non riusciva a credere loro. Tuttavia, quando gli riportarono [a Ya’akòv] tutte le parole che Yossèf aveva detto loro e vide i carri che Yossèf aveva inviato per condurlo [da Israele all’Egitto], lo spirito di Ya’akòv si riprese” (Bereshìt 45, 26-27).
La parola ebraica che indica i carri (agalòt) si può anche tradurre come “vitelli”. “Quando Ya’akòv ‘vide’ i vitelli che Yossèf aveva inviato”, ovvero quando si rese conto che il leader dell’Egitto era a conoscenza del contenuto dell’ultima lezione di Torà che lui aveva raccontato a Yossèf, Ya’akòv comprese che si trattava veramente del suo figlio perduto.
Qual è la natura esatta della legge che Ya’akòv insegnò a Yossèf? Se ne discute nel libro di Devarìm (21, 1-2) in questi termini:
“Quando si ritrova un cadavere abbattuto nel campo nella terra che Dio ti ha dato in possesso”, prescrive la Torà , “e non si sa chi sia l’assassino, i tuoi anziani e i tuoi giudici usciranno e misureranno la distanza dalla città più vicina”, dove si presume che la vittima si trovasse prima di essere uccisa.
Il Talmùd spiega che una delegazione di cinque membri della Corte suprema ebraica di Gerusalemme (nota come il Grande Sanhedrìn) si recava nel campo dove era stata scoperta la vittima per misurare la distanza dalla città più vicina. In seguito, gli anziani della città più vicina al cadavere erano obbligati a uscire e a prendere un vitello come espiazione per il sangue dell’uomo assassinato. Poi gli anziani della città dichiaravano: “Le nostre mani non hanno versato questo sangue e i nostri occhi non hanno assistito”.
In seguito, i sacerdoti che accompagnavano gli anziani nel rituale avrebbero implorato Dio dicendo: “Perdona il tuo popolo… non permettere che la colpa per il sangue di un innocente rimanga con il tuo popolo di Israele” (Devarìm 21, 3-8). La Torà conclude dicendo: “Il sangue sarà così espiato. In tal modo ti libererai della colpa del sangue innocente, poiché avrai fatto ciò che è moralmente giusto agli occhi di Dio” (ibid vv. 8-9).
La domanda interessante, tuttavia, è se fu una pura coincidenza che l’ultimo insegnamento di saggezza che Yossèf ricevette dal suo santo padre, prima della separazione di 22 anni, riguardasse la reazione ebraica a un uomo innocente ucciso nel campo? O c’era qualcosa di più profondo in questo ultimo scambio tra padre e figlio?

Una Responsabilità Condivisa
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo esaminare lo scopo del rituale “misterioso” che seguiva la scoperta di una vittima assassinata nel campo. I commentatori biblici spiegano che con questo rituale si ottenevano vari benefici fondamentali: prima di tutto, esso era un mezzo per rendere noto l’evento. La diffusione della notizia aumentava le possibilità di catturare l’assassino e di consegnarlo alla giustizia. Inoltre, tutti i potenziali assassini futuri venivano avvertiti che, se avessero ucciso un uomo innocente, anche in un luogo isolato, non avrebbero avuto scampo. In più, la Torà considerava ogni membro della città più vicina e addirittura ogni membro della nazione indirettamente responsabile dell’omicidio. Come dichiaravano i sacerdoti durante il rituale (Devarìm 21, 3-8): “Perdona il tuo popolo: non lasciare che la colpa per il sangue di un innocente rimanga con il tuo popolo di Israele”.
Chiede il Talmùd: “Verrebbe in mente a chiunque che gli anziani del tribunale siano assassini” si? Ciò che si intende invece è: “forse non abbiamo notato che stava andando e lo abbiamo mandato senza cibo e senza scorta”. Chiaramente, se avessimo fatto attenzione a questo uomo, non sarebbe morto. Se gli avessimo offerto rifugio, cibo e compagnia, avrebbe potuto sfuggire al suo orribile destino. Che cosa faceva da solo fuori nella foresta? Perché nessuno ha fatto attenzione a lui?
Per questo motivo tutta la comunità di Israèl, a partire dai membri della Corte suprema locale, doveva porsi interrogativi pesanti e prendere decisioni per il futuro. Il rituale, infatti fungeva da strumento di pentimento ed espiazione.

Non Solo Numeri 
Ogni mitzvà e ogni regola della Torà racchiude, oltre alla sua interpretazione letterale, anche una dimensione psicologica e spirituale.
Che significato ha “un corpo abbattuto in un campo” a livello psicologico?
La Torà descrive il grande lottatore Esàv (il fratello gemello di Ya’akòv) come “un uomo di campo” (Bereshìt 25, 27). Secondo gli insegnamenti della Cabalà, il campo, rispetto alla città, simboleggia spesso un ambiente privo di recinzioni protettive, un luogo aperto e vulnerabile alle forze distruttive dell’immoralità, dell’abuso e della dipendenza.
Ogni comunità crea un certo numero di persone che amiamo definire “emarginati” che, a un certo punto della vita, in particolare nel corso dell’adolescenza, abbandonano la “città” protetta e sconfinano nel “campo” non sorvegliato per sperimentare tutto ciò che è a disposizione là fuori. Durante questo processo molti di loro perdono l’anima e finiscono nell’abisso, uccisi emotivamente nei “campi assassini” della dipendenza, della disperazione e dell’indifferenza morale.
La Torà ci insegna che ognuna di queste anime che sono finite nel “campo” e si sono imbattute in una forma di morte emotiva – morte dell’innocenza, della speranza, della dignità e del significato – devono preoccupare e ricadere sotto la responsabilità di ogni singolo membro della nazione di Israèl, compresi i giganti spirituali della Corte suprema di Gerusalemme!
Quando un nostro fratello vaga per gli spaventosi campi della disperazione, ogni individuo della comunità, in particolare gli insegnanti e le guide spirituali, devono adoperarsi al massimo. Ognuno di noi deve chiedersi: “Forse non abbiamo notato che stava uscendo e lo abbiamo mandato via senza ‘cibo’ e senza scorta?”. Questo adolescente aveva bisogno di qualcuno con cui parlare delle sue frustrazioni e dei suoi dubbi e non è riuscito a trovare nessuno? Questo ragazzo desiderava ardentemente un po’ d’amore, d’incoraggiamento, d’ispirazione e non ne ha ottenuti?
Ognuno di noi deve chiedersi: “Non siamo in piccola parte responsabili per il degrado mentale e psicologico di questo giovane?”.
I presidi, gli educatori e le guide della comunità parlano sovente di statistiche. “Le statistiche mostrano”, ci informano, “che una certa percentuale di ragazzi delle scuole superiori finiscono per perdersi o ancora peggio…”. Quando è in gioco il futuro di un certo bambino, abbiamo la risposta pronta: “Che cosa ci aspettiamo da lui? Fa parte delle statistiche!”.
Ricordiamo la terribile espressione di Joseph Stalin: “Una singola morte è una tragedia; un milione di morti sono una statistica”.
Quando si incomincia a considerare le persone come statistiche (una tendenza sempre più attuale), sappiamo che la nostra società si sta consumando dal suo interno. Le vite umane non sono mezzi; sono fini a se stesse. Il valore e la santità di un destino individuale sono infiniti, assoluti ed eterni.
Questo è il messaggio essenziale che si cela dietro la mitzvà di tramutare l’omicidio di un uomo senza casa, in un campo isolato, in un evento di portata nazionale. La Torà cerca di insegnarci che, se non si crea scalpore intorno alla morte immeritata, anche di un solo individuo, siamo sul declino sociale che porta all’assoluta decomposizione morale e abbiamo perso una delle basi fondamentali dell’umanità, ovvero considerare ogni singola vita come riflesso di Dio.

Ognuno Conta!
Questo rituale carico di significato che ruota intorno a un essere umano ucciso in un campo, offre soprattutto un messaggio per i bambini o gli adulti che si trovano “fuori nel campo” della confusione e della depressione.
Il messaggio è che, dal punto di vista di Dio, la nostra vita e il nostro destino individuali hanno un valore e un peso infiniti. Se “moriamo”, Dio si aspetta che tutti provino il dolore, intraprendendo un cammino di introspezione. Il nostro viaggio, la nostra lotta, il nostro futuro hanno la massima importanza per Dio, per il mondo, per la storia. Sappiate che ogni fatto conta, che ogni parola ha un potere infinito. Dobbiamo forgiare ogni giorno della nostra vita come se fosse un’opera d’arte.
Ora capiremo perché la provvidenza ha fatto in modo che Ya’akòv insegnasse questa lezione a Yossèf, solo qualche ora prima che si ritrovasse bruscamente in una realtà infernale. Infatti fu questo messaggio a salvare un vulnerabile Yossèf dalla caduta in un abisso, dopo essere stato brutalmente strappato da una “città” sacra e protetta ed essere gettato nel “campo” più depravato della terra, l’Egitto. L’ultima lezione che Yossèf sentì da suo padre lo impregnò della convinzione incrollabile che la sua vita, ogni momento di essa, avesse un significato eterno, e che le sue scelte avessero un valore divino.
Ventidue anni dopo, quando Ya’akòv sentì che Yossèf non aveva dimenticato quell’ultima lezione, la sua anima di padre tornò a vivere. Ya’akòv si rese conto che, nonostante tutto il dolore e l’abuso che Yossèf aveva dovuto sopportare, suo figlio non aveva perso la scintilla interiore che dà a ognuna delle nostre vite nobiltà e significato infiniti.

Il processo di Norimberga: Qual è l’Origine del Male?
In “Giudizio a Norimberga” il giudice americano Dan Haywood ha condannato Ernst Janning (un’importante figura in campo legale in Germania fin dal periodo precedente all’ascesa di Hitler) all’ergastolo per aver condannato a morte un medico ebreo innocente nel 1935. Janning si è difeso dicendo che non era consapevole della portata dell’orrore nazista e che non avrebbe mai dato assistenza a Hitler se avesse saputo che mostruosità stava programmando.
«Quella gente, quei milioni di persone», implorava Janning per ottenere la libertà: «non ho mai saputo che si sarebbe arrivati a tanto. Dovete credermi». Il giudice Haywood rispose: «Si è giunti a tanto la prima volta che hai condannato a morte un uomo che sapevi essere innocente».
Nel momento in cui una SINGOLA VITA PERDE IL SUO VALORE ASSOLUTO, significa che, in definitiva, mille vite, PERSINO UN MILIONE DI VITE NON HANNO PIÙ VALORE!
Proprio dal tuo grave errore si è potuti arrivare alla SOLUZIONE FINALE.
Non dimentichiamoci ciò che Ya’akòv ha insegnato a suo figlio nella LEZIONE FINALE: OGNI VITA VALE COME UN MONDO INTERO!

Da un discorso del Lubàvitch Rebbe agosto 1981.
Da un articolo di rabbi Yossi Jacobson www.algemainer.com

LA LEZIONE FINALE

Processo di Norimberga

Una storia successa nello sconvolgente e infinto processo del secolo ci farà capire meglio la seguente riflessione.

Durante il “Giudizio a Norimberga” il giudice americano Dan Haywood ha condannato Ernst Janning, un’importante figura in campo legale in Germania fin dal periodo precedente all’ascesa di Hitler, all’ergastolo per aver condannato a morte un medico ebreo innocente nel 1935. Janning si è difeso dicendo che non era consapevole della portata dell’orrore nazista e che non avrebbe mai dato assistenza a Hitler se avesse saputo che mostruosità stava programmando.

«Quella gente, quei milioni di persone», implorava Janning per ottenere la libertà: «non ho mai saputo che si sarebbe arrivati a tanto. Dovete credermi». Il giudice Haywood rispose: «Si è giunti a tanto la prima volta che hai condannato a morte un uomo che sapevi essere innocente».

Nel momento in cui una singola vita perde il suo valore assoluto, significa che, in definitiva, mille vite, persino un milione di vite non hanno più valore; si tratta semplicemente di un numero più sbalorditivo.

AGALOT: Uno Strano Gioco di Parole

Si tramanda uno stimolante Midràsh della tradizione relativo alla parashà di Vayiggàsh, secondo cui l’ultima lezione di Ya’akòv con il suo amato figlio Yossèf, svoltasi poche ore prima che fosse rapito e venduto come schiavo, riguardava la legge dei casi di omicidio non risolti.

La narrazione ci è ben nota. Il padre chiese a Yossèf, che all’epoca aveva 17 anni, di andare a trovare i suoi fratelli, che stavano conducendo il gregge della famiglia vicino alla città di Shekhèm. Quando il ragazzo arrivò a Shekhèm, i suoi fratelli lo rapirono e lo gettarono in un pozzo; poi lo vendettero come schiavo ai mercanti egiziani.

In Egitto Yossèf iniziò a lavorare per un dignitario egiziano, poi trascorse 12 anni in una prigione e, infine, divenne viceré del paese.

Ventidue anni dopo che Yossèf fu strappato a suo padre, quest’ultimo sentì dire che il figlio era ancora vivo, ma non riuscì a crederci. Il Midràsh riporta che, poiché Yossèf sospettava che questo sarebbe potuto accadere, diede agli emissari un segno che dimostrasse a suo padre l’autenticità del messaggio: «Dite a mio padre», suggerì Yossèf, «che, quando l’ho lasciato 22 anni fa, avevamo appena terminato di studiare le regole del vitello che viene offerto come sacrificio di espiazione per un caso di omicidio irrisolto».

Il Midràsh spiega che questo è il significato del versetto della parashà: “Gli dissero [a Ya’akòv]: ‘Yossèf è ancora vivo e regna su tutto l’Egitto’; ma il suo cuore lo rifiutò, perché non riusciva a credere loro. Tuttavia, quando gli riportarono [a Ya’akòv] tutte le parole che Yossèf aveva detto loro e vide i carri che Yossèf aveva inviato per condurlo [da Israele all’Egitto], lo spirito di Ya’akòv si riprese” (Bereshìt 45, 26-27).

La parola ebraica che indica i carri (agalòt) si può anche tradurre come “vitelli”. “Quando Ya’akòv ‘vide’ i vitelli che Yossèf aveva inviato”, ovvero quando si rese conto che il leader dell’Egitto era a conoscenza del contenuto dell’ultima lezione di Torà che Ya’akòv aveva raccontato a Yossèf, Ya’akòv comprese che si trattava veramente del suo figlio perduto, Yossèf.

Un delitto irrisolto

Qual è la natura esatta della legge che Ya’akòv insegnò a Yossèf? Se ne discute nel libro di Devarìm, in questi termini:

“Quando si ritrova un cadavere abbattuto nel campo nella terra che D-o ti ha dato in possesso”, prescrive la Torà (Devarìm 21, 1-2), “e non si sa chi sia l’assassino, i tuoi anziani e i tuoi giudici usciranno e misureranno la distanza dalla città più vicina” dove si presume che la vittima si trovasse prima di essere uccisa. Il Talmùd spiega che una delegazione di cinque membri della Corte suprema ebraica di Gerusalemme (nota come il Grande Sanhedrìn) si recava nel campo dove era stata scoperta la vittima per misurare la distanza dalla città più vicina. In seguito, gli anziani della città più vicina al cadavere erano obbligati a uscire e a prendere un vitello come espiazione per il sangue dell’uomo assassinato. Poi gli anziani della città dichiaravano: “Le nostre mani non hanno versato questo sangue e i nostri occhi non hanno assistito”.

In seguito, i sacerdoti che accompagnavano gli anziani nel rituale avrebbero implorato D-o dicendo: “Perdona il tuo popolo… non permettere che la colpa per il sangue di un innocente rimanga con il tuo popolo di Israele” (Devarìm 21, 3-8). La Torà conclude dicendo: “Il sangue sarà così espiato. In tal modo ti libererai della colpa del sangue innocente, poiché avrai fatto ciò che è moralmente giusto agli occhi di D-o” (ibid. vv. 8-9).

La domanda interessante, tuttavia, è se fu una pura coincidenza che l’ultimo insegnamento di saggezza che Yossèf ricevette dal suo santo padre prima della separazione di 22 anni riguardasse la reazione ebraica a un uomo innocente ucciso nel campo. O c’era qualcosa di più profondo in questo ultimo scambio tra padre e figlio?

Una crisi nazionale

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo esaminare lo scopo del rituale enigmatico che seguiva la scoperta di una vittima assassinata nel campo. I commentatori biblici spiegano che con il rituale si ottenevano vari benefici fondamentali: prima di tutto, il rituale era un mezzo per rendere noto l’evento. La diffusione della notizia aumentava le possibilità di catturare l’assassino e di consegnarlo alla giustizia. Inoltre, tutti i potenziali assassini futuri venivano avvertiti che, se avessero ucciso un uomo innocente in isolamento, non avrebbero avuto scampo. In più, la Torà considerava ogni membro della città più vicina e addirittura ogni membro della nazione indirettamente responsabile dell’omicidio. Come dichiaravano i sacerdoti durante il rituale (Devarìm 21, 3-8): “Perdona il tuo popolo: non lasciare che la colpa per il sangue di un innocente rimanga con il tuo popolo di Israele”.

“Verrebbe in mente a chiunque che gli anziani del tribunale siano assassini” si chiede il Talmùd? Ciò che si intende è: “forse non abbiamo notato che stava andando e lo abbiamo mandato senza cibo e senza scorta”. Chiaramente, se avessimo fatto attenzione a questo uomo, non avrebbe potuto essere ucciso. Se gli avessimo offerto rifugio, cibo e compagnia, avrebbe potuto sfuggire al suo orribile destino. Che cosa faceva da solo fuori nella foresta? Perché nessuno ha fatto attenzione a lui?

Per questo motivo tutta la comunità di Israele, a partire dai membri della Corte suprema, doveva porsi interrogativi pesanti. Dovevano prendere decisioni per il futuro. Il rituale fungeva da strumento di pentimento ed espiazione.

I reietti

Ogni mitzvà e ogni regola della Torà racchiude, oltre alla sua interpretazione letterale, anche una dimensione psicologica e spirituale.

Che significato ha “un corpo abbattuto in un campo” a livello psicologico?

La Torà descrive il grande lottatore Esàv (il gemello di Ya’akòv) come “un uomo di campo” (Bereshìt 25, 27). Secondo gli insegnamenti della Cabalà, il campo, rispetto alla città, simboleggia spesso un ambiente privo di recinzioni protettive, un luogo aperto e vulnerabile alle forze distruttive dell’immoralità, dell’abuso e della dipendenza.

Ogni comunità crea un certo numero di coloro che amiamo definire “emarginati” che, a un certo punto della vita, in particolare nel corso dell’adolescenza, abbandonano la “città” protetta e sconfinano nel “campo” non sorvegliato per sperimentare tutto ciò che è a disposizione là fuori. Durante questo processo molti di loro perdono l’anima e finiscono nell’abisso, uccisi emotivamente nei campi assassini della dipendenza, della disperazione e dell’indifferenza morale.

La Torà ci insegna che ognuna di queste anime che sono finite nel “campo” e si sono imbattute in una forma di morte emotiva – morte dell’innocenza, della speranza, della dignità e del significato – devono preoccupare e ricadere sotto la responsabilità di ogni singolo membro della nazione di Israele, compresi i giganti spirituali della Corte suprema di Gerusalemme!

Quando un nostro fratello vaga per gli spaventosi campi della disperazione, ogni individuo della comunità, in particolare gli insegnanti e le guide spirituali, devono adoperarsi al massimo. Ognuno di noi deve chiedersi: “Forse non abbiamo notato che stava uscendo e lo abbiamo mandato via senza cibo e senza scorta?”. Questo adolescente aveva bisogno di qualcuno con cui parlare delle sue frustrazioni e dei suoi dubbi e non è riuscito a trovare nessuno? Questo ragazzo desiderava ardentemente un po’ d’amore, d’incoraggiamento, d’ispirazione e non ne ha ottenuti?

Ognuno di noi deve chiedersi: “Non siamo in piccola parte responsabili per il degrado mentale e psicologico di questo giovane?”.

I presidi, gli educatori e le guide della comunità parlano sovente di statistiche. “Le statistiche mostrano”, ci informano, “che una certa percentuale di ragazzi delle scuole superiori finiscono per…”. Quando è in gioco il futuro di un certo bambino, abbiamo la risposta pronta: “Che cosa ci aspettiamo? Fa parte delle statistiche”.

Non intendo essere duro, ma ricordiamo che fu Joseph Stalin a dire: “Una singola morte è una tragedia; un milione di morti sono una statistica”. Quando si incomincia a considerare le persone come statistiche, sappiamo che la nostra società si sta consumando dal suo interno. Le vite umane non sono mezzi; sono fini a se stesse. Il valore e la santità di un destino individuale sono infiniti, assoluti ed eterni.

Questo è il messaggio essenziale che si cela dietro la mitzvà di tramutare l’omicidio di un uomo senza casa in un campo isolato in un evento di portata nazionale. La Torà cerca di insegnarci che, se non si crea scalpore intorno alla morte immeritata di un unico individuo, siamo sul declino che porta all’assoluta decomposizione morale e abbiamo perso una delle basi fondamentali dell’umanità, ovvero considerare ogni singola vita come riflesso di D-o.

Tu conti!

Questo rituale carico di significato che ruota intorno a un essere umano ucciso in un campo offre soprattutto un messaggio per i bambini o gli adulti che si trovano fuori nel “campo” della confusione e della depressione.

Il messaggio è che, dal punto di vista di D-o, la nostra vita e il nostro destino individuali hanno un valore e un peso infiniti. Se “moriamo”, D-o si aspetta che tutti provino il dolore, intraprendendo un cammino di introspezione. Il nostro viaggio, la nostra lotta, il nostro futuro hanno la massima importanza per D-o, per il mondo, per la storia. Sappiate che ogni fatto conta, che ogni parola ha un potere infinito. Forgiate ogni giorno della vostra vita come se fosse un’opera d’arte.

Ora capiremo perché la provvidenza ha fatto in modo che Ya’akòv insegnasse questa lezione a Yossèf qualche ora prima che si ritrovasse bruscamente in una realtà infernale. Infatti fu questo messaggio a salvare un vulnerabile Yossèf dalla caduta in un abisso, dopo essere stato brutalmente strappato da una “città” sacra e protetta ed essere gettato nel “campo” più depravato della terra. L’ultima lezione che Yossèf sentì da suo padre lo impregnò della convinzione incrollabile che la sua vita, ogni momento di essa, avesse un significato eterno, e che le sue scelte avessero un valore divino.

Ventidue anni dopo, quando Ya’akòv sentì che Yossèf non aveva dimenticato quell’ultima lezione, la sua anima di padre tornò a vivere. Ya’akòv si rese conto che, nonostante tutto il dolore e l’abuso che Yossèf aveva dovuto sopportare, suo figlio non aveva perso la scintilla interiore che dà a ognuna delle nostre vite nobiltà e significato infiniti.

Tratto da uno scritto di YY Jacobson www.algemainer.com, basato sul discorso del Lubavitcher Rebbe, agosto 1981

70° È FEMMINA
Anche alla vigilia di questo Shabbàt vi proponiamo due brani tratti dal libro “Saggezza Quotidiana” che ci
permettono di trarre importanti insegnamenti di vita della parashà Vayiggàsh, alla “luce” degli insegnamenti
chassidici del Rebbe e dei suoi predecessori.
Questi brani, scelti per voi oggi, hanno a che fare con la discesa del popolo ebraico in esilio: la dura e
secolare schiavitù egiziana che quasi eliminò sia spiritualmente, sia fisicamente il popolo ebraico (Dio non
voglia).
Il primo brano è l’antecedente diretto di questo fatto, poiché tratta di come Yossèf chiede ai suoi fratelli di
tornare in terra di Israèl, per portare in Egitto il loro padre Ya’akòv, al fine di stabilire lui e tutta la famiglia
nella lussuosa provincia di Gòshen, separata dall’influenza spirituale negativa dell’idolatria egizia.
Il secondo brano del libro tratta della discesa vera e propria in Egitto del popolo ebraico, quando descrive la
discesa di Ya’akòv e di tutta la sua famiglia. Questo brano mette in risalto il fatto che: “Tutte le anime della
famiglia di Ya’akòv, che erano scese in Egitto, erano SETTANTA” (Genesi 45, 9). Una domanda dovrebbe
sorgere spontanea. Perché nel descrivere l’inizio di questo evento epocale, l’esilio, e la successiva schiavitù,
che durerà qualche secolo, per prima cosa è data una tale importanza al fatto che il numero dei componenti
della famiglia di Ya’akòv fossero settanta? E se fossero stati 69 o 71, ad esempio, sarebbe cambiato qualcosa?
70 Nazioni
Occorre premettere che lo scopo stesso dell’esilio egiziano era quello di “acquisire” le scintille di santità
presenti in quel paese, il luogo più impure del mondo di allora. A tale scopo due erano gli approcci principali:
il primo era quello di definire un luogo sicuro, un confine, con il resto dell’Egitto impuro per il popolo
ebraico, la terra di Gòshen appunto; il secondo approccio prevedeva che il popolo ebraico, attraverso lo
studio della Torà, non si sarebbe mai del tutto assimilato, anche nei tremendi rigori della schiavitù egizia, e
in questo modo avrebbe ottenuto il premio di far giungere il “salvatore” Moshè che avrebbe liberato il
popolo ebraico, facendolo uscire dall’Egitto, portandosi appresso tutte le ricchezze del paese. Ricchezze che
non sono solo materiali, ma che sono soprattutto le scintille di santità nascoste e imprigionate in Egitto, nella
sua cultura idolatra e pagana. Grazie a questo, il popolo ebraico avrebbe finalmente iniziato a rettificare,
elevandole, tutte le nazioni del mondo, il cui numero è secondo la Torà proprio 70.
Il primo brano del libro “Saggezza Quotidiana”, spiega, quindi, come Yossèf, dicendo ai suoi fratelli (di
riferire al loro padre) che Hashèm lo aveva reso signore di tutto l’Egitto, voleva rivelare al padre che solo
ora, dopo che aveva raccolto le ricchezze del mondo (ossia le scintille di santità), l’esilio egiziano poteva
iniziare, poiché il compimento del suo scopo è possibile: quello di elevare il mondo fisico, rivelando la
santità presente in esso.
Quindi ora possiamo iniziare ad intuire l’importanza simbolica del numero 70. Il suo primo fondamentale
significato è che esso rappresenta le 70 nazioni del mondo che il popolo ebraico aveva ed ha il compito di
rettificare. In modo tale che tutte le persone del mondo, ebrei e non ebrei, possano scoprite e riconoscere il
fatto che esiste un solo Dio. Grazie alla diffusione dei principi della Torà tutte le 70 nazioni, attraverso il
rispetto dei precetti noachidi, potranno godere dell’era messianica.
70 Il Segreto
Attraverso le regole della ghematria (l’equivalenza numerica tra le parole ebraiche) possiamo apprendere
come la parola ebraica סוד Sod, “Segreto” ossia lo studio della parte “mistica” e “nascosta” della Torà,
comunemente conosciuta come Cabalà, abbia il valore numerico di 70. La parte esoterica, pur
rappresentando solo uno dei livelli dello studio della Torà, rappresenta in qualche modo il “l’essenza”, il
“cuore” di essa. Solo comprendendo i significati mistici nascosti in ogni frase o lettera della Torà possiamo
collegare (Cabala in ebraico ha anche il significato di “mettere assieme” “parallelo”) veramente ogni cosa a
Dio. Ogni azione o pensiero, per quanto possa sembrare banale o strano, in realtà possiede anche dei
significati mistici nascosti.
Adesso possiamo sicuramente apprezzare meglio il fatto che il secondo brano del libro la “Saggezza
Quotidiana”, come già accennato sopra, non solo ci rivela che il numero dei componenti della famiglia di
Ya’akòv erano 70, ma ci dice anche chi era il settantesimo membro: Yokhèved la figlia di Levì. Quest’ultimo
era il capostipite della famiglia sacerdotale da cui origineranno i Cohanìm e Leviìm, i sacerdoti che
presteranno servizio sia nel Tabernacolo del deserto, sia nei due futuri Templi. In sostanza Levì e i suoi
discendenti rappresentano non solo il legame con Hashèm del popolo ebraico, le sue guide spirituali, ma
anche e soprattutto lo studio della Torà. Come abbiamo detto, per uscire dall’Egitto il popolo ebraico doveva
mantenere vivo il legame con la Torà e i suoi precetti, nonostante il durissimo e lunghissimo esilio egiziano.
Stare semplicemente separati dal resto del popolo egiziano, nella provincia di Gòshen, non sarebbe bastato.
Serviva, infatti, un gruppo di persone che mantenessero vivo lo studio della Torà, Levi e i suoi discendenti
principalmente. Quasi tutte le tribù di Israèl, infatti, si assimilarono in gran parte, oppure semplicemente,
date le condizioni tremende della schiavitù, non ebbero modo di studiare e praticare i precetti della Torà.
La 70° la Madre di Moshè
Il fatto che il popolo ebraico mantenne il legame con la Torà, anche nelle dure condizioni dell’esilio egiziano,
non è stato solo merito della Tribù di Levi, ma anche e sopratutto delle donne. Questo è uno dei motivi per
cui questo brano della Genesi, anche come commentato dalla chassidùt, pone tanta rilevanza al fatto che la
70° persona fosse una donna, Yokhèved.
L’altra “parte della luna”, il genere femminile, ha, più degli uomini, mantenuto una forte fede in Hashèm,
anche nelle condizioni più difficili. Ora come allora, la fede insita nelle donne permette all’ebraismo di
vivere e crescere. In particolare, i comandamenti affidati alle donne permettono che la famiglia sia
illuminata e nutrita secondo le leggi della Torà, (come esemplificato nell’accensione delle candele di
Shabbàt).
Tuttavia, ora volgiamo introdurre una lettura cabalistica, Sod, appunto, che crediamo molto stimolante e
importante.
70 Yokhèved la Madre del Redentore
Come è noto Yokhèved, generando Moshè, salverà il popolo ebraico dall’esilio egiziano. In realtà si
potrebbe affermare che tutto lo scopo dell’esilio fu quello di permettere che Moshè nascesse per far uscire
dall’Egitto il popolo ebraico e portarlo fino alle soglie della Terra Promessa.
Tuttavia, qui vogliamo soffermarci sul fatto che nel numero 70 è alluso il “segreto” di ciò. Questo numero
equivale, secondo la ghematria, ad uno dei 72 Nomi di Dio, il 42° (come è noto Dio è uno, indivisibile e
infinito, tuttavia i Nomi di Dio, nella mistica ebraica della Torà, rappresentano degli aspetti di Dio che si
manifestano nel mondo, ognuno contenente profondi messaggi).
Tale Nome è formato da tre lettere ebraiche כ – י- מ in cui è celato il segreto della futura nascita del
Redentore di Israèl dal ventre di Yokhèved nell’esilio egiziano.
מ La prima lettera sulla destra, la Mem, (valore 40) è legata all’acqua, che a sua volta rappresenta, la
sapienza di Dio, Khokhmà, ad un livello tale che “scende” dall’alto verso il basso irrigando e facendo
nascere nuova vita. Una sorta di “dono” divino legato all’amore di Dio verso noi.
י Questa seconda lettera, la Yud (valore 10), rappresenta invece il “seme” umano, la Luce Infinita di
Hashèm, che attraverso la sapienza di Dio, scende e si innesta nel mondo, come un seme che, irrigato
dall’acqua della Mem, fa crescere un qualcosa intimamente collegato ad un livello sublime di Dio, la sua
sapienza, Khokhmà.
כ La terza e ultima lettera del 42° Nome è una Kaf (valore 20). La cui forma è associata ad un “contenitore”,
proprio come l’utero di una donna da cui scaturirà una nuova vita, legata alla Sapienza di Dio, alla sua Luce
Infinita. Proprio come nel processo che porta al concepimento di una futura vita nel ventre della donna,
inseminata dall’uomo. Inoltre, secondo la mistica ebraica, tale lettera, che ha il valore numerico di 20, è
formata da due Yod che hanno appunto il valore numerico di 10 ciascuna.
In definitiva nel brano che tratta la discesa dei 70 membri della famiglia di Ya’akòv troviamo il “messaggio
segreto” che rivela come da una donna, Yokhèved, nascerà il futuro Redentore di Israèl e del mondo intero,
le 70 nazioni: Moshè che, come è noto, simboleggia un livello spirituale tale da essere associato alla “mente”
il “cervello” divino con particolare riferimento alla Sefirà Khokhmà, la sapienza.
Speriamo che presto, subito, Hashèm possa rivelare il Moshè di questa generazione, Mashìakh, che ci
libererà da questo esilio per la salvezza di tutti. Buona lettura e un caro Shabbàt Shalom.
Vayiggàsh
Ya’akòv e Yossèf si Ritrovano
Nell’undicesima porzione del libro della Genesi, raggiungiamo il culmine della drammatica cronaca di
Yossèf. Questa porzione inizia con Yehudà che si avvicina (vayiggàsh “e si avvicinò” in ebraico) a Yossèf in
difesa di Binyamìn. La determinazione di Yehudà nel cercare di salvare Binyamìn, convince Yossèf che i
fratelli si sono pentiti e hanno superato la loro passata gelosia, così termina la messinscena e si rivela loro
svelando la sua vera identità.
Yossèf, quindi, invita immediatamente tutti i fratelli a portare in Egitto anche il loro padre Ya’akòv. Tutta la
famiglia si stabilisce in Egitto per sopravvivere alla carestia. Ironia della sorte, la carestia
finisce non appena arriva Ya’akòv, ma la famiglia rimane in Egitto adempiendo il piano di Hashèm, come
Lui aveva promesso originariamente ad Avrahàm.
Bereshìt 45, 8–27
Yossèf dice ai suoi fratelli di tornare in terra di Israèl, per portare in Egitto il loro padre Ya’akòv. Egli fa in
modo che la famiglia si stabilisca nella lussuosa provincia di Gòshen, separata dall’influenza spirituale
negativa dell’idolatria egizia.
Destino Manifesto
[Yossèf dice ai suoi fratelli di riferire al loro padre] «Hashèm mi ha reso signore di tutto l’Egitto:
vieni giù da me, non indugiare». (45, 9)
Lo scopo principale dell’esilio egiziano è che Israèl elevi le scintille di santità intrappolate in quel paese.
Essendo l’Egitto la superpotenza economica di quell’epoca, la ricchezza dell’intero mondo civilizzato di
allora è legata a quella dell’Egitto. Così Israèl, portando con sé la ricchezza dell’Egitto quando se ne va, non
solo eleva la ricchezza dell’Egitto, ma quella di tutte le nazioni del mondo. Questo è il motivo per cui Yossèf
dice a suo padre che era il padrone dell’Egitto, intendendo dire che: “Ora che sono diventato governatore
dell’Egitto e ho raccolto le ricchezze del mondo, l’esilio egiziano può iniziare, poiché il compimento del suo
scopo è ora possibile.”
Allo stesso modo, lo scopo del nostro attuale esilio è quello di elevare il mondo fisico, rivelando la santità
presente in esso.
Bereshìt 46, 8–27
La Torà elenca e conta i figli e i nipoti della famiglia di Ya’akòv e sottolinea che il totale è di settanta
persone. La settantesima e la più giovane di questo censimento è la figlia di Levì, Yokhèved, che
incontreremo più avanti, come la futura madre di Moshè.
Potere Femminile
Tutte le anime della famiglia di Ya’akòv, che erano scese in Egitto, erano settanta. (46, 27)
Scendendo nell’esilio egiziano, il popolo ebraico inizia il processo di elevazione e trasformazione delle
settanta nazioni del mondo. La nascita di Yokhèved – poco prima che la famiglia di Ya’akòv entrasse in
Egitto – porta il loro numero a settanta, permettendo così di iniziare la missione di raffinare le settanta
nazioni del mondo.
Il processo di trasformazione del mondo è duplice: in primo luogo, dobbiamo curare il mondo dalla sua
opposizione alla santità e solo successivamente possiamo trasformarlo in santità. Il primo è l’approccio
“maschile”, risoluto, mentre il secondo è l’approccio “femminile”, premuroso.
Quindi, i comandamenti affidati alle donne – garantendo che la famiglia sia nutrita secondo le leggi della
Torà, garantendo la sicurezza e il calore spirituale della casa (come esemplificato nell’accensione delle
candele di Shabbàt) e santificando la vita coniugale – sono tutti modi di trasformare gli aspetti mondani
della vita umana quotidiana in espressioni di santità.

Riflessione Atomica da Vayigash

In memoria del mio carissimo amico Rav Haim Moshe Mordechai ben Dovber Shaikevitz

LA ‘(SOL)LEZIONE’ FINALE
Un Valore Assoluto

Si tramanda uno stimolante Midràsh relativo alla parashà di Vayigàsh, secondo cui l’ultima lezione di Ya’akòv con il suo amato figlio Yossèf, svoltasi poche ore prima che fosse rapito e venduto come schiavo, riguardava la legge dei casi di omicidio non risolti.
La narrazione ci è ben nota. Il padre chiese a Yossèf, che all’epoca aveva 17 anni, di andare a trovare i suoi fratelli, che stavano conducendo il gregge della famiglia vicino alla città di Shekhèm. Quando il ragazzo arrivò a Shekhèm, i suoi fratelli lo rapirono e lo gettarono in un pozzo; poi lo vendettero come schiavo ai mercanti egiziani.
In Egitto, Yossèf iniziò a lavorare per un dignitario egiziano, poi trascorse 12 anni in una prigione e, infine, divenne viceré del paese.
Ventidue anni dopo che Yossèf fu strappato a suo padre, quest’ultimo sentì dire che il figlio era ancora vivo, ma non riuscì a crederci. Il Midràsh riporta che, poiché Yossèf sospettava che questo sarebbe potuto accadere, diede agli emissari un segno che dimostrasse a suo padre l’autenticità del messaggio: «Dite a mio padre», suggerì Yossèf, «che, quando l’ho lasciato 22 anni fa, avevamo appena terminato di studiare le regole del vitello che viene offerto come sacrificio di espiazione per un caso di omicidio irrisolto».
Il Midràsh spiega che questo è il significato del versetto della parashà: “Gli dissero [a Ya’akòv]: ‘Yossèf è ancora vivo e regna su tutto l’Egitto’; ma il suo cuore lo rifiutò, perché non riusciva a credere loro. Tuttavia, quando gli riportarono [a Ya’akòv] tutte le parole che Yossèf aveva detto loro e vide i carri che Yossèf aveva inviato per condurlo [da Israele all’Egitto], lo spirito di Ya’akòv si riprese” (Bereshìt 45, 26-27).
La parola ebraica che indica i carri (agalòt) si può anche tradurre come “vitelli”. “Quando Ya’akòv ‘vide’ i vitelli che Yossèf aveva inviato”, ovvero quando si rese conto che il leader dell’Egitto era a conoscenza del contenuto dell’ultima lezione di Torà che lui aveva raccontato a Yossèf, Ya’akòv comprese che si trattava veramente del suo figlio perduto.

Un Delitto Irrisolto
Qual è la natura esatta della legge che Ya’akòv insegnò a Yossèf? Se ne discute nel libro di Devarìm (21, 1-2) in questi termini:
“Quando si ritrova un cadavere abbattuto nel campo nella terra che Dio ti ha dato in possesso”, prescrive la Torà , “e non si sa chi sia l’assassino, i tuoi anziani e i tuoi giudici usciranno e misureranno la distanza dalla città più vicina”, dove si presume che la vittima si trovasse prima di essere uccisa.
Il Talmùd spiega che una delegazione di cinque membri della Corte suprema ebraica di Gerusalemme (nota come il Grande Sanhedrìn) si recava nel campo dove era stata scoperta la vittima per misurare la distanza dalla città più vicina. In seguito, gli anziani della città più vicina al cadavere erano obbligati a uscire e a prendere un vitello come espiazione per il sangue dell’uomo assassinato. Poi gli anziani della città dichiaravano: “Le nostre mani non hanno versato questo sangue e i nostri occhi non hanno assistito”.
In seguito, i sacerdoti che accompagnavano gli anziani nel rituale avrebbero implorato Dio dicendo: “Perdona il tuo popolo… non permettere che la colpa per il sangue di un innocente rimanga con il tuo popolo di Israele” (Devarìm 21, 3-8). La Torà conclude dicendo: “Il sangue sarà così espiato. In tal modo ti libererai della colpa del sangue innocente, poiché avrai fatto ciò che è moralmente giusto agli occhi di Dio” (ibid vv. 8-9).
La domanda interessante, tuttavia, è se fu una pura coincidenza che l’ultimo insegnamento di saggezza che Yossèf ricevette dal suo santo padre, prima della separazione di 22 anni, riguardasse la reazione ebraica a un uomo innocente ucciso nel campo? O c’era qualcosa di più profondo in questo ultimo scambio tra padre e figlio?

Una Responsabilità Condivisa
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo esaminare lo scopo del rituale “misterioso” che seguiva la scoperta di una vittima assassinata nel campo. I commentatori biblici spiegano che con questo rituale si ottenevano vari benefici fondamentali: prima di tutto, esso era un mezzo per rendere noto l’evento. La diffusione della notizia aumentava le possibilità di catturare l’assassino e di consegnarlo alla giustizia. Inoltre, tutti i potenziali assassini futuri venivano avvertiti che, se avessero ucciso un uomo innocente, anche in un luogo isolato, non avrebbero avuto scampo. In più, la Torà considerava ogni membro della città più vicina e addirittura ogni membro della nazione indirettamente responsabile dell’omicidio. Come dichiaravano i sacerdoti durante il rituale (Devarìm 21, 3-8): “Perdona il tuo popolo: non lasciare che la colpa per il sangue di un innocente rimanga con il tuo popolo di Israele”.
Chiede il Talmùd: “Verrebbe in mente a chiunque che gli anziani del tribunale siano assassini” si? Ciò che si intende invece è: “forse non abbiamo notato che stava andando e lo abbiamo mandato senza cibo e senza scorta”. Chiaramente, se avessimo fatto attenzione a questo uomo, non sarebbe morto. Se gli avessimo offerto rifugio, cibo e compagnia, avrebbe potuto sfuggire al suo orribile destino. Che cosa faceva da solo fuori nella foresta? Perché nessuno ha fatto attenzione a lui?
Per questo motivo tutta la comunità di Israèl, a partire dai membri della Corte suprema locale, doveva porsi interrogativi pesanti e prendere decisioni per il futuro. Il rituale, infatti fungeva da strumento di pentimento ed espiazione.

Non Solo Numeri
Ogni mitzvà e ogni regola della Torà racchiude, oltre alla sua interpretazione letterale, anche una dimensione psicologica e spirituale.
Che significato ha “un corpo abbattuto in un campo” a livello psicologico?
La Torà descrive il grande lottatore Esàv (il fratello gemello di Ya’akòv) come “un uomo di campo” (Bereshìt 25, 27). Secondo gli insegnamenti della Cabalà, il campo, rispetto alla città, simboleggia spesso un ambiente privo di recinzioni protettive, un luogo aperto e vulnerabile alle forze distruttive dell’immoralità, dell’abuso e della dipendenza.
Ogni comunità crea un certo numero di persone che amiamo definire “emarginati” che, a un certo punto della vita, in particolare nel corso dell’adolescenza, abbandonano la “città” protetta e sconfinano nel “campo” non sorvegliato per sperimentare tutto ciò che è a disposizione là fuori. Durante questo processo molti di loro perdono l’anima e finiscono nell’abisso, uccisi emotivamente nei “campi assassini” della dipendenza, della disperazione e dell’indifferenza morale.
La Torà ci insegna che ognuna di queste anime che sono finite nel “campo” e si sono imbattute in una forma di morte emotiva – morte dell’innocenza, della speranza, della dignità e del significato – devono preoccupare e ricadere sotto la responsabilità di ogni singolo membro della nazione di Israèl, compresi i giganti spirituali della Corte suprema di Gerusalemme!
Quando un nostro fratello vaga per gli spaventosi campi della disperazione, ogni individuo della comunità, in particolare gli insegnanti e le guide spirituali, devono adoperarsi al massimo. Ognuno di noi deve chiedersi: “Forse non abbiamo notato che stava uscendo e lo abbiamo mandato via senza ‘cibo’ e senza scorta?”. Questo adolescente aveva bisogno di qualcuno con cui parlare delle sue frustrazioni e dei suoi dubbi e non è riuscito a trovare nessuno? Questo ragazzo desiderava ardentemente un po’ d’amore, d’incoraggiamento, d’ispirazione e non ne ha ottenuti?
Ognuno di noi deve chiedersi: “Non siamo in piccola parte responsabili per il degrado mentale e psicologico di questo giovane?”.
I presidi, gli educatori e le guide della comunità parlano sovente di statistiche. “Le statistiche mostrano”, ci informano, “che una certa percentuale di ragazzi delle scuole superiori finiscono per perdersi o ancora peggio…”. Quando è in gioco il futuro di un certo bambino, abbiamo la risposta pronta: “Che cosa ci aspettiamo da lui? Fa parte delle statistiche!”.
Ricordiamo la terribile espressione di Joseph Stalin: “Una singola morte è una tragedia; un milione di morti sono una statistica”.
Quando si incomincia a considerare le persone come statistiche (una tendenza sempre più attuale), sappiamo che la nostra società si sta consumando dal suo interno. Le vite umane non sono mezzi; sono fini a se stesse. Il valore e la santità di un destino individuale sono infiniti, assoluti ed eterni.
Questo è il messaggio essenziale che si cela dietro la mitzvà di tramutare l’omicidio di un uomo senza casa, in un campo isolato, in un evento di portata nazionale. La Torà cerca di insegnarci che, se non si crea scalpore intorno alla morte immeritata, anche di un solo individuo, siamo sul declino sociale che porta all’assoluta decomposizione morale e abbiamo perso una delle basi fondamentali dell’umanità, ovvero considerare ogni singola vita come riflesso di Dio.

Ognuno Conta!
Questo rituale carico di significato che ruota intorno a un essere umano ucciso in un campo, offre soprattutto un messaggio per i bambini o gli adulti che si trovano “fuori nel campo” della confusione e della depressione.
Il messaggio è che, dal punto di vista di Dio, la nostra vita e il nostro destino individuali hanno un valore e un peso infiniti. Se “moriamo”, Dio si aspetta che tutti provino il dolore, intraprendendo un cammino di introspezione. Il nostro viaggio, la nostra lotta, il nostro futuro hanno la massima importanza per Dio, per il mondo, per la storia. Sappiate che ogni fatto conta, che ogni parola ha un potere infinito. Dobbiamo forgiare ogni giorno della nostra vita come se fosse un’opera d’arte.
Ora capiremo perché la provvidenza ha fatto in modo che Ya’akòv insegnasse questa lezione a Yossèf, solo qualche ora prima che si ritrovasse bruscamente in una realtà infernale. Infatti fu questo messaggio a salvare un vulnerabile Yossèf dalla caduta in un abisso, dopo essere stato brutalmente strappato da una “città” sacra e protetta ed essere gettato nel “campo” più depravato della terra, l’Egitto. L’ultima lezione che Yossèf sentì da suo padre lo impregnò della convinzione incrollabile che la sua vita, ogni momento di essa, avesse un significato eterno, e che le sue scelte avessero un valore divino.
Ventidue anni dopo, quando Ya’akòv sentì che Yossèf non aveva dimenticato quell’ultima lezione, la sua anima di padre tornò a vivere. Ya’akòv si rese conto che, nonostante tutto il dolore e l’abuso che Yossèf aveva dovuto sopportare, suo figlio non aveva perso la scintilla interiore che dà a ognuna delle nostre vite nobiltà e significato infiniti.

Il processo di Norimberga: Qual è l’Origine del Male?
In “Giudizio a Norimberga” il giudice americano Dan Haywood ha condannato Ernst Janning (un’importante figura in campo legale in Germania fin dal periodo precedente all’ascesa di Hitler) all’ergastolo per aver condannato a morte un medico ebreo innocente nel 1935. Janning si è difeso dicendo che non era consapevole della portata dell’orrore nazista e che non avrebbe mai dato assistenza a Hitler se avesse saputo che mostruosità stava programmando.
«Quella gente, quei milioni di persone», implorava Janning per ottenere la libertà: «non ho mai saputo che si sarebbe arrivati a tanto. Dovete credermi». Il giudice Haywood rispose: «Si è giunti a tanto la prima volta che hai condannato a morte un uomo che sapevi essere innocente».
Nel momento in cui una SINGOLA VITA PERDE IL SUO VALORE ASSOLUTO, significa che, in definitiva, mille vite, PERSINO UN MILIONE DI VITE NON HANNO PIÙ VALORE!
Proprio dal tuo grave errore si è potuti arrivare alla SOLUZIONE FINALE.
Non dimentichiamoci ciò che Ya’akòv ha insegnato a suo figlio nella LEZIONE FINALE: OGNI VITA VALE COME UN MONDO INTERO!

un caro Shabbàt Shalom
Rav Shlomo Bekhor

Da un discorso del Lubàvitch Rebbe agosto 1981.
Da un articolo di rabbi Yossi Jacobson www.algemainer.com

nuova lezione corta
SALUTE MENTALE = SALUTE FISICA

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לעילוי נשמת יעקב בן שלמה ורחל
In memoria di Yaakov ben Shelomo

UNA LUCE DAL BUIO

Travestimento
C’erano due mendicanti seduti fianco a fianco in una strada di Città del Messico. Uno era vestito come un cristiano, con una grande croce bene in vista alle sue spalle; l’altro era un ebreo chassidico con un cappotto nero e una lunga barba. Le persone, passando accanto ai due mendicanti, prima guardavano entrambi, ma poi, quasi tutti, mettevano i soldi nel cappello di quello seduto vicino alla croce. Dopo ore di questo schema ripetitivo, un prete si avvicinò al mendicante ebreo chassidico e gli consigliò bonariamente: “Ma non capisci? Questo è un paese cattolico. Le persone non ti daranno mai dei soldi se ti siedi lì come un vero ebreo. Specialmente quando sei seduto vicino a un mendicante che è accanto ad una croce. Anzi, probabilmente, gli danno i soldi solo per farti dispetto”.
Il mendicante chassidico, dopo aver ascoltato il prete, si rivolse al mendicante vestito da cristiano e gli disse: “Moshè… vedi è incredibile… questo prete cerca di insegnarci come condurre gli affari…!”.

Giuseppe si rivela ai fratelli
La storia di Giuseppe che si rivela ai suoi fratelli, dopo decenni di amara separazione, è senza dubbio una delle più drammatiche dell’intera Torà. Ventidue anni prima, quando Giuseppe aveva diciassette anni, i suoi fratelli lo disprezzavano a tal punto che, a causa della sua giovane età, lo rapirono, lo gettarono in una fossa e poi lo vendettero come schiavo a dei mercanti egiziani. In Egitto trascorse dodici anni in prigione, diventando alla fine il viceré del paese che all’epoca era la superpotenza mondiale. Ora, più di due decenni dopo, il momento era finalmente maturo per la riconciliazione.
“Giuseppe non poteva trattenere le sue emozioni”, riferisce la Torà nella porzione di questa settimana [Genesi 45, 1-7], tanto che fece uscire tutti i presenti dal suo cospetto. Una volta rimasto solo con i suoi fratelli si rivelò loro dicendogli, mentre piangeva a dirotto: “Per favore AVVICINATEVI… Io sono Giuseppe! Mio padre è ancora vivo?” I suoi fratelli erano così inorriditi da non poter rispondere… “SONO GIUSEPPE VOSTRO FRATELLO colui che AVETE VENDUTO all’EGITTO. E ora non rammaricatevi e non adiratevi per avermi venduto qui, poiché era per provvedere al vostro sostentamento che Dio mi ha mandato dinnanzi a voi… per farvi sopravvivere…”.

Uno Strano Incontro
Le emozioni non sono equazioni matematiche, esse sono la trama attraverso la quale viviamo la vita in tutta la sua maestosità e tragicità. Le emozioni scaturiscono da “regole” indipendenti e da un linguaggio particolare, distinti da quelli prestabiliti e strutturati della scienza. Per questo la particolare fraseologia utilizzata dalla Torà nel descrivere questo incontro, fortemente carico di emozioni, merita di essere analizzato meglio, poiché carico di insegnamenti e significati profondissimi, anche per la nostra vita quotidiana.

Come evidenziato da molti nostri Maestri, analizzando questo incontro quattro osservazioni sono “obbligatorie”:
1) Quando Giuseppe rivela la sua identità ai fratelli, dice: “Per favore AVVICINATEVI… Io sono Giuseppe!”. Nonostante siano soli con lui in una stanza, Giuseppe vuole che si avvicinino ancora di più. In questo momento ci aspettiamo che Giuseppe condivida con i suoi fratelli un segreto intimo. Ma questo, apparentemente, non accade.
2) Dopo che gli si avvicinano, Giuseppe disse: “SONO GIUSEPPE vostro fratello…”. Ma, perché? Appena un momento prima aveva già detto loro chi era…!
3) Oltretutto, la prima volta che Giuseppe si rivela non si definisce fratello; eppure quando si ripete di nuovo dice: “Sono Giuseppe VOSTRO FRATELLO…”. Perché questa omissione?
4) Infine, perché Giuseppe si sente in dovere di informarli che lo avevano venduto agli egiziani dicendo: “Colui che AVETE VENDUTO all’EGITTO”. Come se non fossero a conoscenza di ciò che avevano fatto al loro fratellino due decenni prima! Perché non poteva immediatamente iniziare la sua spiegazione sul perché non avevano bisogno di rimproverarsi per averlo venduto?

Il “Mistero” Di Giuseppe
Nella più lunga narrazione ininterrotta dell’intera Torà che va dalla Genesi cap. 37 a 50 non c’è dubbio che l’eroe, il protagonista indiscusso, sia Giuseppe. La storia inizia e finisce con lui. Lo vediamo da bambino, orfano di sua madre e amato da suo padre; da adolescente sognatore, in odio ai suoi fratelli; come schiavo, poi carcerato in Egitto; quindi come la seconda persona più potente, dopo il faraone, nel più grande impero del mondo antico. In ogni fase della Torà la narrazione ruota attorno a lui e al suo impatto sugli altri. Domina gli ultimi capitoli del libro della Genesi, gettando la sua ombra su tutti gli altri personaggi. In tutta la Torà non c’è nessuno che conosciamo intimamente come Giuseppe. La Torà sembra essere “infatuata” di Giuseppe, dei suoi viaggi e lotte più che con qualsiasi altra figura, forse anche più che con i due pilastri della fede ebraica, Abramo e Mosè. Quindi cosa nasconde la figura di Giuseppe? Cosa rappresenta in realtà?

L’anima non riconosciuta
La vita di Giuseppe incarna l’intero dramma e il paradosso dell’esistenza umana. Il Giuseppe esteriore non era uguale al Giuseppe interiore. Il suo comportamento esteriore non rese mai giustizia alla sua autentica grazia interiore: già da giovane, i suoi fratelli non potevano apprezzare la profondità e la nobiltà del suo personaggio. Il Midràsh e la Torà descrivono Giuseppe, all’età di diciassette anni, come un “ragazzino” immaturo, insinuando che dedicava gran parte del suo tempo a cose vane, come curare il proprio aspetto fisico. Giuseppe appariva alla maggior parte delle persone intorno a lui come un “ragazzino” viziato e vanitoso.

Successivamente, quando Giuseppe si elevò fino a diventare il viceré dell’Egitto, divenne la quintessenza di uno statista carismatico, un giovane leader affascinante e potentissimo che ha in mano tutto l’Egitto, un diplomatico e politico esperto con grandi ambizioni. Non era e non è facile rendersi conto che, in realtà, sotto queste “mutazioni” esteriori c’era un’anima intrisa di passione morale, uno spirito affine ai più alti principi della Torà. Per il “Giuseppe interiore” l’eredità monoteistica di Abramo, Isacco e Giacobbe rimase l’epicentro della sua vita; una sorta di cuore sopraffatto dall’amore verso Dio.
La singolare condizione di Giuseppe – che come detto sopra incarna il paradosso della condizione umana – è espressamente evidenziato in Genesi 42, 8: “Giuseppe riconobbe i suoi fratelli, ma loro non lo riconobbero”.
Il significato mistico di GIUSEPPE RICONOBBE I SUOI FRATELLI è: Giuseppe identificò facilmente la santità all’interno dei suoi fratelli. Dopo tutto, hanno vissuto la maggior parte della loro vita come pastori spirituali, dediti quasi esclusivamente alla preghiera, meditazione e allo studio.
MA LORO NON LO RICONOBBERO: eppure a questi stessi fratelli mancava la capacità di discernere la ricchezza morale impressa nella profondità del cuore di Giuseppe. Attenzione! Non solo mancavano di questa capacità di fronte al potentissimo Giuseppe, il Viceré dell’Egitto, ma più “colpevolmente”, anche di fronte al giovane Giuseppe, quando viveva con loro in Israele. Anche in quell’ambiente i fratelli lo vedevano come un estraneo e addirittura come un pericolo per l’integrità della famiglia di Giacobbe. Pertanto, non stupisce che quando incontrarono Giuseppe negli abiti di un leader egiziano non riuscirono a scorgere, oltre la maschera di un politico esperto e potentissimo, il cuore di un Tzaddik!

Fuoco Sotto La Cenere
Questa doppia identità caratterizzò tutta l’esistenza di Giuseppe, ed era molto difficile da scorgere e solamente quando la moglie del suo padrone tentò di sedurlo, questa doppia identità diventò palese in un modo molto potente.
Questa bellissima, ricchissima e potentissima donna pensò che sarebbe stato facilissimo sedurre un giovane schiavo abbandonato, inducendolo a sacrificare la sua integrità morale per amore del piacere fisico. Ma quando arrivò il momento, quando Giuseppe fu messo di fronte alla prova, egli mostrò un coraggio eroico che lo portò a sottrarsi alla “grinfie” della “nobildonna”. Come risultato di quel santo gesto eroico, Giuseppe finì in prigione per 12 anni!
Il Midràsh paragona Giuseppe ad una fresca sorgente d’acqua nascosta nella profondità della terra, eclissata da strati di detriti di sabbia e ghiaia. In una metafora opposta che indica lo stesso concetto, la Cabalà paragona Giuseppe a un fuoco nascosto nella cenere. All’esterno, la cenere sembra nera, scura e fredda, ma quando ti esponi alla sua vera essenza, senti il calore, il fuoco e la passione che brucia!

Dietro Il Sipario
E poi venne il momento in cui Giuseppe si toglie la maschera! Lo Zohar svela una scena penetrante di ciò che è emerso nel momento in cui Giuseppe si è svelato ai suoi fratelli.
Quando Giuseppe dichiarò, “Io sono Giuseppe”, dice lo Zohar, i fratelli osservarono la luce divina che si irradiava dal suo volto; hanno assistito al maestoso bagliore che emanava dal suo cuore. Le parole “Io sono Giuseppe” non era semplicemente una rivelazione di CHI fosse, bensì di COSA fosse! Per la prima volta, Giuseppe permise ai suoi fratelli di vedere cosa fosse veramente. “Io sono Giuseppe!” deve anche essere inteso nel senso di “Guardatemi, solo così scoprirete realmente chi è Giuseppe”.
Quando Giuseppe gridò “Io sono Giuseppe”, dice il Midràsh, “il suo volto si infiammò come una fornace ardente”. La fiamma che bruciava nascosta per trentanove anni nella cenere, emerse in tutto il suo splendore abbagliante. Per la prima volta in tutta la loro vita, i fratelli di Giuseppe videro Giuseppe così come era realmente; entrarono in contatto con la più grande santità del mondo che emergeva dal volto di un viceré egiziano.

Perdita
“I suoi fratelli erano così inorriditi da non poter rispondere”, riferisce la Torà. Ciò che turbava i fratelli non era tanto un senso di paura o di colpa personale. Ciò che li terrorizzava, più di ogni altra cosa, era il senso di perdita che provavano per se stessi e per il mondo intero a seguito della vendita del fratello in Egitto.
“Se dopo aver trascorso 22 anni in una società moralmente depravata”, pensavano tra loro, “un anno come schiavo, dodici anni come prigioniero, nove anni come politico – Giuseppe conservava ancora tanta santità e passione così profonde, quanto più santo avrebbe potuto essere se avesse trascorso questi 22 anni nel seno del suo santo padre Giacobbe?!”.
“Che perdita per la storia dell’umanità hanno portato le nostre azioni!”, si tormentarono i fratelli. Il mettere a confronto l’attuale condizione di Giuseppe con quello che avrebbe potuto essere il suo potenziale, lasciò nei fratelli delle sentimenti di colpa enormi e di una perdita inconsolabile per ciò che percepivano come un’occasione mancata di proporzioni storiche.

Un Grossolano Errore
In quel preciso momento, quando i fratelli erano presi dai sensi di colpa per il “loro presunto errore”, Giuseppe gli disse: “Per favore, venite vicino a me”. Giuseppe voleva che si avvicinassero ancora di più e guardassero più profondamente nella luce divina che fuoriusciva dal suo volto.
Quando i fratelli si avvicinarono a lui, riferisce la Torà, Giuseppe gli disse: “Sono Giuseppe vostro fratello – sono io che avete venduto in Egitto”. Giuseppe non stava semplicemente ripetendo ciò che aveva detto loro in precedenza (“Io sono Giuseppe”), né li stava informando di un fatto di cui erano ben consapevoli (“Sono io che avete venduto in Egitto”), piuttosto Giuseppe stava rispondendo al loro senso di perdita irrevocabile.
Le parole “Sono Giuseppe vostro fratello – sono io che avete venduto in Egitto” nell’originale ebraico possono anche essere tradotte come: “Io sono Giuseppe vostro fratello – PROPRIO PERCHÉ mi avete venduto in Egitto!”. Ciò che Giuseppe stava affermando era il potente e movimentato messaggio secondo cui: “l’unica ragione per cui ho raggiunto altezze spirituali così enormi è perché ho trascorso gli ultimi 22 anni in Egitto (il paese più impuro al mondo) e non nel sacro ed idilliaco ambiente di Giacobbe!”.

Il Grande Catalizzatore
Il fantastico bagliore che emanava dalla sua presenza suggerì che Giuseppe non era lì NONOSTANTE i suoi due decenni trascorsi nella società egiziana, molto lontana dal paradiso celeste di suo padre. Al contrario, proprio le incredibili prove, tribolazioni e avversità che ha affrontato nella “giungla spirituale” egiziana sono esattamente ciò che ha scatenato il bagliore che i fratelli stavano attualmente vivendo.
Se Giuseppe avesse trascorso i due decenni in viaggio con suo padre, lungo la facile strada spirituale della Torà, avrebbe sicuramente raggiunto grandi altezze spirituali, intellettuali ed emotive. Ma QUESTA luce poteva emergere SOLO dalla profondità dell’oscurità, dalla fossa della promiscuità egiziana. Ecco perché Giuseppe chiede ai suoi fratelli di avvicinarsi a lui, in modo che potessero vedere e apprezzare da vicino la sua luce unica che poteva emergere solo grazie a un’esperienza, dolorosa, quanto unica.
Questo è anche il motivo per cui Giuseppe menziona, per la seconda volta, l’elemento della fratellanza non solo a livello biologico. Perché Giuseppe stava provando non solo a dire loro chi era, ma a condividere la realtà della loro parentela, il fatto che lui, come loro, era profondamente connesso alle sue radici spirituali ebraiche.

Se Solo…
Proprio come i fratelli, anche molti di noi vivono la nostra vita pensando “Se solo…”: se solo le mie circostanze sarebbero state diverse; se solo fossi nato in un diverso tipo di famiglia; se solo avessi una personalità migliore… L’eterna lezione di Giuseppe è che il viaggio individuale della nostra vita, in tutti i suoi alti e bassi, è ciò che alla fine ci permetterà di scoprire il nostro posto unico in questo mondo secondo la volontà di Hashèm.
Prove, successi, gioie, tribolazioni. Tutto serve a farci scoprire la santità che c’è in ognuno di noi, far brillare le nostre anime, per illuminare il mondo e agevolare la venuta di Mashìakh presto ai nostri giorni, Amen.

(Questo saggio si basa su scritti chassidici: vedi Sefat Emet Vayiggàsh. Likuté Sikhòt vol. 25 pagg. 255-257, edito da Y. Y. Jacobson)

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VAYIGGASH:
COME VINCERE LA TRISTEZZA

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VAYIGGASH: COME VINCERE LA TRISTEZZA

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Chi porta vita alle persone come ha fatto Sèrakh a suo nonno, merita lunga vita.
Quando si da qualcosa non è una perdita ma un guadagno enorme, perché si riceve indietro sempre di più di ciò che si ha dato.
NESSUNO HA VISSUTO TANTO A LUNGO COME Sèrakh perché dare gioia di vita alle persone è la cosa più bella e più importante come dice il trattato di (Taanìt 22a):
quali sono le persone meritevoli hanno chiesto al profeta Eliahu? Sono quei due pagliacci che girano nel mercato e se vedono qualcuno giù di morale, fanno di tutto per alzarglielo, con qualche barzelletta o altro.

(continua sotto)

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Shabbat ShalomRav Shlomo Bekhor
una nuova e breve lezione di VITA di ieri!
SALUTE MENTALE = SALUTE FISICA
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PIANGERE O NON PIANGERE?

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YOSEF È ANCORA VIVO…
(continua da sopra)
Chi fu il primo messaggero a portare la bella notizia a Yaacov?
Il Midrash ci racconta di Sèrakh, figlia di Asher.
I fratelli scelsero lei perché avevano bisogno di un abile messaggero per dare la notizia a Yaacov. Anche se sarebbe stato meraviglioso per il padre sapere che il figlio amato era ancora vivo, lo shock improvviso, per questa notizia inaspettata, poteva danneggiare la salute di Yaacov. Ricordiamoci che il grande patriarca era anziano, aveva 130 anni e Yosef era scomparso da ben 22 anni!
I fratelli scelsero Sèrakh proprio perché era una ragazza intelligente e sapeva suonare molto bene l’arpa. Sèrakh cominciò a suonare della musica per suo nonno e mormorò dolcemente le parole: «Mio zio Yosef è ancora vivo. Egli è governatore su tutto l’Egitto». Continuò a ripetere la stessa frase diverse volte, finché suo nonno iniziò a sorridere.
«Ciò che stai cantando è molto bello, Sèrakh» disse Yaacov. «C’è aria di belle notizie. Possa tu essere benedetta con una lunga vita per avermi tirato su il morale con notizie piene di speranza».
Tuttavia Yaacov non credette realmente a sua nipote, finché i fratelli non gli confermarono la notizia e finché non vide i carri che suo figlio Yosef aveva mandato.
C’è anche un’altra opinione diversa secondo la quale fu Naftali il primo a raccontare a Yaacov che Yosef era ancora vivo. Naftali era un rapido corridore: egli compiva sempre le commissioni per i suoi fratelli e per suo padre. Perciò i fratelli lo mandarono avanti per fare in modo che Yaacov sapesse della notizia il più presto possibile.
Comunque tutti i fratelli si riunirono prima, per annullare il giuramento secondo il quale non avrebbero mai detto a nessuno che Yosef era ancora vivo…
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Una dimora per Hashem
Nella parashà di Vayigàsh è scritto: “E cadde (Yosef) sul collo di suo fratello Binyamin e pianse, e Binyamin pianse sul suo collo”.
Perché piansero i due fratelli?
Ognuno pianse per la distruzione del Bet Hamikdàsh che si trova nel territorio del fratello. Yosef pianse per i due Bet Hamikdàsh, che saranno costruiti a Yerushalaim, nel territorio di Binyamin, e che saranno poi distrutti. Binyamin pianse per la distruzione del Mishkan Shilò, città nel territorio di Yosef.
Sia il Mishkan  di Yerushalaim, sia quello di Shilò erano Santuari pubblici. Simili a essi ci sono dei Santuari privati: che simboleggia quello che si trova nel cuore di ogni ebreo e che può, Dio non voglia, distruggersi  anch’esso.
Il Bet Hamikdàsh è il luogo dove dimora la Shechinà di Hashem. L’ebreo che adempie alle mitzvòt e che segue la strada della Torà attira su di sé la Shechinà di Hashem e in questo modo COSTRUISCE un “SANTUARIO PRIVATO” DENTRO il suo CUORE. Invece, un ebreo che non segue la strada della Torà e non adempie alle mitzvòt non permette alla Shechinà di dimorare in lui, quindi in questo modo manda in rovina il suo Bet Hamikdàsh privato.
La distruzione di un  Bet Hamikdàsh, “pubblico o privato” che sia, è una vicenda tristissima. Per questo Yosef, quando vide profeticamente che nel territorio di Binyamin saranno distrutti i due Santuari scoppiò in lacrime; proprio come Binyamin, quando vide che verrà distrutto il Mishkan, nel territorio di Yosef.
Quando vediamo il Santuario privato di un amico distruggersi, a causa dei suoi peccati, ciò è così triste che ci fa piangere. Piangiamo, perché condividiamo col nostro amico la sua tristezza, per la distruzione del suo Santuario privato.
È interessante notare che Yosef pianse per i Santuari che saranno distrutti nel territorio di Binyamin e non pianse per il Mishkan, che sarà distrutto nel suo territorio! Binyamin pianse per la distruzione del Mishkan nel territorio di Yosef, ma non pianse per i Santuari che saranno distrutti nel suo territorio! Perché nessuno dei due pianse per la distruzione del Santuario nel proprio territorio? Perché piansero l’uno per l’altro?
Una persona piange, vedendo il compagno peccare e distruggere la sua dimora per Hashem, mentre non piange quando lui stesso pecca e distrugge in lui il suo Santuario privato. Il pianto infatti non ha il potere di ricostruire di nuovo il Santuario! Invece di piangere si dovrebbe cominciare a ricostruire il Bet Hamikdàsh, per mezzo delle mitzvòt e delle buone azioni.
Ma quando vediamo la distruzione del Bet Hamikdàsh nel prossimo, piangiamo perché condividiamo con lui la tristezza per la distruzione del suo Santuario. Noi purtroppo non possiamo ricostruirlo sul momento, questo dipende solo da lui, cioè da ognuno di noi. Possiamo dare algli altri dei buoni consigli, ma la parte più importante del lavoro dipende da noi, dal nostro lavoro interiore. È solo grazie alla nostra forza di volontà che possiamo aggiustare le nostre azioni e ricostruire il nostro “piccolo/grande” Santuario interiore. Allora ci è permesso piangere per questo…
Iniziamo a costruire il nostro Santuario personale, facendo mitzvòt e opere buone, e certamente meriteremo di vedere il terzo Bet Hamikdàsh costruito in eterno. Amen.

La Parashà di Vayiggàsh tratta in sintesi i seguenti argomenti:

Yehudà illustra a Yossèf la situazione del padre, per convincerlo di non farlo tornare a casa senza Binyamìm. Garante della vita di Binyamìm presso il padre, si offre a Yossèf come schiavo al posto del fratello.
Commosso dalle parole del fratello, Yossèf fà uscire tutti i presenti dalla stanza e si fà riconoscere dai fratelli. Egli chiede loro di non addolorarsi per ciò che gli avevano fatto, essendo stati semplicemente il mezzo per il compimento del proggetto divino. Yossèf chiede che il padre sia condotto in Egitto.
Il faraone invita la famiglia di Yossèf a trasferirsi in Egitto. Giunti a casa, raccontano l’accaduto al padre che, commosso, decide di partire per rivedere il figlio.
Durante il viaggio, Ya’akòv si ferma a Beèr Shèva, dove offre sacrifici a HaShèm. Visione notturna di Ya’akòv. HaShèm lo rassicura, promettendogli, la Sua protezione in Egitto. Inoltre Yossèf si prenderà cura di lui. Nomi dei figli di Ya’akòv e dei loro figli. Con i figli di Yossèf, i componenti della famiglia di Israèl in Egitto sono settanta.
Yossèf si reca personalmente a incontrare il padre in una scena commovente. Yossèf suggerisce alla famiglia di dire al faraone di essere pastori, per ottenere il permesso di stabilirsi nella regione di Gòshen.
Yossèf conduce cinque dei suoi fratelli al cospetto del faraone, i quali agffermano di essere pastori ed egli permette che si stabiliscano nel paese di Gòshen. Breve colloquio fra Ya’akòv e il faraone: Ya’akòv benedice Parò.
La carestia si aggrava e Yossèf raccoglie tutti gli averi del popolo, in denaro e bestiame, dando in cambio cibo a chi lo richiede. L’anno seguente Yossèf acquista per il faraone tutti i terreni d’Egitto, tranne quelli dei sacerdoti. Quindi ordina al popolo di seminare e sancisce una legge secondo la quale tutti dovranno dare al faraone un quinto del raccolto. Gli ebrei invece vivono a Gòshen dove acquisiscono grandi proprietà e si moltiplicano.

MIDRASHIM

Il Canto di Sérakh (Bereshìt 45,25-26)
Midràsh Bereshìt Rabbà 94; Sèfer Hayashàr
(a pagina 675 del volume Bereshìt edizioni Mamash).

Ya’akòv Parte per l’Egitto (Bereshìt 46,1-7)
Midràsh Bereshìt Rabbà 94; Sèfer Hayashàr
(a pagina 677 del volume Bereshìt edizioni Mamash).

SIKOT

L’Eredità di Yossèf
(a pagina 749 del volume Bereshìt edizioni Mamash).

VAYIGGASH 5771: COME VINCERE LA TRISTEZZA
Il comportamento di Yossèf verso i fratelli, la sua capacità di perdonare e far vincere l’amore sopra al rancore, diventa insegnamento per affrontare i momenti difficili, i problemi che incontriamo. La grande sensibilità che Yossèf dimostra verso il padre, la sua capacità di cogliere gli stati psicologici degli altri, ci guidano nel giusto comportamento, nel saper trovare l’equilibrio vincente nella vita! Non sono gli eventi a darci tristezza nella vita, ma il modo in cui noi li interpretiamo!

VAYIGGASH 5770: COME YOSSEF HA SISTEMATO LA SUA FAMIGLIA DISTRUTTA!
L’ìncontro e la pace riottenuta tra Yossèf e i suoi fratelli. La storia di Yossèf, nella rivelazione con i fratelli, presenta significati profondi sul percorso del pentimento, e grandi valori, molto attuali oggi, per “recuperare” l’unione della propria famiglia.

VAYIGGASH 5769: PIANGERE O NON PIANGERE?
L’esilio di Yossèf ci insegna l’importanza di utilizzare la condizione di esilio stessa come un utile stimolo per migliorare per cambiare per agire in modo propositivo. Come riconoscere in una condizione negativa gli aspetti positivi, individuando che tutto viene dall’Altissimo ad uno scopo.

VAYIGGASH 5768: DIASPORA NON E’ IL POSTO IDEALE PER VIVERE
L’esempio di Ya’akòv, felice di incontrare il figlio, ma addolorato per dover lasciare la propria terra. Anche se si hanno tutte le buone ragioni per andare in diaspora, comunque non deve essere una giustificazione e bisogna comunque essere addolorati di lasciare la propria terra. Si scopre qual è lo strumento per annullare l’esilio.

VAYIGGASH 5767: IL DOLORE DI LASCIARE ISRAELE
Ciascuno di noi si trova in un esilio spirituale e materiale. In ebraico, la parola “Egitto” significa anche “confine”, ma di fronte agli ostacoli, dobbiamo reagire sapendo che sono stati messi per renderci più forti. La storia di Yossèf e di suo padre Yaakòv ci porta grandi e profondi insegnamenti per riuscire a resistere nell’esilio.