KI TETZE 5784: 5 LEZIONI
Questo Shabbàt 14 Settembre 2024, 11 del mese di ELUL 5784 leggeremo la Parashà di Ki Tetzè
Deuteronomio 21: 10 – 25: 19
HAFTARÀ ITALIANI:
1° Samuele 17: 1-37.
HAFTARÀ Milano/Torino/Sefarditi/Ashkenaziti:
ISAIA 54,1 – 10
KI TETZE
La parashà che leggiamo questa settimana KI TETZE è la parashà numero 49°con più mitzvòt di tutte le parashòt: 74. Più del 12% di tutte le mitzvòt di tutta la Torà in una sola parashà. Ecco una nuova riflessione dalla parashà.
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IL RACCONTO DI DUE AMORI
“Il matrimonio cambia la personalità?” chiede Greg al suo amico Mike. “In un certo senso, si”, dice Mike. “Vedi, quando ero fidanzato, ero io a parlare di più e lei ad ascoltare.
Quando ci siamo appena sposati, era lei a parlare di più e io ascoltavo. “Adesso parliamo entrambi e sono i vicini ad ascoltare”.
I Diritti del Primogenito
La porzione della Torà di questa settimana (Ki Tetzè) afferma la seguente legge (Devarìm 21, 15-17): “Se un uomo ha due mogli, una amata e una non amata, e sia la moglie amata che quella non amata hanno figli e il figlio primogenito è quello della moglie non amata, nel giorno in cui quest’uomo lascerà in eredità i suoi beni ai suoi figli, non potrà dare la precedenza al figlio della moglie amata rispetto al figlio della moglie non amata, che è il primogenito. Piuttosto, egli deve riconoscere il primogenito, il figlio non amato, per dargli la doppia parte di tutti i suoi beni.”
A livello letterale, questi versetti stabiliscono che un figlio primogenito erediterà una porzione doppia del patrimonio del padre, mentre ogni figlio successivo erediterà una porzione uguale della proprietà. Un padre non ha il potere di lasciare in eredità la doppia porzione riservata al primogenito a uno degli altri figli che ama e qualsiasi tentativo di farlo è ignorato dalla legge ebraica.
Come chiarisce il Talmud, una persona è certamente autorizzata a distribuire l’intera sua proprietà a uno degli altri figli (o a qualsiasi altro individuo), fintanto che la trasferisce come dono quando è in vita. Ma se sceglie di lasciare in eredità i suoi beni a uno dei figli, e così negare i diritti del suo figlio primogenito, allora il tentativo del padre non ha validità legale nel sistema giuridico ebraico. Tuttavia rimane da capire come mai la Torà ritiene necessario insegnare questa fondamentale legge sulla successione ereditaria attraverso l’esempio negativo di un uomo che ama una delle sue mogli e detesta l’altra. Perché è necessario usare un esempio così strano per dimostrare che il figlio primogenito ha diritto a una doppia porzione di eredità indipendentemente dalle preferenze del padre?
Un Manuale Spirituale
Uno dei fattori essenziali da tenere a mente durante lo studio della Torà è l’idea che ogni mitzvà, legge ed episodio descritto nella parola di Dio contiene, oltre alla sua interpretazione basilare, anche una dimensione psicologica e spirituale (Likuté Sikhòt vol. 23). Nel suo commento alla Torà, il saggio spagnolo del XIII secolo, Nakhmanide (Rambàn), scrive: “La Torà discute la realtà fisica, ma allude al mondo spirituale”. Un altro grande cabalista è andato ancora oltre. Il mistico del XVII secolo, il rabbino Menachem Azaryà di Fano afferma che “La Torà discute principalmente la realtà spirituale e (al contempo) allude anche al mondo fisico”.
Le storie e le leggi nella Torà dovrebbero essere comprese prima di tutto come eventi e leggi nel regno spirituale, e questo è in realtà il metodo primario di interpretazione della Torà. Ma nel comunicare le verità spirituali, la Torà si presta anche a essere interpretata in modo fisico e concreto.
Qual è allora il significato spirituale della descrizione apparentemente grossolana di “un uomo che avrà due mogli, un’amata e una non amata, e sia la moglie amata che quella non amata hanno figli, e il figlio primogenito è quello dell’odiata”? Come possiamo intendere questo nell’ambito dell’universo spirituale?
Anime in Lotta
L’ebraismo insegna che la relazione tra ogni marito e moglie riflette la relazione cosmica tra Dio (lo Sposo) e il popolo ebraico (la Sposa). L’intero libro del “Cantico dei Cantici” di Re Salomone si basa sulla nozione che le nostre relazioni umane sono in grado di rispecchiare tale matrimonio divino. Tuttavia ci sono due tipi di persone che corrispondono ai due diversi “matrimoni” con Dio: il “coniuge amato” e il “coniuge non amato”.
Il primo simboleggia quegli individui che godono di una storia d’amore continua con Dio. Le loro anime traboccano di estasi spirituale, idealismo disinteressato e ispirazione ardente. Non possono smettere di amare Dio e Dio non può smettere di amarli.
All’altro estremo dello spettro ci sono i “coniugi disprezzati/odiati”, persone che possiedono numerose qualità che dovrebbero essere respinte: impulsi immorali, sentimenti deprimenti, passioni volgari, vizi storti e brutte tentazioni. Queste sono le persone i cui cuori non sono sempre infiammati d’amore verso l’unità divina della realtà; il loro matrimonio con la loro anima divina è una lotta. La loro psiche vibra di paradosso, poiché pur amando Dio per tutta la loro vita, devono combattere per non diventare vittime di istinti e desideri insani (Tanya capitolo 27).
La Torà ci insegna che il “figlio primogenito” di Dio potrebbe benissimo provenire non dalla Sua unione con il coniuge amato, ma piuttosto dalla Sua relazione con il coniuge disprezzato. Il “prodotto” spirituale che un essere umano in difficoltà genera, come risultato della sua tumultuosa storia d’amore con Dio, può tuttavia essere molto più profondo e potente di quello della persona spiritualmente serena rappresentata dalla figura del “coniuge amato”.
Quando il coniuge odiato lavora con tutte le parti del cervello e del cuore, scopre la bontà nascosta in profondità in tutte le emozioni e predisposizioni, e allontana la parte negativa gli conferisce uno spazio molto più profondo di unità e amore con Dio più del coniuge amato. La moralità e l’integrità che emergono dal mezzo del confronto quotidiano con le parti di noi che possono apparire ripugnanti, contengono una profondità e uno splendore unici non posseduti dal semplice percorso santo del coniuge amato.
Quindi, “nel giorno in cui Egli lascerà la Sua proprietà ai Suoi figli, non potrà dare al figlio della moglie amata la precedenza del diritto alla primogenitura rispetto al figlio della moglie odiata, il primogenito. Piuttosto, Egli deve riconoscere il primogenito, il figlio della moglie odiata, per dargli la doppia porzione in tutta la Sua proprietà”.
A livello spirituale, il “coniuge amato e odiato” simboleggiano anche i due principali “archetipi” presenti nella Torà: rispettivamente lo tzaddikìm e il Baal teshuvà. Di quest’ultimo, infatti, è scritto nella Torà che dove arriva il Baal teshuvà neanche i giusti completi possono arrivare (nel senso di elevazione spirituale).
Il Baal teshuvà è colui che ha rettificato il proprio istinto al male in tutto o in parte, rappresentato dall’anima animale, e proprio per questo la Torà “premia” il “frutto del suo lavoro” di rettifica rappresentato dal “figlio primogenito” con la “donna odiata”. Quest’ultima rappresenta la parte indesiderata, e pertanto odiata, dell’uomo.
Ovviamente è bene che vi siano degli tzaddikìm tra noi che non hanno impulsi o desideri negativi e che pertanto riescono ad aiutare gli altri a fare teshuvà. Tuttavia la stragrande maggioranza degli esseri umani ha come missione in questo mondo, di vivere santificando la realtà proprio attraverso la lotta contro l’anima animale in maniera da elevarla ed estrarre i bene contenuto in essa. Questa è la missione che Hashèm ci richiede poiché il mondo è stato creato per chi combatte il male e lo trasforma in luce, ovvero per la maggior parte di noi (Tanya cap 14).
Nel giorno in cui verrà il Mashìakh, quando l’umanità assaporerà finalmente la piena Divinità nel mondo (quando scopriremmo la coscienza del Mashìakh nelle nostre vite), una “doppia porzione” di Divinità sarà rivelata nell’arduo lavoro e nel sudore dell’individuo che non ha mai smesso di lottare per trasformare il buio in luce e il male in bene.
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BUON MATRIMONIO LA MIGLIORE MEDICINA!
Occorre prendere gli antibiotici solo quando si sta male, altrimenti fanno dei danni…
La Torà cura SEMPRE e non ha mai effetti collaterali.
Comunque quando il matrimonio è in difficoltà, è propizio approfondire il suo significato, perché viene assorbito meglio!
Qualche riflessione sul valore del matrimonio fa TANTO bene, così ci teniamo sempre in allenamento, visto che la missione più importante che abbiamo nella vita è quella di trovare l’equilibrio coniugale, non a caso tutto il successo e prosperità dipende dal rispetto che si da alla moglie…
Il Rebbe scrive in una lettera un consiglio a una persona la cui moglie non sta bene:
הוספה בשימת לב הבעל לאשתו מוסיפה בבריאותה וכו’. כמובן – הוספה שתרגיש בה
“Le consiglio di prestare maggiore attenzione e cura, in maniera sentita, verso vostra moglie. Questo AUMENTERÀ la salute della sua dolce metà!”
“Il Giusto Coniuge Per Un Matrimonio Sano”
Uno dei precetti della parashà è il divorzio. Se una coppia non riesce a convivere la Torà non solo permette ma impone il divorzio. Il Talmud Ketuvòt 72a usa 3 volte questa espressione: non si può forzare una persona di dormire con un serpente in casa.
Dice il Talmud se un marito non vuole mantenere la moglie lo si obbliga a mantenerla. Però poi dice non si può obbligare una donna a vivere con un marito che mantiene sua moglie solo perché è stato forzato. Questo marito è una mina vagante è come se fosse un serpente in casa dove la moglie non può dormire tranquilla.
Visto che nell’ebraismo il matrimonio ha un valore altissimo e assoluto, perciò, il divorzio è l’ultimissima spiaggia solo in casi estremi di invivibilità tra i due coniugi.
Come dice il Talmud che perfino l’altare piange quando una coppia divorzia. Ma come mai si cita proprio l’altare chiedono i maestri?
Poiché l’altare simboleggia il sacrificio per Dio dove si portano tutte le offerte. Dall’altare impariamo il sacrificio per il coniuge che è la condizione base per il successo del matrimonio.
Perciò è l’altare che piange, perché quando avviene un divorzio vuole dire che non hanno imparato dall’altare a sacrificarsi alla propria anima gemella e allora lui piange.
Il vero matrimonio non è basato su quello che IO voglio e IO ricevo ma su quello che io do. Più si dà e più si riceve.
Un commento inerente a questo argomento.
Nella parashà di questa settimana la Torà ci dice che se un Israelita aveva fatto prigioniera una donna nel corso di una guerra, non la poteva sposare immediatamente. Al contrario, ella doveva inizialmente rendersi non attraente agli occhi di lui, fornendo così un’opportunità al desiderio appassionato dell’uomo di dissiparsi.
In tal modo veniamo messi in guardia dall’agire accecati dalla passione. Nessuno dovrebbe diventare prigioniero dei propri desideri e perdere ogni auto-controllo. Invece bisognerebbe cercare di attendere finché le proprie forti bramosie di piacere fisico si siano spente. Solo allora si può agire con buon senso, senza rischiare di cadere nella trappola dei propri istinti.
Ciò è particolarmente vero nel processo di scelta del giusto partner per il matrimonio. Se una persona compie la scelta di sposarsi unicamente sulla base di un’attrazione fisica, il matrimonio poggia su basi molto instabili.
Appena l’attraenza esteriore del partner si affievolisce, allo stesso modo accade per il matrimonio.
La discendenza di una simile coppia rischia di essere testimone di un’unione tempestosa, e potrà essa stessa risultarne segnata. È per questa ragione che la Torà giustappone il verso riguardante il matrimonio con una donna prigioniera a quello della nascita di un figlio ribelle (Ben Sorèr Umorè).
Infatti l’atto di sposarsi semplicemente per la bellezza invece che per vero amore può sfociare nello sviluppo di un figlio irrispettoso.
D’altro canto, una persona che è attenta nella scelta dell’anima gemella basandosi sui tratti caratteriali fini e compatibilità sia fisica sia spirituale, riceve la benedizione di una prole virtuosa. Per questo motivo troviamo Aharon il Sommo Sacerdote che sposa Elisheva, la figlia dello tzaddìk Amminadàv (padre di Nakhshòn che fu un grande leader e il primo ad attraversare il Mar Rosso). Tra i loro discendenti si annoverano El’azàr, il successivo Sommo Sacerdote e Pinekhàs, dei cui grandi meriti abbiamo parlato nella parashà di Pinekhàs.
Le indubbie qualità di Pinekhàs erano senza dubbio eredità di genitori e nonni, le cui virtù personali costituirono senza dubbio un alto esempio per il ragazzo negli anni della sua crescita.
“Una buona moglie è un bel dono da parte di Hashèm” (Ben Sira).
“Una donna è meravigliosa quando è virtuosa” (Talmud Shabbat 25).
“È solo per merito della moglie che la casa di un uomo è benedetta” (Talmud Baba Metzi’à 59).
Nel Maftìr (la parte finale della parashà settimanale) di questa settimana, la parashà di Ki Tetzè, ci viene ordinato di ricordare Amalèk, l’acerrimo ed eterno nemico di Israèl. Tuttavia, non si tratta solo di un semplice ricordo, ma addirittura la Torà ordina di cancellare il ricordo di Amalèk. Nel proseguo di questo scritto approfondiremo l’argomento, ma adesso “una domanda sorge spontanea”, o almeno dovrebbe… Ki Tetzè è piena di regole di vita, di etica e di comportamento ebraici, molto pratici e concreti. Tutta la parashà tratta, ad esempio, di argomenti quali “Diritti del figlio primogenito”, della “Cura della proprietà altrui”, dei “Matrimoni proibiti o della “Garanzia per un Prestito”. Argomenti che hanno a che fare con il modo che un ebreo dovrebbe affrontare la vita quotidiana secondo i dettami della Torà.
Poi alla fine si introduce un argomento denso di significato ma, al contempo, almeno apparentemente, completamente estraneo a quelli trattati per tutto il resto della parashà. Cosa c’entra Amalèk con tutto questo? Una risposta la possiamo trovare in questa lettera che il Rebbe scrisse ad un gruppo di giovani accademici in occasione della festa di Purìm:
MEGLIO UNA MITZVÀ OGGI CHE UN AMALÈK DOMANI
“Lettere Dal Rebbe”
7 Adàr 5713 – Brooklyn, NY
La storia di Purìm, raccontata nel Libro di Estèr, ci offre un’analisi chiara del cosiddetto “Problema Ebraico”.
Gli ebrei erano sparpagliati in 127 provincie e paesi e le loro case erano in rovina. Di conseguenza, essi erano indiscutibilmente diversi gli uni dagli altri per usi, abbigliamento e lingua che variavano a seconda del luogo, come succede oggi. Nonostante ci fossero ebrei che nascondevano la loro identità Hamàn, il loro nemico, ne riconosceva le qualità e le caratteristiche basilari che li rendevano membri di un unico popolo, indipendentemente dalla loro volontà. La caratteristica specifica era: le loro leggi sono differenti da quelle di ogni altro popolo (Meghillà Estèr 3,8).
Nel suo malvagio desiderio di sterminare gli ebrei, Hamàn cerca di distruggere tutti gli ebrei, giovani e vecchi, donne e bambini. Nessuno, a quel tempo, poteva sfuggire all’etichetta di appartenere a quel popolo; il decreto crudele di Hamàn comprendeva tutti: dagli ebrei che osservavano strettamente la Torà e i Comandamenti, agli ebrei con legami più fragili, a quelli che cercavano di assimilarsi.
Gli Hamàn sono vissuti in ogni tempo, ma, grazie a Dio, siamo sempre sopravvissuti. Dove è il nostro segreto?
La risposta sarà fornita dagli esempi seguenti: quando uno scienziato cerca di accertare le leggi che governano un determinato fenomeno, o di scoprire le proprietà essenziali di un determinato elemento in natura, deve condurre una serie di esperimenti per scoprire quelle proprietà o leggi che si ottengono in condizioni simili. Nessuna vera legge scientifica può essere dedotta da un numero minimo di esperimenti, o da esperimenti fatti in condizioni simili o quasi: in effetti, il risultato di ciò che è essenziale e di ciò che è secondario o non importante non sarebbe conclusivo.
Lo stesso principio deve essere applicato al popolo di Israèl, uno dei più antichi del mondo: la sua storia ha infatti inizio con la Rivelazione del Monte Sinai 3.333 anni fa. Nel corso dei secoli, è vissuto in condizioni estremamente diverse, in epoche differenti e in svariati posti, in tutto il mondo. Quando desideriamo scoprire quali siano gli elementi essenziali che costituiscono il nucleo, il fondamento e la forza dell’esistenza di Israèl, dobbiamo concludere che questi fattori non sono costituiti da caratteristiche fisiche, mentali, o linguistiche; non contano nemmeno gli usi e i costumi (nel senso lato della parola) e la purezza della razza (ci sono stati periodi all’inizio della storia del nostro popolo, nel Medio Evo e addirittura recentemente in cui gruppi etnici e tribù sono diventati proseliti e parte di Israèl).
La Torà e le mitzvòt sono gli elementi essenziali che uniscono il nostro popolo disperso e sparpagliato e lo rendono un popolo a dispetto del tempo e della diaspora: il modo di vivere ebraico è rimasto invariato attraverso le epoche e i luoghi. La conclusione è dunque chiara e certa: sono la Torà e le mitzvòt che rendono il nostro popolo indistruttibile, che gli hanno permesso di fronteggiare massacri e pogroms che miravano alla nostra distruzione fisica. La Torà e le mitzvòt fanno sì che il nostro popolo abbia fatto fronte a carneficine spirituali e a culture estranee il cui obbiettivo era la nostra distruzione spirituale.
La fine della nostra sezione di Ki Tetzè ci trasmette l’insegnamento che esiste un popolo la cui forza e spiritualità è qualcosa di irrazionale, un insegnamento che Amalèk non può sopportare.
Solo l’esistenza di un popolo con leggi diverse, con valori diversi sono un disturbo per Amalèk, perciò, attacca subito Israèl fin dalla sua nascita. Così i discendenti di Amalèk da Hamàn a Hitler cercano di realizzare il sogno del loro capostipite, ma Purìm ci insegna la vecchia storia verificata, con nostro grande dolore, anche recentemente: nessuna assimilazione, nemmeno quella che si estende a diverse generazioni, ci offre una scappatoia dagli Hamàn e da Hitler. Un ebreo non può recidere il legame col proprio popolo nemmeno tentando questa via d’uscita. La nostra salvezza e la nostra esistenza dipendono soprattutto dal fatto che la (nostra) legge è diversa da quella degli altri popoli.
Purìm ci rammenta che la forza di Israèl risiede nella stretta osservanza della nostra eredità spirituale, che contiene i segreti di una vita armoniosa, sana e felice. Tutte gli ostacoli devono essere liberati da ogni contraddizione.
Coi migliori auguri… e con la speranza di poter vivere per vedere un mondo libero dai vari Hamàn ed Amaleciti, i nemici degli ebrei, dei loro corpi, della loro anima e della loro fede”.
Con la creazione Dio ha riservato all’uomo e in particolare al popolo ebraico il compito di celebrare il coinvolgimento umano nella realtà fisica della creazione divina. In altre parole, ogni oggetto materiale e non è imbevuto di spiritualità, poiché immerso nel contesto del servizio di Dio e della relazione tra Lui e l’uomo. La materialità dovrebbe essere sublimata dallo scopo divino. In particolare, ogni regola e dettato della Torà, anche quelli meno comprensibili o “complicati”, manifestano l’intrinseca unicità dell’universo, radicata nell’Unicità del Creatore.
Questo in verità è il fine ultimo della creazione: manifestare la propria origine divina, trasformando il mondo in una residenza adatta alla Divinità. Questa è la missione per cui l’uomo è stato creato, lo scopo da perseguire specialmente in tempo di Galùt, di diaspora. Il raggiungimento di tale fine è la suprema benedizione dell’era messianica durante la quale “la terra sarà piena della conoscenza divina, come le acque che coprono il mare…” (Isaia 11, 9, e 40, 5). I nostri sforzi affretteranno il raggiungimento della meta e della benedizione e faranno sì che si verifichino velocemente durante i nostri giorni.
Adesso è forse possibile comprendere meglio il legame esistente tra le regole pratiche e il dettato di sconfiggere e cancellare la memoria di Amalèk, che è il filo conduttore della 49° sezione della Torà di questa settimana. Inoltre, andiamo ad approfondire il legame che intercorre tra quanto detto fino ad ora, le nostre vite, Purìm e Amalèk.
Buona lettura.
Eterni Modelli Nel Tempo
Amalèk: il Nemico Perpetuo del Popolo Ebraico
Motivi Ricorrenti
Il conflitto tra Hamàn e Mordekhai, che termina col miracolo di Purìm, affonda le radici negli avvenimenti verificatisi molti secoli prima. Hamàn fa risalire la sua discendenza ad Agàg, Re di Amalèk (Targùm Shenì su Estèr 3,1); Mordekhai ed Estèr erano esponenti della famiglia reale di Shaùl, il primo re di Israele. Quando gli Ebrei lasciarono l’Egitto, Amalèk fu il primo ad attaccarli. Conseguentemente fu ordinato: “… di cancellare la memoria di Amalèk di sotto al cielo.” (Devarìm 25, 19).
Molti secoli dopo, quando Shaùl fu incoronato, il Profeta Samuele ordinò di adempiere al comando divino in questo modo…: «Va a colpire Amalèk e distruggi tutto quello che gli appartiene, senza nessun riguardo, mettendo a morte tutti, uomini e donne, bambini e neonati, bovini e ovini, cammelli ed asini» (Samuele 1; 15, 3).
Shaùl radunò gli Ebrei e fece guerra agli amaleciti, sterminando la popolazione e distruggendone i beni. In ogni caso “Shaùl ed il popolo risparmiarono Agàg ed il meglio degli animali…” (Samuele 1, 15, 9) riportandoli indietro con loro. Samuele rimprovera severamente Shaùl per questo: “Poiché tu hai disprezzato la parola divina, il Signore ti considera indegno di essere re”. (Samuele 1, 15, 23) Shmuel uccise quindi Agàg, ma questi fu in grado di generare un figlio nell’intervallo tra la cattura e la morte. Il bimbo era un antenato di Hamàn (Meghillà 13°, Khokhmat Enosh su Samuele 15, 32).
L’Amalèk Interiore
Il Tanàkh non è un semplice libro di storia. Al di là della cronaca degli eventi passati, ci permette una introspezione che può migliorare l’attuazione del servizio verso Dio.
Il nome Amalèk si riferisce ad una popolazione realmente esistita, ma descrive anche un tratto presente in noi. Così come Amalèk era in aperto conflitto col popolo di Israele, il tratto rappresentato da lui sfida i fondamenti del nostro rapporto con Dio.
Il Midràsh (Tankhumà, parashà Ki Tetzè, sez 9) descrive la natura di questa caratteristica nel suo commento al versetto: “ricordati ciò che…” (Devarìm 25, 17-18). Il Midràsh spiega che la parola ebraica… (che ti venne incontro) può anche essere resa come “ti raffreddò”: Amalèk rappresenta la fredda razionalità che ci fa mettere in discussione tutto ciò che facciamo o sentiamo (cf Sèfer Ha Maamarìm 5679 p. 294).
Oltrepassare l’Intelletto
Per servire Dio pienamente dobbiamo trascendere i nostri limiti intellettuali. Gli ebrei, quindi, prima di ricevere la Torà dichiararono “Naassè Venishmà” – “faremo ed ascolteremo” (Shemòt 24:7). “Faremo si riferisce al desiderio di esaudire la volontà divina, mentre “ascolteremo” sottintende la volontà di capire i comandamenti divini a livello intellettuale. L’affermazione dei nostri padri “faremo” prima di “ascolteremo” indica il loro desiderio di esaudire la volontà divina senza dubbi o esitazioni, capendola o meno. Il nostro impegno verso la Torà deve essere dello stesso tipo: bisogna oltrepassare i limiti della nostra comprensione.
Un impegno di questa portata è sfidato dal nostro Amalèk interno che ripete: “Accetta in ogni caso la Torà, ma aspetta, considera con attenzione quanto puoi studiare, quali mitzvòt puoi adempiere. Non pretendere troppo”.
Da questo contesto si può capire l’equivalenza numerica tra la parola Amalèk e la parola safèk – il vocabolo ebraico “dubbio”: (Sèfer Hamaamarìm 5679, loc. cit) Amalèk fa sorgere i dubbi ed esitazioni che raffreddano l’ardore nel servire l’Onnipotente. Vincere la nostra guerra interiore contro Amalèk, significa mettersi al servizio divino senza riserve, osservando la Torà con diligenza ed entusiasmo non limitati dalla ragione.
Un Errore Storico
Basandoci su questo ragionamento, possiamo capire come l’errore di Shaùl, che permise ad Agàg ed al suo bestiame di vivere, sia collegato al tratto personificato da Amalèk. Shaùl non intendeva trasgredire gli ordini divini. Era un uomo sommamente giusto “Scelto da Dio”. (Samuele 1,10:24). Descrivendo la sua personalità distinta, i Saggi (Yomà 22b) commentano il verso “Shaùl…” (cit. 13:1) come “Shaùl era come un bimbo di un anno, ignorante del peccato”.
L’errore di Shaùl nel trattare Amalèk è da imputarsi all’avere seguito la ragione; ad esempio, risparmia il bestiame per offrirlo in sacrificio a Dio, pensando erroneamente di compiacerle ad Hashèm. Portando il bestiame di Amalèk in sacrificio, Shaùl voleva dimostrare che addirittura gli elementi che sembrano contrari alla volontà divina possono essere usati a fine di bene.
La razionalità, anche se valida, ha contravvenuto in questo caso all’esplicito comandamento dato da Dio al profeta. Così Shemuèl replica a Shaùl: “Obbedire è meglio che offrire grasso di montoni”. (Samuele 1, 15, 22). Dio e la sua volontà sono infiniti e non afferrabili dal nostro limitato intelletto. Avvicinarsi a Dio con la sola ragione lascia spazio all’errore. Anche se non si commette alcuno sbaglio, il nostro servizio è difettoso, perché le limitazioni della nostra comprensione ci impediscono di collegarci alle infinite dimensioni della divinità. L’unico modo di connetterci con questi livelli divini è il liberare il nostro potenziale interiore, ugualmente sconfinato.
Accettare il Giogo Divino
Possiamo ottenere un legame più profondo con Dio solo attraverso la kabalàt ol, l’accettazione pura ed incondizionata della sovranità del giogo divino. La kabalàt ol ci porta al di là dei nostri esseri limitati, facendo emergere la potenzialità infinita della nostra anima divina.
Questa qualità fu rappresentata al meglio da David, successore di Shaùl, che descrive il proprio approccio al divino con questo verso “Ho imposto calma e silenzio alla mia persona” (Tehillìm 131, 2). La Chassidùt fa notare come la parola “calma” di questo salmo abbia la radice in comune con una parola che indica un “oggetto inanimato”. In altre parole, David trascese la propria dimensione naturale così profondamente da essere abbassato ad un oggetto inanimato al servizio di Dio. In altre parole, David era diventato incapace di azioni egoiste.
Correggere il Passato
La qualità della Kabalàt Ol si riflette anche nella narrativa di Purìm. È infatti l’impegno verso la kabalàt Ol che conduce alla sconfitta di Hamàn, discendente di Amalèk. Si allude a questo nella descrizione di “Mordekhai Ha Yehudì” (l’Ebreo) (Estèr 2:5): letteralmente la parola significa “Discendente della tribù di Giuda”, la tribù di David; Mordekhai apparteneva in realtà a quella di Beniamino ed era imparentato a Shaùl. In maniera similare, durante tutta la Meghillà, (Ibid. 3.6; 4:13-14,16; 8:9,11,13,16,17) tutti gli Ebrei sono chiamati Yehudìm, senza distinzioni tribali. In effetti, una delle derivazioni di questa parola ha una radice comune con …che significa “riconoscimento auto- annullante”: servire Dio con la kabalàt Ol.
Mordekhai ed Estèr mostrarono un impegno completo ed incondizionato verso Dio anche nei momenti più difficili, incoraggiando gli altri ebrei a fare penitenza e a rafforzare la loro osservanza della Torà anche sotto la minaccia del decreto di Hamman.
Il loro esempio ha per noi un effetto stimolante. Anche noi viviamo in esilio; il nostro impegno nei confronti della Torà e delle mitzvòt è sfidato da voci di disaccordo esterne e dall’ “Amalèk” interiore che parla dolcemente, insinuando dubbi ed incertezze. Tuttavia, tramite la kabalàt ol possiamo superare questi ostacoli e migliorare il nostro servizio divino. Come al tempo di Purìm, la kabalàt ol portò “luce e gioia, allegria ed onore” (ibid.8:16) al popolo ebraico, così ai nostri giorni porterà al successo ed alla benedizione, migliorando la nostra esistenza terrena.
COME EDUCARE I FIGLI CON SUCCESSO!
Dietro ogni precetto è celato un messaggio di vita. Scaviamo all’interno del precetto di Ben Sorèr Umore e scopriremo uno dei concetti basilari dell’educazione dei figli!
Si tratta di una storia coraggiosa e la sua origine è nel testo fondamentale della Cabalà: lo Zohar.
Essa racconta di un momento in cui Moshè discuteva con Dio su una particolare legge della Torà MOLTO STRANA.
Come è noto, i cinque libri del Pentateuco furono dettati da Dio a Mosè, che li ha trascritti. Ciò spiega gli infiniti livelli di significato contenuti in ogni parola, legge ed episodio della Bibbia, poiché riflettono l’infinita mente del loro “AUTORE”.
Eppure, dice lo Zohar (testo alla base di tutta la mistica ebraica), a un certo punto, Dio dettò una legge a Moshè, ma lui si rifiutò di trascriverla nella Torà.
La legge in apparenza dolorosa è riportata nella porzione di Torà di questa settimana di Ki Tetzè (Deuteronomio 21, 18-21).
«Se un uomo ha un figlio ribelle che non obbedisce alla voce del padre e alla voce di sua madre, e non li ascolta quando lo disciplinano; allora suo padre e la madre lo prenderanno e lo portano ai Saggi e al cancello della sua città e gli diranno: “Questo nostro figlio è ribelle. Non obbedisce alla nostra voce. È un profligato e un ubriaco”.
Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno a morte. Devi eliminare il male da te. Tutto Israele sentirà e temerà».
Lo Zohar ci racconta un importante retroscena. Dice Dio a Moshè: “Scrivi!” E Mosè risponde: “Maestro dell’universo possiamo togliere questo precetto: ci sarà mai un padre che ucciderà suo figlio?!”.
Dio gli risponde: “Capisco la tua opinione, ma devi scrivere e sarai ricompensato. Sai molto, ma so [molto] di più. Moshè non riesce ancora a muoversi, non accetta questa legge apparentemente insensata e orribile.
Solo dopo che Dio mostra a Moshè la più profonda interpretazione mistica di questa legge, in quanto descrive la drammatica storia del popolo ebraico, Moshè accetta. Egli trascrive la legge nel testo biblico solo dopo aver appreso che questa trasmette verità mistiche, piuttosto che letterali. Solo allora Moshè trova il conforto per procedere.
Condizioni Impossibili
È interessante notare che questi sentimenti di Moshè sono echeggiati secoli dopo dai saggi talmudici del secondo secolo dell’era volgare.
La complicatezza e durezza del precetto BEN SORER UMORE ha portato i saggi a concludere che: “Non c’era mai né mai ci sarà un figlio ribelle”. Ci sono così tante condizioni per rientrare nella categoria di un “figlio ribelle” che la sua applicazione pratica diventa impossibile. Cioè questa legge della Torà era una questione di teoria piuttosto che di pratica.
Per citare solo alcuni esempi:
• Entrambi i genitori devono dichiarare che il loro figlio come “BEN SORER UMORE “ e ricevere la pena di morte.
• L’età del ragazzo deve essere all’interno dei tre mesi dal suo Bar Mitzvà (13 anni) per ricevere questa sanzione, non un giorno più giovane o più vecchio (più giovane sarebbe un minore, più vecchio, non sarebbe più un bambino).
• Deve aver rubato i soldi dai suoi genitori, averli usati per comprare una quantità enorme di carne e vino ITALIANO, notoriamente di eccelsa qualità (e non francese), mangiare e bere tutto in una sola volta e in un posto diverso dalla casa dei suoi genitori…
E tutto ciò non è ancora abbastanza! Per applicare questa legge, afferma il Talmud, nella Torà orale (sempre citando i versi biblici come prova), occorre che entrambi i genitori debbano avere voci identiche, un aspetto simile e avere la stessa altezza.
Dal momento che è praticamente impossibile avere tutte queste condizioni (a meno che il padre e la madre fossero due fratelli gemelli, cosa che vieterebbe loro di sposarsi in ogni caso), di fatto questa particolare legge non potrà mai essere applicata nel mondo reale.
Perché allora ci è stata data? I Saggi rispondono: “Per esporre la legge e ricevere ricompensa”. Quello che sembra suggerire il Talmud è che spiegare in profondità questa legge sarà gratificante per i genitori e arricchirà le abilità genitoriali e didattiche.
Infatti, quando ci concentriamo su questi versetti, possiamo dedurre un’ampia guida psicologica, emotiva e pratica sugli obiettivi e sui metodi di un’educazione sana. Concentriamoci solo su uno di questi aspetti.
Quante Voci In Casa Tua?
Come di consueto nello studio biblico, una discrepanza nel testo mina i significati più profondi. Anche questo testo contiene una tale discrepanza. “Se un uomo ha un figlio ribelle che non obbedisce alla voce di suo padre e alla voce di sua madre”, è come il caso è introdotto nella Bibbia. I suoi genitori sono descritti come aventi due voci distinte: “la voce di suo PADRE e la voce di sua MADRE”. Ma più tardi, quando i genitori portano il loro figlio in tribunale per accusare il figlio, incontriamo una leggera, ma significativa, varianza: “Diranno agli anziani: questo nostro figlio è ribelle. Non obbedisce alla nostra voce”.
Non più “la voce di suo padre e la voce di sua madre”. Ora è diventato “la nostra voce”. Le loro voci distinte si sono unite in UNA. Qual è il significato di questo sottile cambiamento testuale, ogni lettera nella Torà è una miniera di insegnamenti? Il messaggio è fondamentale per l’istruzione dicono i commentatori.
La frase “Se un uomo ha un figlio ribelle che non obbedisce alla voce del padre e alla voce di sua madre”, suggerisce una possibile ragione per cui questo figlio diventa ostinato e ribelle. Nella sua casa non c’era una voce, ma due voci DISTINTE. La voce del padre non era la voce della madre. Ognuno di loro camminava in modo proprio. I genitori non sono mai riusciti a fondere le proprie “voci” per creare una visione unificata e integrata per se stessi e in particolare per i loro figli. Ognuno dei genitori stava “tirando la casa” in una direzione diversa, e i poveri bambini erano rimasti bloccati nel mezzo, lacerati dalla discordia di persone che amano profondamente.
E se questo fosse veramente il caso, questo bambino non è affatto ribelle e testardo. È una vittima del rifiuto ostinato dei suoi genitori di lavorare sulle loro emozioni e trovare la pace nella loro casa frammentata, di fondere le loro visioni in una nuova UNICA percezione. Il bambino non ha bisogno di subire le conseguenze per il disagio dei suoi genitori che non riescono a superare il proprio ego e costruire un ambiente di rispetto e di armonia reciproca, pur sapendo delle gravi conseguenze che si riflettono sulla casa che stanno costruendo insieme.
Potrebbero forse avere delle buone ragioni per le loro lotte, ma il bambino non può essere accusato delle conseguenze delle loro guerre che l’hanno portato ad avere testardaggine e ribellione. Che altro ci si aspetta da lui? Naturalmente, anche se non si cresce in una casa armoniosa, si è responsabili delle proprie azioni. Un essere umano può superare il suo passato. Tuttavia non si può chiamare questo bambino “testardo e ribelle”.
È risaputo che nell’educazione l’opinione di ogni coniuge deve essere un valore assoluto davanti ai figli e non deve mai essere messo in dubbio neanche dell’1% dall’altro coniuge: perché, un simile comportamento, andrebbe a lacerare le fondamenta sulla quale è cresciuto il bimbo. Se non si è d’accordo su una decisione presa dall’altro coniuge si discute in privato, davanti ai figli deve essere una DECISIONE INCONDIZIONATA.
Se dobbiamo punire questo figlio, dobbiamo essere sicuri che la sua predisposizione sia in realtà corrotta dall’interno. Così, nel descrivere la natura corrotta la Torà afferma: “Diranno agli anziani: questo nostro figlio è ribelle. Non obbedisce alla nostra voce”. Per determinare se questo figlio ha intrapreso un percorso disastroso, dobbiamo assicurarci che i genitori parlavano con UNA SOLA VOCE, che la casa era piena di serenità e dignità umana. Se due voci governavano, allora la casa era piena di divisione e di risentimento, la colpa doveva essere posta sui genitori, non sul bambino.
Poiché la sua distorsione è dovuta alla discordia del genitore, in questo caso il ragazzo può trovare un percorso di guarigione ed è esente di essere punito.
Rispetto Reciproco
Questo può essere il significato più profondo dietro la dichiarazione del Talmud che, per applicare questa legge, i genitori devono avere voci identiche, un’altezza simile e una somiglianza tra loro: solo se le voci della vita di questo figlio sono state integrate dai genitori che hanno condiviso un sistema di valori identici nella vita; solo quando questo bambino osservava un padre e una madre le cui altezze spirituali erano simili.
Solo un bambino che vedeva entrambi i genitori proiettati in una visione simile, SOLO in questo caso possiamo forse concludere che questo figlio, che ha dimostrato inclinazioni terribili e distruttive, si sta trasformando in un mostro. E solo allora il suo futuro può essere spacciato da meritare un verdetto così grave.
Poiché queste condizioni sono praticamente impossibili, visto che nessun genitore può essere perfetto, il Talmud sta suggerendo che non abbiamo mai il diritto di proclamare alcun bambino come “ostinato e ribelle”, anche se osserviamo in lui modelli distruttivi. Il bambino può rispondere, consapevolmente o inconsciamente, allo stress e alle turbolenze delle vite dei genitori.
I genitori non sono, né devono essere, perfetti. Tuttavia, finché si impegneranno a trasformare le voci distinte in una sola voce, rispettando veramente con altruismo la dolce metà per creare insieme un ambiente amoroso nelle proprie case, solo così riusciranno a crescere dei bambini che abbracceranno amorevolmente la morale ed i valori della vita e di pace che vivono in famiglia.
IL FRUTTO NON CADE LONTANO DALL’ALBERO!
Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor
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La parashà include anche le norme che disciplinano la purezza di un accampamento militare; il divieto di riconsegnare uno schiavo fuggitivo; il dovere di pagare un lavoratore puntualmente e di consentire a chiunque lavori per te – uomo o animale – di mangiare sul lavoro; il trattamento corretto di un debitore e il divieto di ricaricare interessi su un prestito; le norme riguardanti il divorzio (dalle quali derivano anche molte delle leggi sul matrimonio): a questo proposito si veda l’interessante approfondimento nella lezione on-line. La pena per la trasgressione di un divieto della Torà; e le procedure riguardanti yibbùm (matrimonio per levirato), di una vedova senza figli con il fratello del defunto; o khalitzà (rimozione della scarpa), nel caso in cui il cognato non voglia sposarla.
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