VAERA’ 5785: 9 LEZIONI

Questo Shabbàt 25 Gennaio 2025,  25 Tevet 5785 – leggeremo la Parashà di Vaerà  Es. 6, 2-9, 35

Si legge l’Haftarà:

Italiani Ez. 28, 24-29, 21
Sefarditi: Ez. 28, 25-29, 21

La Parashà di Vaerà è composta da 121 versetti.

La Parashà di Vaerà non contiene alcun precetto.

Riporto un banale racconto ma in realtà un insegnamento di vita eterno.
Un viaggiatore viene fermato da un rapinatore di strada che gli chiede la borsa dei soldi, sotto la minaccia di una pistola.
Allora il viaggiatore inizia a supplicare il rapinatore: “Non sparare! Ti darò volentieri i miei soldi, ma prima ti prego fammi un favore: se torno a casa a mani vuote, mia moglie non crederà mai che sono stato derubato e mi accuserà di aver sperperato i nostri soldi in gioco d’azzardo o liquori. Per favore, spara diversi proiettili attraverso il mio cappello, così che possa dimostrarle che sono stato rapinato”. Il rapinatore non vedendo alcun motivo per non esaudire il suo desiderio, prende la borsa dei soldi e spara al cappello dell’uomo diverse volte.
“Grazie mille”, disse il viaggiatore. “Ma non conosci mia moglie. Così dirà che ho bucato il cappello e che questi non erano affatto fori di proiettile. Ecco, prendi il mio cappotto e sparaci dentro diversi proiettili a distanza ravvicinata, lasciando i segni della polvere da sparo. Questo la convincerà di sicuro”. Di nuovo il rapinatore obbedì e sparò attraverso il cappotto diverse volte. Quando il viaggiatore vide che l’ultimo colpo non esplose, comprese che la pistola era scarica, quindi si lanciò prontamente sul rapinatore, buttandolo a terra, recuperò la sua borsa dei soldi e fuggì.

Questa storia, raccontata dal rabbino Nakhmàn di Breslev (1772-1810, pronipote del Baal Shem Tov), trasmette il tragico schema della vita di molte persone. Ognuno di noi ha un ladro, o un’inclinazione negativa, che persiste dentro di noi. Il ladro desidera continuamente derubarci della nostra bontà interiore e innocenza. Eppure molti di noi scoprono la volontà e il potere di combattere il nostro ladro solo dopo che “ha sparato tutti i suoi proiettili contro di noi”. Solo dopo aver permesso alle nostre malsane dipendenze e ai nostri impulsi di sparare tutti i loro proiettili e di consumare completamente le nostre vite, quando ci rendiamo conto che sono vuote e svuotate, solo allora ci rendiamo conto di aver sperperato la nostra vita e ci svegliamo dal sogno dell’illusione e iniziamo a sottomettere il ladro e intraprendere il percorso della guarigione anche se in ritardo.

PENSIERO E AZIONE

Le Dieci Piaghe
Le dieci famose piaghe che sono registrate nel libro di Shemòt sono lette durante le porzioni della Torà di Vaerà e Bo (7, 14 – 12 ,36). Esse non devono essere viste semplicemente come una serie di eventi soprannaturali che hanno distrutto l’impero egiziano circa 3.330 anni fa. La Torà è un modello per la vita, un manuale per lo sviluppo della razza umana, non è semplicemente una registrazione di racconti antichi. Gli episodi annotati nella Torà rappresentano racconti spirituali senza tempo che si verificano continuamente nel cuore di ogni uomo. Come possiamo allora applicare il remoto racconto delle dieci piaghe alla nostra vita personale?

Anatomia dell’Anima
La Cabalà insegna (Tanya capitoli 3 e 6) che ogni anima umana è composta da dieci elementi, dieci facoltà e dieci attributi, che costituiscono l’interiorità dell’anima di un essere umano. I primi tre formano l’identità inconscia dell’anima e i suoi poteri cognitivi; gli ultimi sette costituiscono l’aspetto emotivo dell’anima.
Queste dieci caratteristiche e forze dell’anima, note anche come le “dieci Sefiròt”, corrispondono ai dieci livelli che compongono ogni mondo spirituale (non a caso è scritto che siamo creati a immagine divina), chiamate anche dieci luci o dieci punti di energia. Esse sono raffigurate nella seguente tabella e riportate secondo l’ordine delle Sefiròt dall’alto al basso che è l’ordine cronologico partendo dall’ultima alla prima.
Le piaghe rettificano l’Egitto dal livello più basso di malkhùt che è l’ordine cronologico corrisponde all’ordine dal basso all’alto: la prima piaga, sangue, che è malkhùt…

NOME SEFIRÀ    ATTRIBUTO    PIAGA
Kèter    Super-cosciente    Morte del primogenito
Khokhmà    Sapienza – Ingegno    Oscurità
Binà    Intelligenza    Locuste
Khèssed    Amore    Grandine
Ghevurà    Rifiuto – Rigore – Giudizio    Ulcere
Tifèret    Compassione – Misericordia    Pestilenza
Nètzakh    Ambizione    Bestie feroci
Hod    Sottomissione    Pidocchi
Yessòd    Legame    Rane
Malkhùt    Fiducia    Sangue

A ognuno di noi è stata data una scelta nella vita. Possiamo raffinare e riparare questi dieci attributi in modo che esprimano la nostra luce divina interiore, oppure possiamo pervertire e corrompere questi stessi attributi, usandoli in modi malsani e immorali.
L’antico Egitto, con il suo programma demoniaco di eliminazione sistematica di un intero popolo, gli Ebrei, dalla faccia della terra, scelse di intraprendere quest’ultima strada. La nazione egiziana pervertì tutti i dieci attributi della “sua anima”. L’energia negativa generata dalla perversione di così tanti spiriti umani tornò in Egitto sotto forma di dieci piaghe che devastarono il paese.
Nelle nostre vite personali, l’Egitto riflette a livello mentale uno stato di disfunzione psicologica, in cui uno o più attributi dell’anima diventano distorti e disfunzionali, ostacolando la capacità di ogni essere umano di raggiungere la piena realizzazione di sé. Ciò è indicato anche nel nome ebraico per “Egitto” – Mitzràyim, che può essere tradotto come “inibizioni” o “vincoli”. Quando non riusciamo a confrontarci con i nostri demoni, i nostri attributi perversi possono ritornare a noi, sotto forma di piaghe psicologiche. Le Dieci Piaghe corrispondono alle Dieci Sefiròt con un preciso ordine dal basso verso l’alto, vedi tabella.

1 Sangue — Fiducia Distruttiva
La prima piaga, in cui il fiume Nilo si trasformò in sangue, fu un simbolo fisico della fiducia distruttiva che divenne il segno distintivo dell’Egitto, sia geografico che psicologico. Invece di una fiducia costruttiva che implementa il proprio carattere spirituale e promuove la sensibilità verso gli altri, la “fiducia egiziana” genera dominio e sfruttamento. Quando la percezione della propria fiducia diventa veramente corrotta, può portare a generare “fiumi di sangue”, come effettivamente fecero gli egiziani.
Il fiume Nilo simbolizzava la fonte della fiducia e della sicurezza egiziane. Poiché in Egitto piove poco, l’agricoltura e il sostentamento del paese dipendono completamente dal Nilo. Pertanto gli antichi egizi divinizzarono il Nilo. Le acque del Nilo che si trasformavano in sangue riflettevano lo stato perverso di una nazione che trasforma la propria fiducia in sangue, usando la propria posizione di forza e la sicurezza di sé per potere massacrare innumerevoli esseri umani innocenti.

2 Rane — Fredda Intimità
La seconda piaga, in cui sciami di rane inondarono l’Egitto, simboleggia l’intimità fredda e spassionata che caratterizza un uomo che vive nel suo “Egitto (costrizione e limitazione) psicologico”. Tanto che il Midràsh racconta come le rane che inondarono l’Egitto raffreddarono tutti i forni ardenti non permettendo a nessun egizio di cuocere nessun alimento in essi.
Le rane sono creature anfibie a sangue freddo che si sviluppano in climi freddi. Le rane femmine di solito depositano le loro uova nell’acqua dove si schiudono i girini. Le rane che vivono sulla terraferma depositano le loro uova in buche fredde e umide. A causa di ciò, e del fatto che le uova depositate in questo modo non ricevono alcuna protezione parentale, nella Cabala, le rane riflettono uno stato emotivo di apatia, distacco e freddezza (Likuté Sikhòt volume 1 e anche nella seguente lezione https://youtu.be/GhTE9e5TtvI).
Questa condizione priva un essere umano della capacità di provare una genuina intimità emotiva con qualsiasi altra persona: un coniuge, un figlio o persino un amico. La personalità della “rana” è la persona che, quando gli viene chiesto “qual è la differenza tra ignoranza e apatia?”, risponde: “Non lo so e non mi interessa”.

3 Pidocchi — Sottomissione Malsana
La terza piaga, in cui la polvere d’Egitto si trasformò in pidocchi, riflette i sintomi di una sottomissione malsana.
L’attributo dell’umiltà che corrisponde alla sefirà di HOD, come tutti gli attributi dell’anima, può essere produttivo o distruttivo. Rimanere per sempre uno studente umile di fronte alle lezioni che la vita ci impartisce è uno dei tratti caratteriali più nobili che un individuo possa possedere. La capacità di abbandonare il proprio ego di fronte a una verità superiore è il fondamento di ogni crescita fisica e spirituale, così come la capacità di confessare un errore o un’azione sbagliata. “Possa la mia anima essere come polvere” (Bereshìt 18, 27), è una preghiera ebraica quotidiana che esprime il nostro desiderio di rimanere umili davanti ai misteri della vita. Questa è un’umiltà e sottomissione sana.
La sottomissione “egiziana” distruttiva, invece, è un’umiltà che schiaccia lo spirito e ne smorza la gioia di vivere. In questo tipo di sottomissione, in cui ci si considera una creatura senza valore e che non conta, la percezione di sé come polvere inutile si trasforma in pidocchi che demoralizzano e degradano la vita. Come i pidocchi, questo tipo di umiltà succhia il sangue di una persona, privandola della sua vitalità e del flusso di energia.
Il santo rabbino Aaron di Karlin esprime questo concetto con queste parole: “La depressione non è un peccato; eppure il male che fa la depressione, nessun peccato può farlo”.

4 Bestie Feroci — Ambizione Selvaggia
La quarta piaga, in cui una marea di bestie feroci attaccò l’Egitto, è il simbolo fisico di un’ambizione malsana.
L’ambizione è uno dei più grandi doni della vita. È il motore che spinge l’uomo a raggiungere la grandezza e a fare la differenza nel mondo. Tuttavia, se non affiniamo questo tratto caratteriale, le nostre ambizioni possono trasformarci in “bestie feroci” che schiacciano e distruggono le persone che percepiamo come ostacoli al raggiungimento dei nostri obiettivi.

5 Pestilenza — Compassione Astuta
La quinta piaga, in cui una pestilenza annientò il bestiame degli egiziani, rappresenta l’incarnazione fisica dell’attributo della “compassione astuta” che, come un’epidemia, danneggia le persone in modo silenzioso e discreto.
Cos’è la compassione? La Cabalà afferma (Likuté Sikhòt Vol. 12) che la compassione è più potente e duratura dell’amore. L’amore di solito trascura i difetti della persona amata; quindi, quando emergono tali difetti, essi possono indebolire l’amore, se non distruggerlo del tutto. La compassione, d’altra parte, prende in considerazione tutti i difetti dell’individuo e porge un cuore e una mano d’aiuto indipendentemente da essi.
Questa è compassione morale, la capacità di un’anima di provare il dolore e i bisogni del suo prossimo. La compassione “egiziana”, invece, è “astuta, subdola e ingannevole”, dove la qualità seducente della compassione è usata per sfruttare le debolezze delle persone per scopi egoistici e obiettivi distruttivi. Quando si usa la compassione in questo modo ben congegnato, essa infligge danni a una persona in maniera silenziosa e mortale come succede in un’epidemia.

6 Ulcera — Rifiuto Brutale
La sesta piaga, durante la quale le braci di una fornace ardente furono scagliate sulla terra, provocando delle ulcere sulla pelle della popolazione egiziana, è il simbolo fisico del crudele rifiuto. Nella Cabalà, il fuoco incarna la capacità dell’anima di rifiutare e respingere qualcuno (Tanya capitolo 50). Proprio come il fuoco, un atto o una parola di rifiuto possono bruciare o persino demolire colui che viene rifiutato. Un’ulteriore connessione tra fuoco e rifiuto risiede nel fatto che il fuoco si solleva verso l’alto, allontanandosi dalla terra. Anche il rifiuto costituisce un atteggiamento in direzione all’interno del proprio mondo, allontanando se stessi dalle persone e dagli eventi circostanti.
Eppure un’anima sana deve sapere quando rifiutare, così come deve sapere quando abbracciare. Spesso si è chiamati a rifiutare un impulso distruttivo, a troncare una relazione malsana, a dire “no” a un bambino viziato o a un’offerta commerciale non etica. Questo è fuoco sano. È un fuoco che distrugge il negativo per costruire il positivo.
Tuttavia, quando la nostra capacità interiore di rifiuto si trasforma in amarezza, odio e crudeltà, le “braci della nostra anima” diventano una forza distruttiva e di rifiuto della realtà del mondo, come l’ulcera, che infetta le nostre vite e le vite delle persone che ci circondano.

7 Grandine — Amore Congelato
La settima piaga, in cui la grandine distruttiva scese sull’Egitto, è il simbolo dell’amore egoistico.
Se il fuoco simboleggia il rifiuto, l’acqua che discende per natura da un piano superiore a uno inferiore rappresenta le qualità della generosità e della gentilezza amorevole. Nella Cabalà (Tanya capitolo 4), il flusso dell’amore è paragonato a un flusso dell’acqua, che irriga e nutre un’anima umana con la sua rinfrescante vivacità.
Eppure, un uomo che si ritrova nella schiavitù “egiziana” conosce solo un amore gelido, un amore che si basa interamente su motivazioni egoistiche e considerazioni egocentriche. Il flusso d’amore di una tale persona diventa freddo e congelato come la grandine, danneggiando i suoi cari invece di nutrirli. Questo spiega il significato mistico dietro il fatto che la grandine caduta in Egitto aveva fiamme ardenti al suo interno (Shemòt 9, 24). L’individuo freddo e gelido è anche in fiamme, ossia è infiammato dall’amor proprio e arde di passioni egoistiche. In effetti, è il suo eccesso di calore interiore che è la causa del suo gelido esterno. Quindi, la grandine caduta in Egitto, gelida all’esterno e infuocata all’interno, rifletteva la natura dell’amore “egiziano”: freddezza mostrata verso le altre persone, unita al calore mostrato verso se stessi.

Dal Cuore Alla Mente
Non è un caso che le prime sette piaghe siano registrate in una sezione della Bibbia, mentre le ultime tre piaghe siano registrate in un’altra: le prime sette nella Parashà Vaerà; le ultime tre nella Parashà Bo.
Le prime sette piaghe: sangue, rane, pidocchi, bestie feroci, pestilenza, ulcera e grandine, riflettono la perversione egizia delle sette emozioni, rispettivamente: fiducia, legame, sottomissione, ambizione, compassione, rifiuto e amore.
Le ultime tre piaghe, locuste, oscurità e morte dei primogeniti, rappresentano, invece, la più grave corruzione delle facoltà intellettuali e della dimensione super cosciente dell’anima egizia. Quando le emozioni e gli istinti di una persona sono compromessi, la mente sana e obiettiva offre speranza di guarigione. Tuttavia, quando la mente di una persona inizia a giocare “brutti scherzi”, il percorso verso la guarigione diventa dolorosamente impegnativo.

8 Locuste — Intelligenza Perversa
L’ottava piaga, in cui le locuste invasive non lasciarono alcuna vegetazione sul loro cammino, è il simbolo delle conseguenze distruttive di una mente corrotta.
La capacità di indagine e scrutinio intellettuale rimane il dono più prezioso della razza umana. Ci consente di esplorare l’universo, migliorare le nostre vite e scoprire la più alta vocazione morale della famiglia umana. Eppure lo stesso potere può servire come strumento per razionalizzare ogni male praticato e per giustificare ogni stile di vita o abitudine distruttiva. Come la locusta che ha consumato tutte le piante esistenti in Egitto, lasciando dietro di sé un terreno sterile, la mente corrotta può sradicare ogni struttura morale esistente e ogni sacro fondamento stabilito, lasciando dietro di sé una società desolata, priva di valori spirituali e principi assoluti. Questa è la tragedia dell’intellettualismo simile a quello egiziano, dove si diventa così aperti di mente che il “cervello scivola via”. E come dice il Re Davide: “Il fondamento della sapienza è il timore di Dio” (Salmo 111, 10).

Oscurità — Una Mente Bloccata
La nona piaga, in cui una fitta oscurità avvolse tutto l’Egitto, riflette l’incapacità dell’anima “egiziana” di realizzare la sua facoltà di concepire.
Il potere di concezione è la forza della mente umana di concepire un’idea nuova e originale che quella persona non riusciva a comprendere. Come è possibile questo cambiamento? Quando la mente realizza acutamente i suoi limiti e confini, mettendo da parte il suo ego intellettuale e aprendosi a una luce superiore, la verità precedentemente inaccessibile può emergere e illuminare il vuoto appena creato (Tanya capitoli 3, 18 e 35).
Quando una persona è arrogante e presuntuosa, priva la propria mente della capacità di sperimentare l’illuminazione, rimando così vincolato nell’oscurità e costretto per sempre a una visione ristretta della vita.

Morte del Primogenito — Morte dell’Identità
La decima e ultima piaga, la morte di ogni primogenito egiziano, fu la più devastante di tutte. Essa riflette il fatto che l’abuso egiziano dell’anima non solo influenzò le sue facoltà coscienti, ma continuò a distorcere e distruggere anche le sue forze super-coscienti.
Nella Cabalà (Zohar Volume 2), il primogenito è il simbolo dei primi istinti e motivazioni primordiali di un’anima che giacciono sotto la superficie dell’Io cosciente. Quella dimensione della personalità è naturalmente più difficile da violare, perché è nascosta e inaccessibile. Ma uno stile di vita di dipendenza e abusi continui porterà alla fine alla “morte del primogenito”, o alla morte dell’elemento super cosciente della propria anima.
Questo fu il “proiettile finale” che pose fine al circolo vizioso della dipendenza e dell’abuso egizio. Il popolo ebraico fu liberato ed era sulla buona strada per ricevere i Dieci Comandamenti.
Perché proprio i Dieci Comandamenti dopo l’uscita dall’Egitto? Poiché corrispondono esattamente alle dieci piaghe (lo dicono tanti maestri: Seder Hayom; Gheulàt Olam; Hagadà del Chida; Sefat Emet e Shem Meshmuel Parashàt Vaerà). Proprio come le piaghe riflettono la perversione delle dieci facoltà dell’anima, i Dieci Comandamenti rappresentano il percorso di guarigione spirituale in ciascuna di queste dieci facoltà, consentendo a tutte e dieci di esprimere l’armonia e lo splendore dell’essenza divina di una persona.

Questo saggio si basa sugli scritti della Cabalà e del Chassidismo di diversi maestri e su una riflessione di Y. Y. Jacobson

PENSIERO E AZIONE

Alcuni anni fa gli scienziati della NASA avevano costruito una specie di piccolo cannone per lanciare dei polli morti ad alta velocità contro i parabrezza degli aerei di linea. Lo scopo era quello di simulare i frequenti scontri con i volatili, per testare la resistenza dei parabrezza degli aerei. Alcuni ingegneri britannici, avendo sentito parlare di questa “arma”, erano desiderosi di provarla sul parabrezza dei nuovi treni ad alta velocità. Quindi il cannone venne spedito ai tecnici britannici.
Quando l’arma fu attivata la prima volta, gli ingegneri rimasero impietriti: il pollo sparato dal cannoncino si schiantò contro il loro parabrezza infrangibile e lo fracassò, rimbalzò contro la console dei comandi, spezzò in due lo schienale della poltroncina di un ingegnere e si andò a incastrare nella parete posteriore della baracca, come un proiettile. I tecnici Britannici, sconvolti, trasmisero alla NASA i risultati disastrosi dell’esperimento e i progetti del loro parabrezza, supplicando gli scienziati Americani affinché dessero loro dei suggerimenti. La NASA rispose con un appunto della lunghezza di una riga: “Scongelate i polli” (ma io gli avrei risposto: “SIETE PROPRIO DEI POLLI…”).

Una Redenzione Dubbiosa
La precedente parashà dell’Esodo, Shemòt, descrive come il faraone – dopo che Mosè andò a parlare con lui chiedendogli di lasciare andare il popolo ebraico – inasprì per ritorsione la schiavitù. Quindi Mosè si rivolge a Hashèm in termini oltremodo inusuali dicendo: “Mio Signore: perché hai fatto del male a questo popolo? Perché mi hai dunque mandato?”. Un Mosè perplesso che in sostanza metteva in dubbio la provvidenza divina. Lui non comprendeva come fosse possibile che i preparativi per la redenzione dalla schiavitù egizia potessero causare un ulteriore aggravamento dei maltrattamenti del popolo ebraico. Dopotutto, la redenzione è un processo del tutto buono e giusto, come del resto si evince dalla stessa Torà: quando alla nascita di Mosè, il redentore, è scritto: “E vide che era buono…” (Shemòt 2, 2); per non parlare del fatto che colui che ordinò la missione della redenzione fu Dio stesso (Shemòt 3, 10). Quindi come poteva essere “non buono” il processo della redenzione? Può forse Hashèm sbagliarsi?

Una Risposta Per Molte Domande
A questa domanda “vitale”, Dio risponde a Mosè come è scritto, all’inizio della parashà di questa settimana, Vaerà: “Dio disse a Mosè. Io sono Hashèm. Mi rivelai a Abramo, Isacco e Giacobbe come Dio Onnipotente, ma con il mio nome, Hashèm, non mi resi noto a loro. Ho inoltre stretto il mio patto con loro…” (Shemòt 6, 2-4).

Questa narrazione solleva diverse domande: 
a) Perché in realtà il profeta di tutti i profeti mise in dubbio gli ordini divini? Mosè era a un livello spirituale superiore rispetto ai Patriarchi. Pertanto se i Patriarchi non facevano domande a Dio, perché Mosè – che era appunto a un superiore livello nel poter comprendere gli ordini di Hashèm – invece sì?
b) Oltretutto, perché nella risposta di Hashèm – che ha messo in evidenza la virtù posseduta dai Patriarchi, di avere una fede senza dubbi – usa il nome Giacobbe e non il nome Israèl, per riferirsi a questo patriarca? Come è noto, infatti il nome Israèl riflette un livello spirituale superiore rispetto al nome Giacobbe.
c) Inoltre se la Torà generalmente si astiene dal fare dichiarazioni sfavorevoli, addirittura anche per quanto riguarda gli animali, perché questa regola non è stata rispettata per Mosè, che è la guida e il redentore scelto da Hashèm per tutto il popolo ebraico? Quindi perché in questa porzione si adombra la possibilità che Mosè è in qualche modo poco attento o addirittura che non comprende gli ordini di Dio, mettendo in dubbio la bontà della redenzione e della sua missione?
Poiché la narrazione getta su Mosè una luce poco favorevole, si potrebbe ritenere che la Torà ci stia dando una importante lezione, ossia che ognuno dovrebbe emulare la fede indiscussa mostrata dai Patriarchi. Ma è poi così vero? Possibile che la Torà declassi in questo modo le qualità e l’esempio di vita di Mosè?

La Personificazione Delle Qualità Spirituali
È comunque, molto difficile capire come sia possibile – in particolare in questo periodo buio dell’esilio, immediatamente antecedente alla definitiva e vera redenzione messianica – avere le doti per scegliere il percorso dei Patriarchi e non il percorso di Mosè.
Anche se, come dicono i nostri Saggi [Bereshìt Rabbà 56, 7]: “In ogni generazione ci sono individui che assomigliano ad Abramo, Isacco, Giacobbe e Mosè”, questo insegnamento vale solo per pochi eletti! La Torà, al contrario, è stata data a tutti per servire come guida e ispirazione non solo per una élite spirituale, ma per ogni uomo e donna. Quindi, come possiamo aspettarci che una persona normale non segua il percorso “umile” di Mosè, per perseguire esclusivamente l’esempio mostrato dai nostri Patriarchi?
Per comprendere occorre vedere più da vicino le qualità spirituali di Mosè e dei Patriarchi:
a)    Mosè è associato all’’INTELLETTO, ossia al livello spirituale elevatissimo noto come Khokhmà, “la saggezza divina”. Per questo motivo, Mosè fu il mezzo attraverso il quale la Torà, che è la saggezza di Dio, fu data al mondo.
b)    Invece il servizio divino dei Patriarchi, rispetto a quello di Mosè, è associato alla sfera degli attributi emotivi. E ognuno di loro è “caratterizzato” da uno specifico livello delle sfere emozionali: il servizio divino di Abramo è incentrato sulla gentilezza, sull’AMORE – Khèssed, verso Dio e verso il prossimo; il servizio di Isacco, al contrario, è caratterizzato dalla FORZA -Ghevurà e dal “TIMORE” a tal punto che non poter tollerare neanche la minima traccia di male nel suo ambiente. Mentre il servizio di Giacobbe è caratterizzato dalla “BELLEZZA” – Tifèret, la quale si identifica con la qualità della misericordia: l’attributo che combina amore e forza. Riflettendo questa fusione, Giacobbe univa in sé gli attributi di Abramo e Isacco.

Intelletti ed Emozioni Diverse
L’identificazione dei Patriarchi con le qualità emotive, sopra menzionate, ovviamente non significa insinuare che non fossero coinvolti nello studio della Torà. Al contrario, tutti i Patriarchi eccellevano anche nel campo dell’intelletto.
Allo stesso modo Mosè, sebbene associato all’intelletto, mostrò un intenso e significativo impegno emotivo per il servizio divino e per il prossimo. Ad esempio, quando in Esodo (2, 11) è descritta l’afflizione che Mosè provò verso la terribile schiavitù a cui erano sottoposti i suoi fratelli, mostrò un grande coinvolgimento emotivo e empatia verso il prossimo (Amore – Khèssed e Misericordia – Tifèret). Allo stesso modo, quando uccise l’egiziano che torturava un suo fratello, manifestò un grande senso della giustizia (Rigore, Ghevurà).
Tuttavia, sebbene sia i nostri Patriarchi, sia Mosè manifestassero l’intera gamma di attributi intellettuali ed emotivi umani, ognuno aveva un aspetto da cui riceveva una spinta fondamentale. La forza principale di Mosè era Khokhmà, la Saggezza, il livello intellettuale.
Diversamente, la spinta fondamentale dei nostri Patriarchi era di natura emotiva. In definitiva, ciascuno dei Patriarchi ha portato in dote a ognuno di noi l’attributo emotivo a cui erano più legati nel proprio servizio Divino.

Ognuno ha una missione 
L’associazione dei nostri Patriarchi con le emozioni e Mosè con la qualità intellettiva ci permette di capire perché Mosè – che era su un piano più alto di quello dei Patriarchi – chiese: “Mio Signore: perché hai fatto del male a questo popolo?”. A differenza dei Patriarchi che seguirono le direttive divine con fede indiscussa, senza dubbi.
Per spiegare meglio, Mosè era a un livello spirituale superiore rispetto ai Patriarchi, poiché la sua missione implicava un uso elevatissimo e sublime della ragione e dell’intelletto: questa facoltà presuppone una naturale ricerca della comprensione di tutto ciò con cui viene in contatto. Quando un “intellettuale” incontra qualcosa che sembra sfidare la spiegazione della sua mente, del suo pensiero, ha difficoltà a continuare la sua missione. Pertanto, i dubbi e le domande di Mosè non riflettevano una mancanza di fede, ma era il modo con cui Mosè poteva affrontare le problematiche in base al suo livello spirituale e diffondere la saggezza di Dio nel mondo.
In risposta alla domanda di Mosè, la Torà riferisce: “Dio (Elokìm) disse a Mosè. E Dio parlò a Mosè, e gli disse: Io sono Hashèm. Come Dio onnipotente (El Shaddày) Mi rivelai ad Abramo, Isacco e Giacobbe, ma con il mio vero nome Hashèm (Havayà) non mi resi noto a loro…”.
Prima della consegna della Torà, il nome di Dio Elokìm era stato rivelato nel mondo, ma non il suo nome Havayà – Hashèm. Solo con il dono della Torà fu rivelato il nome di Hashèm, come è scritto: “Io sono Hashèm” e, in senso lato, con l’annuncio della redenzione dall’Egitto da parte di Mosè, che portò alla consegna della Torà.

L’importanza Del Nome
A questo punto ci si potrebbe chiedere. E allora! Elokìm o Hashèm sempre di Dio si tratta? No! Cosa cambia? Invece qui si introduce una differenza fondamentale per il rapporto tra noi, l’intera creazione e Dio.
Il nome Elokìm si riferisce alla luce divina che crea la natura, come si deduce dall’equivalenza numerica, ghematria (le lettere ebraiche sono anche numeri: c’è una relazione intima tra parole o frasi con lo stesso valore numerico) tra le lettere ebraiche che formano la parola Elokìm, Dio, e quelle che compongono la parola hatèva – natura. La somma del valore numerico delle lettere in entrambe le parole equivale a 86.
Quindi, il Nome Elokìm, come la natura, pone dei limiti a ogni entità, e pertanto distingue tra i vari aspetti della creazione: buono, cattivo; bello, brutto; notte, giorno, poco, tanto etc… Questo Nome di Dio, in qualche modo permette l’esistenza della molteplicità e delle differenze in questo mondo materiale. In definitiva questo Nome è in effetti la fonte della natura multiforme della nostra esistenza materiale.
Il nome Havayà – Hashèm, al contrario, riflette un livello di esistenza che trascende ogni limitazione, ogni divisione spazio-tempo e materiale. I fondamenti della nostra esistenza possono essere completamente annullati e trascesi quando si viene illuminati con questo Nome, come è accaduto a Mosè e al popolo ebraico, quando il Nome Hashèm si è rivelato. La “luce” di questo Nome fu rivelata per la prima volta durante il dono della Torà a tutto il mondo. A quel tempo, Hashèm annullò il decreto che separava i regni spirituali superiori da questo mondo umile e materiale. Applicando questo concetto riguardo al mondo interiore dell’anima umana, l’annullamento di questo decreto rende possibile unire intelletto ed emozione.

Unire Testa e Cuore
Questo è il significato interiore della risposta di Dio a Mosè. Gli disse che in quel momento, nel periodo prima della Redenzione e del dono della Torà, anche una persona la cui missione si concentra sulla saggezza e sulla ragione può e dovrebbe temperare la sua “mente” con le qualità emozionali e naturali e continuare con fede indiscussa. In sostanza, Hashèm dice a Mosè che deve “fondere”, unire l’intelletto con le emozioni, la parte più alta e quella più bassa del corpo umano!
Questo spiega anche perché Dio si riferisca al patriarca Giacobbe non con l’altro suo nome: Israèl. Ossia, qui Dio stava chiedendo a Mosè, la personificazione della saggezza, di temperare il suo approccio intellettuale con le qualità del lato emozionale. Ma, per dare questo importante messaggio cosa c’entra utilizzare il nome Giacobbe al posto di Israèl? Proviamo a capire meglio: per poter raggiungere un approccio emotivo pur essendo una persona intellettuale bisogna avere il Kabalàt Ol, letteralmente la “sottomissione” ad Hashèm, dei nostri istinti e emozioni “animali” attraverso l’accettazione del Suo giogo. Questo è una via del servizio divino associato al nome di “Giacobbe – יעקב”. Nome che in ebraico può formare (senza la lettera yud) la parola “ekev – עקב – tallone”, ossia la parte più bassa e a contatto con la terra dell’essere umano. Al contrario il nome “Israèl – ישראל” è associato con un livello spirituale superiore, “la testa”. Come la testa è la parte più alta e superiore del corpo umano, così lo è il livello spirituale rappresentato dal nome Israèl. Infatti, questo nome può essere scomposto fino a formare la parola ebraica “לי ראש” “Ho una testa”.
A livello individuale, questa fusione di livelli più alti e più bassi si esprime quando la “testa saggia” accetta incondizionatamente le modalità del servizio divino associato ai piedi o talloni, ossia la sottomissione alla volontà di Hashèm.

Azione Vs Astrazione
L’emozione ha un altro vantaggio fondamentale rispetto all’intelletto. Questo aspetto può essere rappresentato dai due principali organi dell’uomo: il cervello e il cuore. Entrambi, ovviamente, influenzano tutti gli organi del corpo. Vi è, tuttavia, un’enorme differenza nel modo in cui funzionano. Il cuore distribuisce l’energia vitale, attraverso la circolazione, in tutti gli organi e normalmente non c’è nulla che impedisca a questa energia vitale di diffondersi.
Tuttavia, questo principio non vale per il cervello! Anche se il cervello è il più importante degli organi che controllano il corpo, la sua influenza sugli altri organi è più trattenuta. L’influenza che la testa trasmette al corpo è limitata dal cuore, perché senza di esso nessun organo potrebbe funzionare e avere la vitalità necessaria per svolgere le sue funzioni.
Questo parallelismo lo possiamo riscontrare riguardo ai poteri dell’intelletto e delle emozioni. L’emozione porta all’azione, ad esempio, l’amore motiva a “fare del bene”, mentre la paura spinge ad “allontanarsi dal male”, e così via. L’intelletto, al contrario, ispira una persona a diventare una cosa sola con la materia che studia. Pertanto, sebbene una persona comprenda il modo in cui dovrebbe comportarsi, l’intelletto da solo non lo spinge verso un’azione reale. Al contrario, la tendenza dell’intelletto è verso l’astrazione. In effetti, il piacere che deriva dalla connessione della mente con un concetto può effettivamente impedire a una persona di applicare il concetto stesso. Per citare un esempio, quando fu chiesto al grande Studioso e Saggio del Talmud Ben Azzai, perché non si fosse sposato, egli rispose: “Cosa devo fare? La mia anima brama la Torà”. Sebbene fosse consapevole dell’importanza che la Torà attribuisce al matrimonio e alla vita familiare, il piacere che provava nello studio della Torà gli impedì di fondare una famiglia.
Non a caso i Saggi del Talmud, avvertendo il rischio di questa tendenza dell’intelletto umano, insegnarono: “Chiunque dice: Per me, non c’è nulla al di fuori della Torà, vuol dire che non possiede neppure quella!”. Poiché l’intelletto ha una tendenza naturale verso l’astrazione, è possibile che una persona che studia la Torà possa accontentarsi solo di questo sforzo. Pertanto è necessario che i nostri Saggi sottolineino l’importanza delle concrete azioni di gentilezza e altruismo. Gli studiosi della Torà devono lavorare contro la loro natura e impegnarsi in azioni concrete.
Ciò era implicito quando Dio disse a Mosè, la personificazione della saggezza, è quella di indossare anche il “mantello” dell’emozione.

Perché Il Titolo “Patriarchi”?
La tendenza dell’emozione a condurre all’azione ci consente di capire perché ad Abramo, Isacco e Giacobbe è stato assegnato il titolo di “Patriarchi”, come hanno commentato i nostri Saggi del Talmud: “Ci sono solo tre che si chiamano Patriarchi. Perché i Patriarchi sono per definizione quegli individui che generano una posterità”.
Sì e allora? Verrebbe da rispondere. È ovvio! Un patriarca è per definizione una persona da cui discendono figli e nipoti, pronipoti ecc. E quindi perché solo loro tre, e a cosa realmente si riferisce questo passo del Talmud?
In nostro soccorso ci viene in aiuto il più grande commentatore della Torà mai esistito Rabbi Shlomo Yitzhaki, universalmente noto con l’acronimo di Rashì. Lui ci spiega che le qualità preminente di Abramo, Isacco e Giacobbe è che sono Patriarchi, ma nel senso che la loro virtù fondamentale – quella che veramente gli fa meritare il titolo di “Patriarchi” – è che erano e sono i progenitori di una tradizione fatta di principi e valori fondamentali, ancora oggi, per l’ebraismo e per tutta l’umanità.
L’enfasi quindi andrebbe posta non sulle qualità emozionali uniche del singolo patriarca (Abramo – amore, Isacco – rigore e timore di Dio e Giacobbe – bellezza, clemenza) ma sulla loro capacità di generare una posterità spirituale, riconosciuta universalmente fino a oggi.

E Mosè Allora? No!
La richiesta di Dio a Mosè di mitigare la sua missione di saggezza e ragione con emozioni naturali ha due dimensioni: a) che non dovrebbe porre domande, ma invece procedere con Kabalàt Ol, come spiegato sopra; e b) che la sua saggezza dovrebbe estendersi verso il basso, attraverso la sfera emozionale, al prossimo. E fu proprio quello che accadde! Dopo il dono della Torà, Mosè si occupò di questioni terrene molto più di quanto i Patriarchi avessero mai fatto.
I Patriarchi, infatti – nonostante le loro eccelse qualità emozionali uniche e alla loro capacità di influenzare e di essere da esempio per le generazioni future – non solo non poterono legare l’intelletto con le emozioni come fece Mosè, ma rimasero comunque dei pastori, vivendo parte della loro esistenza lontani dalle questioni materiali. Mosè, al contrario, una volta appreso l’insegnamento di Hashèm di collegare il suo incredibile livello intellettuale della Saggezza con il basso delle emozioni raggiunge, anche nel campo dell’azione e della sua posterità spirituale, livelli elevatissimi: non solo diffuse la Sapienza della Torà in tutto il mondo, traducendola in 70 lingue e ovviamente educando ai suoi valori e principi tutto il popolo ebraico, ma Mosè fece di più, molto di più! Amò il popolo ebraico, prendendosi cura di loro come “una balia con il lattante” (Bemidbàr 11, 12): lo difese, consigliò e istruì ai precetti della Torà dalla schiavitù egizia, fino all’entrata nella Terra d’Israèl. Dimostrando più volte come la sua grande sapienza fosse oramai collegata alle più elevate emozioni dei patriarchi come l’Amore, Timore e Misericordia. Senza nessun tipo o tentazione intellettuale fine a se stessa, Mosè “buttò nella mischia” tutta la saggezza che Hashèm gli aveva donato per questo, ancora oggi, nella preghiera chiamata “I Tredici Principi di Fede” è scritto e si ricorda come “La profezia di Mosè nostro MAESTRO… è verità”.

Oggi, ai nostri giorni, cerchiamo di seguire l’esempio di Mosè usiamo il nostro intelletto nel mondo per agire con amore, timore e misericordia, verso Dio e il prossimo, in modo da rivelare la presenza divina e agevolare così la redenzione, con l’arrivo di Mashiàkh, presto ai nostri giorni, Amen.

Abbiamo tutti il fiato sospeso per la situazione in Israele, cerchiamo di imparare da chi vive in primis una tragedia di perdere un figlio in guerra.

UN GRANDE POPOLO PER UN GRANDE ABBRACCIO

Da una lettera di Ruthie Greenlink:
«Shalom Sivan, sono Ruti, la madre di Shauli Greenlick caduto a Gaza 14 giorni fa. Voglio dire alcune cose importanti, soprattutto in questa difficile giornata. Siamo venuti a trascorrere alcuni giorni con i nostri figli nella zona della Arava, per provare ad allentare un attimo la tensione. Mio marito e i miei due ragazzi devono dire il Kaddish per Shauli, ma qui non c’è una sinagoga.
Allora mia figlia Michal ha pubblicato un post nel gruppo Facebook della zona e la gente del luogo si è mobilitata per noi: non ha smesso di preoccuparsi fino a che non sono riusciti a organizzare un minyàn per noi tre volte al giorno. Vengono persone da Hazeva, da Ein Yahav e da tutta la zona circostante, è davvero emozionante. Mio marito introduce la preghiera raccontando ogni volta qualcosa di suo figlio e sentiamo la vicinanza di tutti che, non solo vengono a pregare con noi, ci portano anche del cibo e si offrono di supportarci con quello che hanno, prodotti biologici, visite della zona e quant’altro. Questo è il popolo di Israele che ti emoziona!

Se mi guardo indietro, durante i 7 giorni della “shiva” (periodo dei sette giorni di lutto), proprio le persone che non conoscevano Shauli hanno saputo farci davvero sentire la loro vicinanza. Gente di Be’er Sheva e del Golàn, di Londra e di Herzliya, sono tutti venuti solo per dirci “grazie”, per abbracciarci, per sentirsi parte del nostro comune destino. Non ascolto più le notizie e non leggo più i giornali affinché il “calore di questo abbraccio” non svanisca. So per certo che questo abbraccio è forte e unisce tutto il popolo e nessuno può farmi pensare diversamente. Quindi grazie al popolo d’Israele e se questi sono i miei fratelli, io sarò forte per loro e grazie a loro.
Mi faccio forte anche del commento che ci hai inviato alcuni giorni fa riguardo a Yossèf Hazadik: anche se i suoi fratelli lo hanno venduto, anche se è finito in prigione in Egitto, lui ha fatto una scelta: riformulare gli eventi. Non si è comportato da vittima ma ha guardato la realtà con un “occhio buono”, ha creduto nella giusta causa del suo destino e ha agito per riscattarsi. Nella vita bisogna imparare a non cadere nella trappola del vittimismo e scegliere di vedere solo il positivo anche nei momenti più difficili della vita.
Come scrissi tempo fa alla famiglia che anche noi possiamo scegliere, anche noi possiamo sognare nelle più difficili situazioni, proprio come Giuseppe (Yossèf)».

Besorot Tovot da Ruti, madre di Shauli

PS. Shauli aveva partecipato di recente al programma televisivo che seleziona il cantante da mandare all’euro-festival vedi foto sotto.

Tratto dal Messaggio quotidiano di Sivan Rahav Meir

PENSIERO E AZIONE

Alcuni anni fa gli scienziati della NASA avevano costruito una specie di piccolo cannone per lanciare dei polli morti ad alta velocità contro i parabrezza degli aerei di linea. Lo scopo era quello di simulare i frequenti scontri con i volatili, per testare la resistenza dei parabrezza degli aerei. Alcuni ingegneri britannici, avendo sentito parlare di questa “arma”, erano desiderosi di provarla sul parabrezza dei nuovi treni ad alta velocità. Quindi il cannone venne spedito ai tecnici britannici.
Quando l’arma fu attivata la prima volta, gli ingegneri rimasero impietriti: il pollo sparato dal cannoncino si schiantò contro il loro parabrezza infrangibile e lo fracassò, rimbalzò contro la console dei comandi, spezzò in due lo schienale della poltroncina di un ingegnere e si andò a incastrare nella parete posteriore della baracca, come un proiettile. I tecnici Britannici, sconvolti, trasmisero alla NASA i risultati disastrosi dell’esperimento e i progetti del loro parabrezza, supplicando gli scienziati Americani affinché dessero loro dei suggerimenti. La NASA rispose con un appunto della lunghezza di una riga: “Scongelate i polli” (ma io gli avrei risposto: “SIETE PROPRIO DEI POLLI…”).

Una Redenzione Dubbiosa
La precedente parashà dell’Esodo, Shemòt, descrive come il faraone – dopo che Mosè andò a parlare con lui chiedendogli di lasciare andare il popolo ebraico – inasprì per ritorsione la schiavitù. Quindi Mosè si rivolge a Hashèm in termini oltremodo inusuali dicendo: “Mio Signore: perché hai fatto del male a questo popolo? Perché mi hai dunque mandato?”. Un Mosè perplesso che in sostanza metteva in dubbio la provvidenza divina. Lui non comprendeva come fosse possibile che i preparativi per la redenzione dalla schiavitù egizia potessero causare un ulteriore aggravamento dei maltrattamenti del popolo ebraico. Dopotutto, la redenzione è un processo del tutto buono e giusto, come del resto si evince dalla stessa Torà: quando alla nascita di Mosè, il redentore, è scritto: “E vide che era buono…” (Shemòt 2, 2); per non parlare del fatto che colui che ordinò la missione della redenzione fu Dio stesso (Shemòt 3, 10). Quindi come poteva essere “non buono” il processo della redenzione? Può forse Hashèm sbagliarsi?

Una Risposta Per Molte Domande
A questa domanda “vitale”, Dio risponde a Mosè come è scritto, all’inizio della parashà di questa settimana, Vaerà: “Dio disse a Mosè. Io sono Hashèm. Mi rivelai a Abramo, Isacco e Giacobbe come Dio Onnipotente, ma con il mio nome, Hashèm, non mi resi noto a loro. Ho inoltre stretto il mio patto con loro…” (Shemòt 6, 2-4).

Questa narrazione solleva diverse domande: 
a) Perché in realtà il profeta di tutti i profeti mise in dubbio gli ordini divini? Mosè era a un livello spirituale superiore rispetto ai Patriarchi. Pertanto se i Patriarchi non facevano domande a Dio, perché Mosè – che era appunto a un superiore livello nel poter comprendere gli ordini di Hashèm – invece sì?
b) Oltretutto, perché nella risposta di Hashèm – che ha messo in evidenza la virtù posseduta dai Patriarchi, di avere una fede senza dubbi – usa il nome Giacobbe e non il nome Israèl, per riferirsi a questo patriarca? Come è noto, infatti il nome Israèl riflette un livello spirituale superiore rispetto al nome Giacobbe.
c) Inoltre se la Torà generalmente si astiene dal fare dichiarazioni sfavorevoli, addirittura anche per quanto riguarda gli animali, perché questa regola non è stata rispettata per Mosè, che è la guida e il redentore scelto da Hashèm per tutto il popolo ebraico? Quindi perché in questa porzione si adombra la possibilità che Mosè è in qualche modo poco attento o addirittura che non comprende gli ordini di Dio, mettendo in dubbio la bontà della redenzione e della sua missione?
Poiché la narrazione getta su Mosè una luce poco favorevole, si potrebbe ritenere che la Torà ci stia dando una importante lezione, ossia che ognuno dovrebbe emulare la fede indiscussa mostrata dai Patriarchi. Ma è poi così vero? Possibile che la Torà declassi in questo modo le qualità e l’esempio di vita di Mosè?

La Personificazione Delle Qualità Spirituali
È comunque, molto difficile capire come sia possibile – in particolare in questo periodo buio dell’esilio, immediatamente antecedente alla definitiva e vera redenzione messianica – avere le doti per scegliere il percorso dei Patriarchi e non il percorso di Mosè.
Anche se, come dicono i nostri Saggi [Bereshìt Rabbà 56, 7]: “In ogni generazione ci sono individui che assomigliano ad Abramo, Isacco, Giacobbe e Mosè”, questo insegnamento vale solo per pochi eletti! La Torà, al contrario, è stata data a tutti per servire come guida e ispirazione non solo per una élite spirituale, ma per ogni uomo e donna. Quindi, come possiamo aspettarci che una persona normale non segua il percorso “umile” di Mosè, per perseguire esclusivamente l’esempio mostrato dai nostri Patriarchi?
Per comprendere occorre vedere più da vicino le qualità spirituali di Mosè e dei Patriarchi:
a)    Mosè è associato all’’INTELLETTO, ossia al livello spirituale elevatissimo noto come Khokhmà, “la saggezza divina”. Per questo motivo, Mosè fu il mezzo attraverso il quale la Torà, che è la saggezza di Dio, fu data al mondo.
b)    Invece il servizio divino dei Patriarchi, rispetto a quello di Mosè, è associato alla sfera degli attributi emotivi. E ognuno di loro è “caratterizzato” da uno specifico livello delle sfere emozionali: il servizio divino di Abramo è incentrato sulla gentilezza, sull’AMORE – Khèssed, verso Dio e verso il prossimo; il servizio di Isacco, al contrario, è caratterizzato dalla FORZA -Ghevurà e dal “TIMORE” a tal punto che non poter tollerare neanche la minima traccia di male nel suo ambiente. Mentre il servizio di Giacobbe è caratterizzato dalla “BELLEZZA” – Tifèret, la quale si identifica con la qualità della misericordia: l’attributo che combina amore e forza. Riflettendo questa fusione, Giacobbe univa in sé gli attributi di Abramo e Isacco.

Intelletti ed Emozioni Diverse
L’identificazione dei Patriarchi con le qualità emotive, sopra menzionate, ovviamente non significa insinuare che non fossero coinvolti nello studio della Torà. Al contrario, tutti i Patriarchi eccellevano anche nel campo dell’intelletto.
Allo stesso modo Mosè, sebbene associato all’intelletto, mostrò un intenso e significativo impegno emotivo per il servizio divino e per il prossimo. Ad esempio, quando in Esodo (2, 11) è descritta l’afflizione che Mosè provò verso la terribile schiavitù a cui erano sottoposti i suoi fratelli, mostrò un grande coinvolgimento emotivo e empatia verso il prossimo (Amore – Khèssed e Misericordia – Tifèret). Allo stesso modo, quando uccise l’egiziano che torturava un suo fratello, manifestò un grande senso della giustizia (Rigore, Ghevurà).
Tuttavia, sebbene sia i nostri Patriarchi, sia Mosè manifestassero l’intera gamma di attributi intellettuali ed emotivi umani, ognuno aveva un aspetto da cui riceveva una spinta fondamentale. La forza principale di Mosè era Khokhmà, la Saggezza, il livello intellettuale.
Diversamente, la spinta fondamentale dei nostri Patriarchi era di natura emotiva. In definitiva, ciascuno dei Patriarchi ha portato in dote a ognuno di noi l’attributo emotivo a cui erano più legati nel proprio servizio Divino.

Ognuno ha una missione 
L’associazione dei nostri Patriarchi con le emozioni e Mosè con la qualità intellettiva ci permette di capire perché Mosè – che era su un piano più alto di quello dei Patriarchi – chiese: “Mio Signore: perché hai fatto del male a questo popolo?”. A differenza dei Patriarchi che seguirono le direttive divine con fede indiscussa, senza dubbi.
Per spiegare meglio, Mosè era a un livello spirituale superiore rispetto ai Patriarchi, poiché la sua missione implicava un uso elevatissimo e sublime della ragione e dell’intelletto: questa facoltà presuppone una naturale ricerca della comprensione di tutto ciò con cui viene in contatto. Quando un “intellettuale” incontra qualcosa che sembra sfidare la spiegazione della sua mente, del suo pensiero, ha difficoltà a continuare la sua missione. Pertanto, i dubbi e le domande di Mosè non riflettevano una mancanza di fede, ma era il modo con cui Mosè poteva affrontare le problematiche in base al suo livello spirituale e diffondere la saggezza di Dio nel mondo.
In risposta alla domanda di Mosè, la Torà riferisce: “Dio (Elokìm) disse a Mosè. E Dio parlò a Mosè, e gli disse: Io sono Hashèm. Come Dio onnipotente (El Shaddày) Mi rivelai ad Abramo, Isacco e Giacobbe, ma con il mio vero nome Hashèm (Havayà) non mi resi noto a loro…”.
Prima della consegna della Torà, il nome di Dio Elokìm era stato rivelato nel mondo, ma non il suo nome Havayà – Hashèm. Solo con il dono della Torà fu rivelato il nome di Hashèm, come è scritto: “Io sono Hashèm” e, in senso lato, con l’annuncio della redenzione dall’Egitto da parte di Mosè, che portò alla consegna della Torà.

L’importanza Del Nome
A questo punto ci si potrebbe chiedere. E allora! Elokìm o Hashèm sempre di Dio si tratta? No! Cosa cambia? Invece qui si introduce una differenza fondamentale per il rapporto tra noi, l’intera creazione e Dio.
Il nome Elokìm si riferisce alla luce divina che crea la natura, come si deduce dall’equivalenza numerica, ghematria (le lettere ebraiche sono anche numeri: c’è una relazione intima tra parole o frasi con lo stesso valore numerico) tra le lettere ebraiche che formano la parola Elokìm, Dio, e quelle che compongono la parola hatèva – natura. La somma del valore numerico delle lettere in entrambe le parole equivale a 86.
Quindi, il Nome Elokìm, come la natura, pone dei limiti a ogni entità, e pertanto distingue tra i vari aspetti della creazione: buono, cattivo; bello, brutto; notte, giorno, poco, tanto etc… Questo Nome di Dio, in qualche modo permette l’esistenza della molteplicità e delle differenze in questo mondo materiale. In definitiva questo Nome è in effetti la fonte della natura multiforme della nostra esistenza materiale.
Il nome Havayà – Hashèm, al contrario, riflette un livello di esistenza che trascende ogni limitazione, ogni divisione spazio-tempo e materiale. I fondamenti della nostra esistenza possono essere completamente annullati e trascesi quando si viene illuminati con questo Nome, come è accaduto a Mosè e al popolo ebraico, quando il Nome Hashèm si è rivelato. La “luce” di questo Nome fu rivelata per la prima volta durante il dono della Torà a tutto il mondo. A quel tempo, Hashèm annullò il decreto che separava i regni spirituali superiori da questo mondo umile e materiale. Applicando questo concetto riguardo al mondo interiore dell’anima umana, l’annullamento di questo decreto rende possibile unire intelletto ed emozione.

Unire Testa e Cuore
Questo è il significato interiore della risposta di Dio a Mosè. Gli disse che in quel momento, nel periodo prima della Redenzione e del dono della Torà, anche una persona la cui missione si concentra sulla saggezza e sulla ragione può e dovrebbe temperare la sua “mente” con le qualità emozionali e naturali e continuare con fede indiscussa. In sostanza, Hashèm dice a Mosè che deve “fondere”, unire l’intelletto con le emozioni, la parte più alta e quella più bassa del corpo umano!
Questo spiega anche perché Dio si riferisca al patriarca Giacobbe non con l’altro suo nome: Israèl. Ossia, qui Dio stava chiedendo a Mosè, la personificazione della saggezza, di temperare il suo approccio intellettuale con le qualità del lato emozionale. Ma, per dare questo importante messaggio cosa c’entra utilizzare il nome Giacobbe al posto di Israèl? Proviamo a capire meglio: per poter raggiungere un approccio emotivo pur essendo una persona intellettuale bisogna avere il Kabalàt Ol, letteralmente la “sottomissione” ad Hashèm, dei nostri istinti e emozioni “animali” attraverso l’accettazione del Suo giogo. Questo è una via del servizio divino associato al nome di “Giacobbe – יעקב”. Nome che in ebraico può formare (senza la lettera yud) la parola “ekev – עקב – tallone”, ossia la parte più bassa e a contatto con la terra dell’essere umano. Al contrario il nome “Israèl – ישראל” è associato con un livello spirituale superiore, “la testa”. Come la testa è la parte più alta e superiore del corpo umano, così lo è il livello spirituale rappresentato dal nome Israèl. Infatti, questo nome può essere scomposto fino a formare la parola ebraica “לי ראש” “Ho una testa”.
A livello individuale, questa fusione di livelli più alti e più bassi si esprime quando la “testa saggia” accetta incondizionatamente le modalità del servizio divino associato ai piedi o talloni, ossia la sottomissione alla volontà di Hashèm.

Azione Vs Astrazione
L’emozione ha un altro vantaggio fondamentale rispetto all’intelletto. Questo aspetto può essere rappresentato dai due principali organi dell’uomo: il cervello e il cuore. Entrambi, ovviamente, influenzano tutti gli organi del corpo. Vi è, tuttavia, un’enorme differenza nel modo in cui funzionano. Il cuore distribuisce l’energia vitale, attraverso la circolazione, in tutti gli organi e normalmente non c’è nulla che impedisca a questa energia vitale di diffondersi.
Tuttavia, questo principio non vale per il cervello! Anche se il cervello è il più importante degli organi che controllano il corpo, la sua influenza sugli altri organi è più trattenuta. L’influenza che la testa trasmette al corpo è limitata dal cuore, perché senza di esso nessun organo potrebbe funzionare e avere la vitalità necessaria per svolgere le sue funzioni.
Questo parallelismo lo possiamo riscontrare riguardo ai poteri dell’intelletto e delle emozioni. L’emozione porta all’azione, ad esempio, l’amore motiva a “fare del bene”, mentre la paura spinge ad “allontanarsi dal male”, e così via. L’intelletto, al contrario, ispira una persona a diventare una cosa sola con la materia che studia. Pertanto, sebbene una persona comprenda il modo in cui dovrebbe comportarsi, l’intelletto da solo non lo spinge verso un’azione reale. Al contrario, la tendenza dell’intelletto è verso l’astrazione. In effetti, il piacere che deriva dalla connessione della mente con un concetto può effettivamente impedire a una persona di applicare il concetto stesso. Per citare un esempio, quando fu chiesto al grande Studioso e Saggio del Talmud Ben Azzai, perché non si fosse sposato, egli rispose: “Cosa devo fare? La mia anima brama la Torà”. Sebbene fosse consapevole dell’importanza che la Torà attribuisce al matrimonio e alla vita familiare, il piacere che provava nello studio della Torà gli impedì di fondare una famiglia.
Non a caso i Saggi del Talmud, avvertendo il rischio di questa tendenza dell’intelletto umano, insegnarono: “Chiunque dice: Per me, non c’è nulla al di fuori della Torà, vuol dire che non possiede neppure quella!”. Poiché l’intelletto ha una tendenza naturale verso l’astrazione, è possibile che una persona che studia la Torà possa accontentarsi solo di questo sforzo. Pertanto è necessario che i nostri Saggi sottolineino l’importanza delle concrete azioni di gentilezza e altruismo. Gli studiosi della Torà devono lavorare contro la loro natura e impegnarsi in azioni concrete.
Ciò era implicito quando Dio disse a Mosè, la personificazione della saggezza, è quella di indossare anche il “mantello” dell’emozione.

Perché Il Titolo “Patriarchi”?
La tendenza dell’emozione a condurre all’azione ci consente di capire perché ad Abramo, Isacco e Giacobbe è stato assegnato il titolo di “Patriarchi”, come hanno commentato i nostri Saggi del Talmud: “Ci sono solo tre che si chiamano Patriarchi. Perché i Patriarchi sono per definizione quegli individui che generano una posterità”.
Sì e allora? Verrebbe da rispondere. È ovvio! Un patriarca è per definizione una persona da cui discendono figli e nipoti, pronipoti ecc. E quindi perché solo loro tre, e a cosa realmente si riferisce questo passo del Talmud?
In nostro soccorso ci viene in aiuto il più grande commentatore della Torà mai esistito Rabbi Shlomo Yitzhaki, universalmente noto con l’acronimo di Rashì. Lui ci spiega che le qualità preminente di Abramo, Isacco e Giacobbe è che sono Patriarchi, ma nel senso che la loro virtù fondamentale – quella che veramente gli fa meritare il titolo di “Patriarchi” – è che erano e sono i progenitori di una tradizione fatta di principi e valori fondamentali, ancora oggi, per l’ebraismo e per tutta l’umanità.
L’enfasi quindi andrebbe posta non sulle qualità emozionali uniche del singolo patriarca (Abramo – amore, Isacco – rigore e timore di Dio e Giacobbe – bellezza, clemenza) ma sulla loro capacità di generare una posterità spirituale, riconosciuta universalmente fino a oggi.

E Mosè Allora? No!
La richiesta di Dio a Mosè di mitigare la sua missione di saggezza e ragione con emozioni naturali ha due dimensioni: a) che non dovrebbe porre domande, ma invece procedere con Kabalàt Ol, come spiegato sopra; e b) che la sua saggezza dovrebbe estendersi verso il basso, attraverso la sfera emozionale, al prossimo. E fu proprio quello che accadde! Dopo il dono della Torà, Mosè si occupò di questioni terrene molto più di quanto i Patriarchi avessero mai fatto.
I Patriarchi, infatti – nonostante le loro eccelse qualità emozionali uniche e alla loro capacità di influenzare e di essere da esempio per le generazioni future – non solo non poterono legare l’intelletto con le emozioni come fece Mosè, ma rimasero comunque dei pastori, vivendo parte della loro esistenza lontani dalle questioni materiali. Mosè, al contrario, una volta appreso linsegnamento di Hashèm di collegare il suo incredibile livello intellettuale della Saggezza con il basso delle emozioni raggiunge, anche nel campo dell’azione e della sua posterità spirituale, livelli elevatissimi: non solo diffuse la Sapienza della Torà in tutto il mondo, traducendola in 70 lingue e ovviamente educando ai suoi valori e principi tutto il popolo ebraico, ma Mosè fece di più, molto di più! Amò il popolo ebraico, prendendosi cura di loro come “una balia con il lattante” (Bemidbàr 11, 12): lo difese, consigliò e istruì ai precetti della Torà dalla schiavitù egizia, fino all’entrata nella Terra d’Israèl. Dimostrando più volte come la sua grande sapienza fosse oramai collegata alle più elevate emozioni dei patriarchi come l’Amore, Timore e Misericordia. Senza nessun tipo o tentazione intellettuale fine a se stessa, Mosè “buttò nella mischia” tutta la saggezza che Hashèm gli aveva donato per questo, ancora oggi, nella preghiera chiamata “I Tredici Principi di Fede” è scritto e si ricorda come “La profezia di Mosè nostro MAESTRO… è verità”.

Oggi, ai nostri giorni, cerchiamo di seguire l’esempio di Mosè usiamo il nostro intelletto nel mondo per agire con amore, timore e misericordia, verso Dio e il prossimo, in modo da rivelare la presenza divina e agevolare così la redenzione, con l’arrivo di Mashiàkh, presto ai nostri giorni, Amen.

La Parashà di Vaerà tratta in sintesi i seguenti argomenti:

HaShèm rassicura Moshè, chiedendogli di comunicare al popolo ebraico la promessa di una redenzione prodigiosa. Il popolo ebraico, tuttavia, non presta ascolto alle parole di Moshè perchè troppo provato da fatica e sofferernza.
La Torà fà una breve digressione genealogica, precisando le origini di Moshè e di Aharòn i redentori.
Moshè e Aharon si recano da Par’ò; Aharon getta a terra il proprio bastone che si trasforma in serpente. I maghi di corte lo imitano, tuttavia il bastone di Aharon inghiotte i bastoni degli egizi.
Moshè avverte Par’ò dell’imminenza della prima delle dodici piaghe.
In questa Parashà sono riportate le prime sette piaghe che colpiscono gravemente l’Egitto, senza tuttavia piegare l’ostinazione di Par’ò, che si rifiuta di liberare il popolo ebraico. Le sette piaghe sono: sangue, rane, pidocchi, mescolanza di belve feroci, peste, ulcere e grandine.

EVITARE I PIDOCCHI MESCOLATI
Anche alla vigilia di questo Shabbàt vi proponiamo due brani del libro “Saggezza Quotidiana” che
spiegano, secondo la sapienza del Rebbe e dei suoi predecessori, la parashà di questa settimana
(Esodo/Vaerà). I brani scelti per voi oggi hanno come oggetto principale due delle prime sette piaghe
che colpirono gli egizi: pidocchi e animali selvatici.
Come inizio non è male … vero? Difficile immaginare due piaghe così simili e al contempo diverse.
La prima riguarda esseri minuscoli, per quanto a dir poco fastidiosi, ma non pericolosi, mentre la
seconda piaga è scatenata da Hashèm utilizzando creature molto grandi e estremamente pericolose.
Si potrebbe dire che occorre una buona dose di fantasia per concepire simili storie.
Invece, queste due piaghe, come le altre, possono essere viste da diversi aspetti. Il consueto acume
chassidico ci offre una interpretazione molto pratica e utile per la nostra vita e soprattutto per il nostro
percorso spirituale in questo mondo.
Iniziamo dai Pidocchi
Per comprendere questa piaga occorre fare una breve premessa. Hashèm ha creato noi e questo mondo
per uno specifico obbiettivo: le nostre anime, attraverso i nostri corpi, dovrebbero elevare le cose
materiali al fine di rivelare la Sua presenza. A tale scopo Hashèm “rivitalizza”, in qualche modo, tutto
l’esistente in ogni momento attraverso il suo En Sof, Luce infinita (anche se in maniera ristretta e
occultata).
Utilizzando la materia per fini divini come, ad esempio, per fare atti di gentilezza e bontà verso il
prossimo, oppure rispettando i precetti positivi per gli ebrei o quelli noachidi per il resto del mondo,
noi riusciamo a svolgere questo lavoro. Attraverso il “fare del bene” con azioni che coniugano in tutto
e in parte i nostri pensieri, parole e azioni al fine di miglioraci e al contempo migliorare questo mondo.
Oppure riusciamo a svolgere questo compito in maniera analoga attraverso il “non fare”, ossia
astenendoci dal compiere atti negativi, pensare in maniera sbagliata e parlare in modo non appropriato.
Analogamente, come Hashèm ci ha dato la missione di rettificare il mondo, svelando il divino che è
celato in esso, attraverso “fare” e “non fare”, Hashèm ci ha dato anche la capacità di scegliere,
attraverso il “libero arbitrio” di fare esattamente l’opposto del bene. In altre parole, Hashèm ci ha
donato il potere di “nascondere” ulteriormente la Sua presenza in questo mondo utilizzando la materia
nel modo più facile e naturale per l’uomo: quando lasciamo che la nostra consapevolezza divina venga
immersa in misfatti o nell’apatia verso la santità. Tale processo inverso ci lascerà vulnerabili alle
lusinghe del materialismo.
Come Può Esistere il Libero Arbitrio?
Tuttavia, il discorso fatto sopra si regge solo se proviamo a capire come sia possibile che un essere
limitato come l’uomo possa aver ottenuto il “permesso” da Hashèm di essere disobbediente alla Sua
volontà. Come è possibile per l’essere umano sentirsi libero di fare il bene o il male? Visto che
Hashèm non solo ricrea tutto l’esistente in ogni istante, ma è l’esistenza stessa, ossia che, al di fuori
di Lui, non è neanche concepibile “un’esistenza”.
Questo è in parte spiegabile con quello che abbiamo accennato sopra circa la Luce Infinita che
pervade, forma e crea tutto l’esistente. Hashèm ha voluto che l’essere umano potesse avere
“l’illusione” di poter scegliere. Hashèm ha scelto di “nascondersi” nel mondo in maniera tale che noi
potessimo avere l’illusione di sentirci “esistenti”. Se avessimo fin dalla nascita la consapevolezza
chiara, evidente e tangibile che l’unica esistenza vera e reale è Hashèm non solo non potremmo mai
discostarci dalla Sua volontà, ma non potremmo neanche esistere, poiché verremmo annullati di
fronte a Lui. Un’analogia può aiutarci a comprendere meglio. Poniamo l’esempio di una candela
posta di fronte al sole, come potrebbe emettere luce, ovvero come potrebbe, la fioca luce di una
candela, essere o considerarsi separata dalla immensa luce del sole? E questa è appunto solo una
analogia, poiché di fronte alla Luce infinita di Hashèm il grande e immenso sole è assolutamente
nulla.
Ritornando ai Pidocchi
Eppure, nonostante il desiderio di Hashèm di renderci “autonomi”, attraverso il libero arbitrio, noi
abbiamo il compito di riconoscerlo in ogni azione che compiamo. Anche se crediamo di essere
esistenti e facciamo una immane fatica a essere consapevoli della Sua esistenza, dobbiamo sforzarci
di riconoscerlo in ogni nostro atto. Questo è uno dei motivi per cui la pratica ebraica è piena di
benedizione, per ogni cosa: tuoni, fulmini, mangiare, dormire, tefillìn ecc.
In “soldoni” dobbiamo addomesticare il nostro ego, originato dalla nostra “apparente esistenza” e
ritornare ad annullarci a Lui, alla Sua volontà. Ovviamente, immersi come siamo in questo mondo
materiale, Hashèm non pretende che ci possiamo annullare completamente, come se fossimo degli
angeli, ma ci chiede di sforzarci di scegliere il bene nonostante tutto e tutti.
Tuttavia, nonostante i nostri limiti occorre evitare il rischio di, proprio come i “pidocchi”, diventare
dei “parassiti”, ossia persone che beneficiano della vitalità che Hashèm ci ha donato dalla nascita e
ci dona ogni istante non per servirlo ma, al contrario, per “ostacolare” lo scopo stesso della creazione.
Invece di diventare “donatori di luce”, diventiamo dei “vetri scuri” che ostacolano la luce, che
prendono e non danno.
Questo accade quando, soprattutto dinnanzi ai nostri successi, alle cose importanti, non riconoscendo
che alla fine tutto viene da Hashèm, nutriamo il nostro ego e alimentiamo la nostra falsa percezione
di essere delle esistenze autonome, proprio come faceva il faraone e il popolo egizio.
Separare con Attenzione
L’altra piaga, quella delle bestie feroci, ha due caratteristiche peculiari: gli animali non attaccavano
specie per specie, ma in branchi misti; questa piaga aveva il preciso scopo di distinguere il “popolo
di Hashèm” dagli egizi.
Queste due caratteristiche sono apparentemente contraddittorie tra loro. Da un lato, nel descrivere
l’attacco degli animali feroci, la Torà usa la parola èrev, che significa “mescolanza”, dall’altro è scritto
che questa piaga sarebbe servita per “dividere” il popolo ebraico dagli egizi. E come se la Torà volesse
usare uno strumento, un utensile per un fine opposto a quello per cui è stato progettato e costruito:
come usare un coltello di plastica per tagliare la pietra, oppure un metro per pesare un liquido.
La soluzione a questo “enigma” possiamo trovarla nel significato simbolico della “mescolanza/èrev
delle belve. Esse rappresentano l’anarchia e il terrore generati da una totale confusione delle regole
morali. Sentimenti simili a ciò che si prova quando i confini morali, che mantengono intatta la società,
vengono violati. Se ci riflettiamo un attimo forse questi sentimenti non sono poi così distanti da
ognuno di noi. Forse, almeno una volta nella vita, non ci è capitato di sentirci arrabbiati dopo aver
commesso una violazione del nostro “ordine morale” del mondo? Magari una cosa piccola, ma che
ha suscitato dentro di noi uno stato di disagio e di insicurezza. Ad esempio, violare per fretta o
distrazione un impegno morale che ci siamo presi, reagire in malo modo contro una persona magari
incolpevole, oppure per aver parlato troppo o a sproposito circa una situazione o una persona ecc.
Quindi, come possiamo difenderci da questi sentimenti generati dal nostro desiderio frustrato di avere
certezze e valori assoluti che ci accompagnino nella vita? La risposta la troviamo nei valori
eternamente santi della Torà. Non a caso, infatti, è usato nel libro “Saggezza Quotidiana” la frase
“valori autenticamente santi”. La parola Kadosh, Santo in ebraico ha il significato di “dividere,
separare”, proprio come è scritto nella Torà: [Hashèm istruì a Moshè di dire al faraone] «Opererò una
salvezza [che distinguerà] il mio popolo dal tuo popolo». In altre parole, è come se la Torà dicesse
anche a noi oggi, se volete “salvarvi” dal caos anarchico dei valori della società moderna, dal
relativismo inconsistente e amorale, dovete saper utilizzare lo “strumento” della santità/separazione,
ossia la capacità di dividere quello che è buono, eterno e utile (in termini spirituali e divini) da quello
che è inconsistente, temporaneo o dannoso.
*
Vaerà
Le Prime Sette Piaghe
Shemòt da 6, 2 – fino a 9, 5
Nella seconda sezione del libro dell’Esodo, Hashèm inizia il processo che porterà alla redenzione
degli israeliti dalla schiavitù egizia. Come prima cosa informa Moshè che è cruciale per lui e Israèl,
dimostrare la stessa fede in Lui come quella che ebbero i patriarchi quando “apparve” (vaerà, in
ebraico) a loro. Dopo alcuni ulteriori preparativi, Egli inizia a colpire gli egizi con le piaghe.
*
Shemòt 8, 7–18
Alla piaga del sangue seguono quelle delle rane e dei pidocchi.
Lo Scopo della Cultura
Hashèm istruì a Moshè di dire ad Aharòn: «Alza il tuo bastone e colpisci la polvere della terra
che si trasformerà in pidocchi». (8, 12)
Il pidocchio è un parassita che si nutre di animali e persone senza contribuire alla vita. Esso, quindi,
è una metafora del male, poiché il male prospera succhiando la forza vitale dalla santità, piuttosto che
grazie ai propri meriti.
Proprio come un pidocchio può attaccarsi a una persona solo se la sua igiene è carente, così il male
può prosperare solo quando lasciamo cadere la nostra consapevolezza divina, in misfatti o nell’apatia
verso la santità, che ci lascerà vulnerabili alle lusinghe del materialismo.
Infestando gli egizi con i pidocchi, Hashèm stava mostrando loro come l’indifferenza verso la
Divinità li aveva trasformati in “parassiti”. Tutte le loro conquiste nella letteratura, arte, architettura,
scienza . . . avevano il solo scopo di gonfiare il loro ego e migliorare le loro vite materiali. In questo
modo, stavano prosciugando la vitalità dalle forze della santità nel mondo, piuttosto che incrementare
la santità.
*
Shemòt 8, 19 – 9, 16
La quarta piaga è l’improvviso attacco di un’”orda mista” (in ebraico, “aròv”, mescolanza) di animali
selvatici. Hashèm ha detto a Moshè di riferire al faraone che quest’orda non avrebbe attaccato la
provincia di Gòshen, dove vivevano gli israeliti.
Distinzioni Salutari
[Hashèm istruì a Moshè di dire al faraone] «Opererò una salvezza [che distinguerà] il mio popolo dal
tuo popolo». (8, 19)
L’aspetto più terrificante di questa piaga è che l’orda di animali selvatici attacca come una mescolanza
disordinata, piuttosto che specie per specie. Questa anarchia e il terrore che suscita sono
simili a ciò che accade quando i confini morali, che mantengono intatta la società, vengono violati.
C’è del buono nel mettere in discussione una morale consolidata in una società secolare, ma ciò può
essere fatto solo quando siamo fermamente radicati nel nostro impegno verso i valori divini della
Torà. Solo quando siamo certi che tali valori sono autenticamente santi, possiamo valutare
correttamente ogni elemento della cultura secolare e scegliere cosa accettare e cosa rifiutare. Solo
quando abbracciamo questa distinzione essenziale, tra valori sacri e profani, è più facile per noi
migliorare la nostra connessione con Hashèm.

In memoria del mio carissimo amico Rav Haim Moshe Mordechai ben Dovber Shaikevitz

PERCHE’ SIAMO IN ESILIO?

E Dio parlò a Mosè e gli disse che io sono il Signore (6, 2)

וידבר אלוקים אל משה ויאמר אליו אני ה’ (ו,ב

La nostra parashà inizia con queste parole come risposta alla domanda di Moshè: “perché Dio hai fatto del male a questo popolo” e poi da quando mi hai inviato a redimerlo la situazione è peggiorata?

Nella Chassidut è spiegato che le parole iniziali della nostra parasha sono una risposta a questa domanda.

Dio informa Moshè che lo scopo dell’esilio in Egitto era la rivelazione del più alto nome di Dio, il quale poteva essere rivelato solo dopo un esilio molto difficile. In esilio si può trasformare il buio in luce, il male in bene e solo questo tipo di trasformazione può portare la rivelazione della luce infinita nel mondo. 

Proprio come è stato il VERO SCOPO dell’esilio dell’Egitto, così anche il VERO SCOPO del nostro esilio e redenzione futura (che non è solo una redenzione fisica e nemmeno una mera redenzione spirituale o redenzione dal male) sarà la più alta rivelazione, mai avvenuta, del nome di Dio nel mondo. 

Questa è anche la profonda intenzione di Maimonide quando, alla fine del libro Yad Hahazaka, descrive l’era messianica: “il mondo intero non avrà altra occupazione che conoscere Dio”.

D’altra parte all’inizio del suo libro, riguardo al comandamento di conoscere Dio, Maimonide non ha menzionato esplicitamente il NOME di Dio (allude solamente a Lui utilizzando le lettere iniziali di questa frase: “Il fondamento dei fondamenti e il pilastro della saggezza”), poiché ha solo scritto “dobbiamo capire che all’inizio c’è qualcuno che ha iniziato tutto” senza dire il nome di Dio.

Ma alla fine del suo libro – quando si tratta della futura redenzione – Maimonide sottolinea e scrive esplicitamente che bisogna “conoscere il Signore” – la rivelazione del nome di Dio.

La redenzione futura avverrà dopo la fine di questo esilio, il più amaro e lungo della nostra storia. 

Tuttavia, proprio grazie alla trasformazione di tanto buio in tanta luce, la fine dell’attuale esilio porterà la rivelazione infinita e la imminente redenzione amen.

(Likutei Sichot vol. 31 p. 26)

——

Lezione BOMBA!

parasha14° VAERA’:

10 PIAGHE: LEZIONE O PUNIZIONE?

https://www.facebook.com/shlomo.bekhor/posts/10157808407205540

https://youtu.be/UEA6cxhpn_c

Come mai Moshè riceve l’ordine di preparare alla redenzione, 

insegnando le regole della liberazione degli schiavi al popolo d’Israèl.

In memoria di Yaakov ben Shelomo
לעילוי נשמת יעקב בן שלמה ורחל

Nuova lezione atomica di questa settimana 2020

parasha14° VAERA’:

10 PIAGHE: LEZIONE O PUNIZIONE?

https://www.facebook.com/shlomo.bekhor/posts/10157808407205540
—-
PENSIERO E AZIONE

Alcuni anni fa gli scienziati della NASA avevano costruito una specie di piccolo cannone per lanciare dei polli morti ad alta velocità contro i parabrezza degli aerei di linea. Lo scopo era quello di simulare i frequenti scontri con i volatili, per testare la resistenza dei parabrezza degli aerei. Alcuni ingegneri britannici, avendo sentito parlare di questa “arma”, erano desiderosi di provarla sul parabrezza dei nuovi treni ad alta velocità. Quindi il cannone venne spedito ai tecnici britannici.
Quando l’arma fu attivata la prima volta, gli ingegneri rimasero impietriti: il pollo sparato dal cannoncino si schiantò contro il loro parabrezza infrangibile e lo fracassò, rimbalzò contro la console dei comandi, spezzò in due lo schienale della poltroncina di un ingegnere e si andò a incastrare nella parete posteriore della baracca, come un proiettile. I tecnici Britannici, sconvolti, trasmisero alla NASA i risultati disastrosi dell’esperimento e i progetti del loro parabrezza, supplicando gli scienziati Americani affinché dessero loro dei suggerimenti. La NASA rispose con un appunto della lunghezza di una riga: “Scongelate i polli” (ma io gli avrei risposto: “SIETE PROPRIO DEI POLLI…”).

Una Redenzione Dubbiosa
La precedente parashà dell’Esodo, Shemòt, descrive come il faraone – dopo che Mosè andò a parlare con lui chiedendogli di lasciare andare il popolo ebraico – inasprì per ritorsione la schiavitù. Quindi Mosè si rivolge a Hashèm in termini oltremodo inusuali dicendo: “Mio Signore: perché hai fatto del male a questo popolo? Perché mi hai dunque mandato?”. Un Mosè perplesso che in sostanza metteva in dubbio la provvidenza divina. Lui non comprendeva come fosse possibile che i preparativi per la redenzione dalla schiavitù egizia potessero causare un ulteriore aggravamento dei maltrattamenti del popolo ebraico. Dopotutto, la redenzione è un processo del tutto buono e giusto, come del resto si evince dalla stessa Torà: quando alla nascita di Mosè, il redentore, è scritto: “E vide che era buono…” (Shemòt 2, 2); per non parlare del fatto che colui che ordinò la missione della redenzione fu Dio stesso (Shemòt 3, 10). Quindi come poteva essere “non buono” il processo della redenzione? Può forse Hashèm sbagliarsi?

Una Risposta Per Molte Domande
A questa domanda “vitale”, Dio risponde a Mosè come è scritto, all’inizio della parashà di questa settimana, Vaerà: “Dio disse a Mosè. Io sono Hashèm. Mi rivelai a Abramo, Isacco e Giacobbe come Dio Onnipotente, ma con il mio nome, Hashèm, non mi resi noto a loro. Ho inoltre stretto il mio patto con loro…” (Shemòt 6, 2-4).

Questa narrazione solleva diverse domande:
a) Perché in realtà il profeta di tutti i profeti mise in dubbio gli ordini divini? Mosè era a un livello spirituale superiore rispetto ai Patriarchi. Pertanto se i Patriarchi non facevano domande a Dio, perché Mosè – che era appunto a un superiore livello nel poter comprendere gli ordini di Hashèm – invece sì?
b) Oltretutto, perché nella risposta di Hashèm – che ha messo in evidenza la virtù posseduta dai Patriarchi, di avere una fede senza dubbi – usa il nome Giacobbe e non il nome Israèl, per riferirsi a questo patriarca? Come è noto, infatti il nome Israèl riflette un livello spirituale superiore rispetto al nome Giacobbe.
c) Inoltre se la Torà generalmente si astiene dal fare dichiarazioni sfavorevoli, addirittura anche per quanto riguarda gli animali, perché questa regola non è stata rispettata per Mosè, che è la guida e il redentore scelto da Hashèm per tutto il popolo ebraico? Quindi perché in questa porzione si adombra la possibilità che Mosè è in qualche modo poco attento o addirittura che non comprende gli ordini di Dio, mettendo in dubbio la bontà della redenzione e della sua missione?
Poiché la narrazione getta su Mosè una luce poco favorevole, si potrebbe ritenere che la Torà ci stia dando una importante lezione, ossia che ognuno dovrebbe emulare la fede indiscussa mostrata dai Patriarchi. Ma è poi così vero? Possibile che la Torà declassi in questo modo le qualità e l’esempio di vita di Mosè?

La Personificazione Delle Qualità Spirituali
È comunque, molto difficile capire come sia possibile – in particolare in questo periodo buio dell’esilio, immediatamente antecedente alla definitiva e vera redenzione messianica – avere le doti per scegliere il percorso dei Patriarchi e non il percorso di Mosè.
Anche se, come dicono i nostri Saggi [Bereshìt Rabbà 56, 7]: “In ogni generazione ci sono individui che assomigliano ad Abramo, Isacco, Giacobbe e Mosè”, questo insegnamento vale solo per pochi eletti! La Torà, al contrario, è stata data a tutti per servire come guida e ispirazione non solo per una élite spirituale, ma per ogni uomo e donna. Quindi, come possiamo aspettarci che una persona normale non segua il percorso “umile” di Mosè, per perseguire esclusivamente l’esempio mostrato dai nostri Patriarchi?
Per comprendere occorre vedere più da vicino le qualità spirituali di Mosè e dei Patriarchi:
a) Mosè è associato all’’INTELLETTO, ossia al livello spirituale elevatissimo noto come Khokhmà, “la saggezza divina”. Per questo motivo, Mosè fu il mezzo attraverso il quale la Torà, che è la saggezza di Dio, fu data al mondo.
b) Invece il servizio divino dei Patriarchi, rispetto a quello di Mosè, è associato alla sfera degli attributi emotivi. E ognuno di loro è “caratterizzato” da uno specifico livello delle sfere emozionali: il servizio divino di Abramo è incentrato sulla gentilezza, sull’AMORE – Khèssed, verso Dio e verso il prossimo; il servizio di Isacco, al contrario, è caratterizzato dalla FORZA – Ghevurà e dal “TIMORE” a tal punto che non poter tollerare neanche la minima traccia di male nel suo ambiente. Mentre il servizio di Giacobbe è caratterizzato dalla “BELLEZZA” – Tifèret, la quale si identifica con la qualità della misericordia: l’attributo che combina amore e forza. Riflettendo questa fusione, Giacobbe univa in sé gli attributi di Abramo e Isacco.

Intelletti ed Emozioni Diverse
L’identificazione dei Patriarchi con le qualità emotive, sopra menzionate, ovviamente non significa insinuare che non fossero coinvolti nello studio della Torà. Al contrario, tutti i Patriarchi eccellevano anche nel campo dell’intelletto.
Allo stesso modo Mosè, sebbene associato all’intelletto, mostrò un intenso e significativo impegno emotivo per il servizio divino e per il prossimo. Ad esempio, quando in Esodo (2, 11) è descritta l’afflizione che Mosè provò verso la terribile schiavitù a cui erano sottoposti i suoi fratelli, mostrò un grande coinvolgimento emotivo e empatia verso il prossimo (Amore – Khèssed e Misericordia – Tifèret). Allo stesso modo, quando uccise l’egiziano che torturava un suo fratello, manifestò un grande senso della giustizia (Rigore, Ghevurà).
Tuttavia, sebbene sia i nostri Patriarchi, sia Mosè manifestassero l’intera gamma di attributi intellettuali ed emotivi umani, ognuno aveva un aspetto da cui riceveva una spinta fondamentale. La forza principale di Mosè era Khokhmà, la Saggezza, il livello intellettuale.
Diversamente, la spinta fondamentale dei nostri Patriarchi era di natura emotiva. In definitiva, ciascuno dei Patriarchi ha portato in dote a ognuno di noi l’attributo emotivo a cui erano più legati nel proprio servizio Divino.

Ognuno ha una missione
L’associazione dei nostri Patriarchi con le emozioni e Mosè con la qualità intellettiva ci permette di capire perché Mosè – che era su un piano più alto di quello dei Patriarchi – chiese: “Mio Signore: perché hai fatto del male a questo popolo?”. A differenza dei Patriarchi che seguirono le direttive divine con fede indiscussa, senza dubbi.
Per spiegare meglio, Mosè era a un livello spirituale superiore rispetto ai Patriarchi, poiché la sua missione implicava un uso elevatissimo e sublime della ragione e dell’intelletto: questa facoltà presuppone una naturale ricerca della comprensione di tutto ciò con cui viene in contatto. Quando un “intellettuale” incontra qualcosa che sembra sfidare la spiegazione della sua mente, del suo pensiero, ha difficoltà a continuare la sua missione. Pertanto, i dubbi e le domande di Mosè non riflettevano una mancanza di fede, ma era il modo con cui Mosè poteva affrontare le problematiche in base al suo livello spirituale e diffondere la saggezza di Dio nel mondo.
In risposta alla domanda di Mosè, la Torà riferisce: “Dio (Elokìm) disse a Mosè. E Dio parlò a Mosè, e gli disse: Io sono Hashèm. Come Dio onnipotente (El Shaddày) Mi rivelai ad Abramo, Isacco e Giacobbe, ma con il mio vero nome Hashèm (Havayà) non mi resi noto a loro…”.
Prima della consegna della Torà, il nome di Dio Elokìm era stato rivelato nel mondo, ma non il suo nome Havayà – Hashèm. Solo con il dono della Torà fu rivelato il nome di Hashèm, come è scritto: “Io sono Hashèm” e, in senso lato, con l’annuncio della redenzione dall’Egitto da parte di Mosè, che portò alla consegna della Torà.

L’importanza Del Nome
A questo punto ci si potrebbe chiedere. E allora! Elokìm o Hashèm sempre di Dio si tratta? No! Cosa cambia? Invece qui si introduce una differenza fondamentale per il rapporto tra noi, l’intera creazione e Dio.
Il nome Elokìm si riferisce alla luce divina che crea la natura, come si deduce dall’equivalenza numerica, ghematria (le lettere ebraiche sono anche numeri: c’è una relazione intima tra parole o frasi con lo stesso valore numerico) tra le lettere ebraiche che formano la parola Elokìm, Dio, e quelle che compongono la parola hatèva – natura. La somma del valore numerico delle lettere in entrambe le parole equivale a 86.
Quindi, il Nome Elokìm, come la natura, pone dei limiti a ogni entità, e pertanto distingue tra i vari aspetti della creazione: buono, cattivo; bello, brutto; notte, giorno, poco, tanto etc… Questo Nome di Dio, in qualche modo permette l’esistenza della molteplicità e delle differenze in questo mondo materiale. In definitiva questo Nome è in effetti la fonte della natura multiforme della nostra esistenza materiale.
Il nome Havayà – Hashèm, al contrario, riflette un livello di esistenza che trascende ogni limitazione, ogni divisione spazio-tempo e materiale. I fondamenti della nostra esistenza possono essere completamente annullati e trascesi quando si viene illuminati con questo Nome, come è accaduto a Mosè e al popolo ebraico, quando il Nome Hashèm si è rivelato. La “luce” di questo Nome fu rivelata per la prima volta durante il dono della Torà a tutto il mondo. A quel tempo, Hashèm annullò il decreto che separava i regni spirituali superiori da questo mondo umile e materiale. Applicando questo concetto riguardo al mondo interiore dell’anima umana, l’annullamento di questo decreto rende possibile unire intelletto ed emozione.

Unire Testa e Cuore
Questo è il significato interiore della risposta di Dio a Mosè. Gli disse che in quel momento, nel periodo prima della Redenzione e del dono della Torà, anche una persona la cui missione si concentra sulla saggezza e sulla ragione può e dovrebbe temperare la sua “mente” con le qualità emozionali e naturali e continuare con fede indiscussa. In sostanza, Hashèm dice a Mosè che deve “fondere”, unire l’intelletto con le emozioni, la parte più alta e quella più bassa del corpo umano!
Questo spiega anche perché Dio si riferisca al patriarca Giacobbe non con l’altro suo nome: Israèl. Ossia, qui Dio stava chiedendo a Mosè, la personificazione della saggezza, di temperare il suo approccio intellettuale con le qualità del lato emozionale. Ma, per dare questo importante messaggio cosa c’entra utilizzare il nome Giacobbe al posto di Israèl? Proviamo a capire meglio: per poter raggiungere un approccio emotivo pur essendo una persona intellettuale bisogna avere il Kabalàt Ol, letteralmente la “sottomissione” ad Hashèm, dei nostri istinti e emozioni “animali” attraverso l’accettazione del Suo giogo. Questo è una via del servizio divino associato al nome di “Giacobbe – יעקב”. Nome che in ebraico può formare (senza la lettera yud) la parola “ekev – עקב – tallone”, ossia la parte più bassa e a contatto con la terra dell’essere umano. Al contrario il nome “Israèl – ישראל” è associato con un livello spirituale superiore, “la testa”. Come la testa è la parte più alta e superiore del corpo umano, così lo è il livello spirituale rappresentato dal nome Israèl. Infatti, questo nome può essere scomposto fino a formare la parola ebraica “לי ראש” “Ho una testa”.
A livello individuale, questa fusione di livelli più alti e più bassi si esprime quando la “testa saggia” accetta incondizionatamente le modalità del servizio divino associato ai piedi o talloni, ossia la sottomissione alla volontà di Hashèm.

Azione Vs Astrazione
L’emozione ha un altro vantaggio fondamentale rispetto all’intelletto. Questo aspetto può essere rappresentato dai due principali organi dell’uomo: il cervello e il cuore. Entrambi, ovviamente, influenzano tutti gli organi del corpo. Vi è, tuttavia, un’enorme differenza nel modo in cui funzionano. Il cuore distribuisce l’energia vitale, attraverso la circolazione, in tutti gli organi e normalmente non c’è nulla che impedisca a questa energia vitale di diffondersi.
Tuttavia, questo principio non vale per il cervello! Anche se il cervello è il più importante degli organi che controllano il corpo, la sua influenza sugli altri organi è più trattenuta. L’influenza che la testa trasmette al corpo è limitata dal cuore, perché senza di esso nessun organo potrebbe funzionare e avere la vitalità necessaria per svolgere le sue funzioni.
Questo parallelismo lo possiamo riscontrare riguardo ai poteri dell’intelletto e delle emozioni. L’emozione porta all’azione, ad esempio, l’amore motiva a “fare del bene”, mentre la paura spinge ad “allontanarsi dal male”, e così via. L’intelletto, al contrario, ispira una persona a diventare una cosa sola con la materia che studia. Pertanto, sebbene una persona comprenda il modo in cui dovrebbe comportarsi, l’intelletto da solo non lo spinge verso un’azione reale. Al contrario, la tendenza dell’intelletto è verso l’astrazione. In effetti, il piacere che deriva dalla connessione della mente con un concetto può effettivamente impedire a una persona di applicare il concetto stesso. Per citare un esempio, quando fu chiesto al grande Studioso e Saggio del Talmud Ben Azzai, perché non si fosse sposato, egli rispose: “Cosa devo fare? La mia anima brama la Torà”. Sebbene fosse consapevole dell’importanza che la Torà attribuisce al matrimonio e alla vita familiare, il piacere che provava nello studio della Torà gli impedì di fondare una famiglia.
Non a caso i Saggi del Talmud, avvertendo il rischio di questa tendenza dell’intelletto umano, insegnarono: “Chiunque dice: Per me, non c’è nulla al di fuori della Torà, vuol dire che non possiede neppure quella!”. Poiché l’intelletto ha una tendenza naturale verso l’astrazione, è possibile che una persona che studia la Torà possa accontentarsi solo di questo sforzo. Pertanto è necessario che i nostri Saggi sottolineino l’importanza delle concrete azioni di gentilezza e altruismo. Gli studiosi della Torà devono lavorare contro la loro natura e impegnarsi in azioni concrete.
Ciò era implicito quando Dio disse a Mosè, la personificazione della saggezza, è quella di indossare anche il “mantello” dell’emozione.

Perché Il Titolo “Patriarchi”?
La tendenza dell’emozione a condurre all’azione ci consente di capire perché ad Abramo, Isacco e Giacobbe è stato assegnato il titolo di “Patriarchi”, come hanno commentato i nostri Saggi del Talmud: “Ci sono solo tre che si chiamano Patriarchi. Perché i Patriarchi sono per definizione quegli individui che generano una posterità”.
Sì e allora? Verrebbe da rispondere. È ovvio! Un patriarca è per definizione una persona da cui discendono figli e nipoti, pronipoti ecc. E quindi perché solo loro tre, e a cosa realmente si riferisce questo passo del Talmud?
In nostro soccorso ci viene in aiuto il più grande commentatore della Torà mai esistito Rabbi Shlomo Yitzhaki, universalmente noto con l’acronimo di Rashì. Lui ci spiega che le qualità preminente di Abramo, Isacco e Giacobbe è che sono Patriarchi, ma nel senso che la loro virtù fondamentale – quella che veramente gli fa meritare il titolo di “Patriarchi” – è che erano e sono i progenitori di una tradizione fatta di principi e valori fondamentali, ancora oggi, per l’ebraismo e per tutta l’umanità.
L’enfasi quindi andrebbe posta non sulle qualità emozionali uniche del singolo patriarca (Abramo – amore, Isacco – rigore e timore di Dio e Giacobbe – bellezza, clemenza) ma sulla loro capacità di generare una posterità spirituale, riconosciuta universalmente fino a oggi.

E Mosè Allora? No!
La richiesta di Dio a Mosè di mitigare la sua missione di saggezza e ragione con emozioni naturali ha due dimensioni: a) che non dovrebbe porre domande, ma invece procedere con Kabalàt Ol, come spiegato sopra; e b) che la sua saggezza dovrebbe estendersi verso il basso, attraverso la sfera emozionale, al prossimo. E fu proprio quello che accadde! Dopo il dono della Torà, Mosè si occupò di questioni terrene molto più di quanto i Patriarchi avessero mai fatto.
I Patriarchi, infatti – nonostante le loro eccelse qualità emozionali uniche e alla loro capacità di influenzare e di essere da esempio per le generazioni future – non solo non poterono legare l’intelletto con le emozioni come fece Mosè, ma rimasero comunque dei pastori, vivendo parte della loro esistenza lontani dalle questioni materiali. Mosè, al contrario, una volta appreso l’insegnamento di Hashèm di collegare il suo incredibile livello intellettuale della Saggezza con il basso delle emozioni raggiunge, anche nel campo dell’azione e della sua posterità spirituale, livelli elevatissimi: non solo diffuse la Sapienza della Torà in tutto il mondo, traducendola in 70 lingue e ovviamente educando ai suoi valori e principi tutto il popolo ebraico, ma Mosè fece di più, molto di più! Amò il popolo ebraico, prendendosi cura di loro come “una balia con il lattante” (Bemidbàr 11, 12): lo difese, consigliò e istruì ai precetti della Torà dalla schiavitù egizia, fino all’entrata nella Terra d’Israèl. Dimostrando più volte come la sua grande sapienza fosse oramai collegata alle più elevate emozioni dei patriarchi come l’Amore, Timore e Misericordia. Senza nessun tipo o tentazione intellettuale fine a se stessa, Mosè “buttò nella mischia” tutta la saggezza che Hashèm gli aveva donato per questo, ancora oggi, nella preghiera chiamata “I Tredici Principi di Fede” è scritto e si ricorda come “La profezia di Mosè nostro MAESTRO… è verità”.

Oggi, ai nostri giorni, cerchiamo di seguire l’esempio di Mosè usiamo il nostro intelletto nel mondo per agire con amore, timore e misericordia, verso Dio e il prossimo, in modo da rivelare la presenza divina e agevolare così la redenzione, con l’arrivo di Mashiàkh, presto ai nostri giorni, Amen.
—–
VAERA:

GRATITUDINE, LA BASE DELL’EBRAISMO!

Al seguente link la pagina web della lezione sulla nostra parashà in formato mp3:

VAERA: GRATITUDINE, LA BASE DELL’EBRAISMO

Al seguente link potrai scaricare la lezione della Parashà di questa settimana sul tuo mobile:

Per ascoltare le altre lezioni sulla parashà:
http://www.virtualyeshiva.it/2020/01/18/vaera-5773-5-lezioni/
—–

Virtual Yeshiva non fa pagare nessuna iscrizione al sito perché la Torà sia accessibile a TUTTI e SEMPRE.
Se ascolti le lezioni è doveroso dedicare parte della decima a mantenere viva questa grande opera di divulgazione di Torà.
Aiutando Virtual Yeshiva si diventa soci nella diffusione della parola di Hashèm ed è un segno di riconoscenza per chi insegna e così potremo diffondere insieme molti più valori di vita e insegnamenti.

Per saperne di più si può scrivermi una mail o collegarsi al seguente link:

Voglio aiutare!

————————————————————————————————————————————————————————————————————————

MIDRASHIM

Moshè e Aharon operano segni prodigiosi
(a pagina 664 del volume Shemòt edizioni Mamash).

La piaga delle rane
(a pagina 666 del volume Shemòt edizioni Mamash).

APPROFONDIMENTI KHASSIDICI

Una Fede incondizionata
(a pagina 713 del volume Shemòt edizioni Mamash).

I Miracoli della natura
(a pagina 718 del volume Shemòt edizioni Mamash).

VAERA – PESSAKH 5771 – LA FRECCIA DI DIO
Fin dall’uscita dell’Egitto l’energia delle futura redenzione è già stata emanata in potenziale. Bisogna solo concretizzarla! Il quinto livello di salvezza espresso da D-o al popolo ebraico, legato alla redenzione finale, non ancora completato, ma del quale ci viene dato il potenziale.

VAERA 5770 – IL BASTONE E IL SERPENTE
La prima prova data da D-o a Moshè: la trasformazione del bastone, ci insegna come affrontare e risolvere le paure della vita! Due meravigliosi commenti sul valore del bastone che diventa serpente e ritorna bastone nella redenzione!La felicità non viene dagli eventi o dagli oggetti, ma da noi direttamente.

VAERA 5769 – GRATITUDINE LA BASE DELL’EBRAISMO
L’etica e il valore della Chèssed, della bontà, per l’ebraismo. Il valore della bontà è talmente grande, illimitato ed eterno, da parte di chi dona, che deve essere sempre ricambiata dal ricevente con grande gratitudine.

VAERA 5768 – LE DIECI PIAGHE: IMPORTANZA DELLA PIAGA DELLE RANE
Le dieci piaghe, una parte della crescita spirituale degli egiziani ed un insegnamento per gli ebrei.Dice il Midrash: se non per le rane Hashem non avrebbe potuto punire interamente gli egizi. Che cosa significa?
La funzione della piaga delle rane nella punizione e rettificazione degli egiziani e i tre livelli di eresia.

VAERA 5766 – IL SIGNIFICATO DELLE DIECI PIAGHE
Il significato profondo del bastone trasformato in serpente. Il colpo iniziale all’ego del faraone per avviare il processo di annullamento della sua opposizione alla santità. L’importanza delle dieci piaghe e i tre messaggi per gli egiziani.Le dieci piaghe sono la prova che D-o ha creato il mondo e lo controlla.

Tags:

Search


Categories