Questo Shabbàt 29 Marzo 2025, 29 del mese di Adàr 5785 leggeremo la Parashà di Pekudé
Es. 38,21-40,38
HAFTARÀ
Italiani: Ezechiele 45°, 16-46°, 11
Sefarditi: Ezechiele 45°, 18-46°, 15
Ashkenaziti: Ezechiele 45°, 16-46°, 18
Si annuncia Rosh Chòdesh
Vigilia di Rosh Chòdesh
La Parashà di Pekudè è composta da 146 versetti.
La Parashà di Pekudè tratta in sintesi i seguenti argomenti:
Pekudè :
Calcolo di tutti i materiali raccolti per la costruzione del Mishkàn.
Descrizione del confezionamento del pettorale, dell’efòd e degli altri indumenti dei cohanìm.
Edificazione del Mishkàn da parte di Moshè.
Collocazione di tutti gli arredi ed edificazione del cortile.
Una donna chiama l’ospedale locale: “Buongiorno, vorrei parlare con l’addetto alle informazioni sui vostri pazienti, vorrei sapere se un paziente sta migliorando, se è stazionario o se sta peggiorando”. La voce dall’altro capo del telefono gli chiede: “Qual è il nome del paziente e il numero della stanza? Sara Cohen nella stanza 302”, risponde la donna. “Benissimo, la metterò subito in contatto con l’infermeria del reparto”. Postazione infermieristica 3-A. “Come posso aiutarla? Vorrei sapere quali sono le condizioni di Sara Cohen, stanza 302. Solo un momento, devo vedere la cartella clinica. Oh, sì! La signora Cohen sta molto bene: ha fatto due pasti completi, la sua pressione sanguigna è a posto, le analisi del sangue sono tornate normali, tra un paio d’ore le verrà tolto il cardiofrequenzimetro e, se continua con questo miglioramento, il dottor Weiss la rimanderà a casa sicuramente entro martedì”. “Grazie a Dio!” esclama entusiasta la donna. “È meraviglioso! Oh! È fantastico, che notizia meravigliosa!” L’infermiera, stupita da tanta gioia, non si trattiene dal chiederle: “Dal suo entusiasmo, deduco che lei deve essere un familiare o un amica molto cara!”. “Non esattamente”, risponde la donna. “In realtà sono Sara Cohen, stanza in 302, ma qui nessuno mi dice mai nulla!”
Prologo del Lungo Viaggio
Il dramma era quasi completo. Il popolo esiliato in un paese straniero per più di due secoli, per gran parte di quel tempo in condizioni insopportabili, ha sperimentato una liberazione miracolosa attraverso l’intervento diretto e manifesto del Creatore. Poi al monte Sinày, Dio e Israele stipulano un patto reciproco per diventare partner nel “Tikkùn Olàm”: riparare il mondo allontanato dalla Sua apparente essenza. Mai più nella storia Hashèm avrebbe completamente scostato i veli che Lo nascondono, comunicando la Sua presenza a un’intera nazione come con il Dono della Torà sul Sinày.
Ma poi, solamente quaranta giorni dopo, in un momento di “follia collettiva”, il popolo arriva a negare Dio, “sostituendo” il sovrano morale dell’universo con un Vitello d’Oro. Hashèm ora considera il Suo tentativo di plasmare un popolo in un “regno di principi e una nazione santa” come un fallimento colossale. Non vede più alcun valore nell’esperienza ebraica. Mosè si oppone a Dio, suscitando in Lui un legame più profondo nella Sua relazione con Israele. Hashèm, allora, riabbraccia il Suo popolo e per completare il perdono dal grave peccato, lo istruisce a costruire una casa in mezzo a loro tramite il Tabernacolo/Mishkàn, come dimora per la Sua inafferrabile presenza e dimostrazione che Hashèm è tornato al Suo popolo eletto. In questo Santuario, la verità onnipervasiva di Hashèm sarebbe stata più manifesta e accessibile.
Il popolo ebraico in massa porge a Mosè grandi quantità di oro, argento, rame e molti altri materiali necessari per la costruzione dello splendido Tabernacolo. Mosè nomina architetti, scultori e designer brillanti per costruire la casa, progettare i recipienti, scolpire i mobili e realizzare tutti gli oggetti che avrebbero costituito la nuova casa divina.
All’apertura della porzione della Torà di Pekudè (38, 21) il lavoro è completo. Presto, il Santuario sarebbe stato eretto e la presenza divina avrebbe risieduta al suo interno. Questo è un momento carico di drammaticità, un picco di novità, sollievo e attesa nel lungo e turbolento viaggio di un intero popolo. Dopo tutti gli alti e bassi, Hashèm sta per “trasferirsi” come in una dimora all’interno del popolo ebraico.
L’eroe della storia è senza dubbio Mosè, colui che con coraggioso altruismo ha “trionfato” su Dio, per così dire. Egli è l’uomo responsabile di aver portato il popolo e Dio a questo momento straordinario, quando l’umanità avrebbe “reintrodotto” Hashèm in un mondo che Lo aveva “bandito”.
Tempo Per la Contabilità
Ma attenzione! Proprio in questo momento, la Torà interrompe la narrazione, spostando la storia dalla creazione di una dimora per Dio in questo mondo, al “regno della contabilità”. Mosè, a questo punto, presenta un resoconto dettagliato di tutta la ricchezza che gli è stata conferita per la costruzione del Tabernacolo. Riferisce al popolo quante libbre di oro, argento e rame ha ricevuto e come esattamente è stato utilizzato nella struttura. Rende conto di ogni singolo pezzo di gioielleria e metallo che è arrivato nelle sue mani. Perché?
Il Midràsh (Shemòt Rabbà 51, 6) racconta che alcuni israeliti mormoravano che Mosè avesse rubato parte del denaro, usando i fondi della beneficenza per i propri scopi. Così, Mosè diede un resoconto dettagliato della destinazione di ogni “euro” raccolto nella grandiosa “campagna edilizia”.
Questa è una scena semplice ma molto significativa. Mosè, ricordiamolo, è il gigante spirituale della storia, che Maimonide definì come il più grande essere umano che abbia mai camminato sulla terra (commento alla Mishnà, introduzione al capitolo 11 del Sanhedrìn); “Hashèm parlava a Mosè faccia a faccia, come si parla con un suo prossimo…”, dice la Torà (Shemòt 33, 11). E ancora, “Non così è il Mio servo Moshè…”, tuona Dio su Aharòn e Miryàm dopo che avevano spettegolato su di lui; “In tutta la Mia casa, egli è fedele. Con lui parlo bocca a bocca, con chiarezza e senza enigmi; vede l’immagine di Hashèm. Perché, allora, non avete temuto di parlare del Mio servo, di Moshè?” (Bemidbàr 12, 7 – 8).
Un uomo che parla con Dio faccia a faccia ha davvero bisogno di dimostrare che non sta usando denaro per una crociera nei Caraibi, per una nuova BMW o per un jet privato? Gli ebrei, osservando la devozione e l’amore senza pari di Mosè nei loro confronti nelle circostanze più difficili, sapevano benissimo che Mosè non era un ciarlatano. Se Hashèm si fida di lui, anche loro potevano fidarsi di lui. Anche se alcuni agitatori mormoravano che Mosè avesse rubato parte del denaro, ci aspetteremmo che Mosè li ignorasse. “Chi credono di essere per mettere in dubbio la mia integrità”, ci aspetteremmo che Mosè pensasse tra sé: “Ho dato la mia vita per questi ribelli quando Hashèm voleva distruggerli. Dopo tutto, è stato Dio stesso a nominarmi alla mia posizione attuale, contro la mia volontà. Come osano mettere in discussione la mia onestà?” Questi sentimenti sarebbero comprensibili. Eppure, sorprendentemente, senza che gli venga nemmeno chiesto o ordinato di farlo, Mosè, in totale umiltà, si alza e rende conto di ogni singolo centesimo che gli è capitato tra le mani.
Valorizzare i Denari Che Abbiamo Ricevuto
Una delle grandi autorità halakhiche, il rabbino Joel Sirkish (1561-1640), noto come “Bach”, deriva una legge da questo episodio (Yorè Deà sezione 257): Anche i più amati e credibili elargitori di beneficenza sono obbligati a dare un resoconto dettagliato alla comunità della destinazione di ogni centesimo che hanno raccolto per beneficenza. Nessuno, scrive il Bakh, poteva essere più affidabile di Mosè, l’uomo di cui Dio stesso si fidava. Eppure, anche lui si sentiva obbligato a dare un resoconto di tutti i contributi ricevuti. Una nota storica interessante: Bakh era estremamente ricco, era il rabbino di Cracovia e prestava alla comunità enormi somme di denaro. Nutriva e sosteneva molti dei suoi studenti, distribuendo enormi somme di denaro in beneficenza.
Questo è uno dei grandi messaggi morali dell’ebraismo: quando si tratta dei soldi di qualcun altro, sii responsabile di ogni centesimo. Non nascondere, non mentire e non ingannare. Non puoi mentire alle persone e poi essere onesto con Hashèm, con tua moglie, con i tuoi figli, con i tuoi amici.
Se solo Bernie Madoff banchiere e truffatore statunitense, mente del più grande schema Ponzi di tutti tempi, del valore di circa 64,8 miliardi di dollari, avesse interiorizzato questa storia…
Abbiamo tutti bisogno e quindi apprezziamo il denaro. Alcuni di noi amano il denaro. Anche i leader spirituali hanno bisogno del denaro e spesso lo apprezzano profondamente. Anche i rabbini sono solo esseri umani e questo non è un male. La storia diventa brutta quando diventiamo disonesti con il nostro denaro. Dobbiamo imparare da Mosè: essere sempre in grado di rendere conto di ogni dollaro che ci è capitato in mano.
Rispetto del Prossimo
C’è ancora qualcosa di più profondo. Mosè crede veramente nella dignità del popolo e nel suo diritto di sapere cosa è accaduto con i suoi contributi. Mosè non permette alla sua grandezza spirituale e alla sua straordinaria autorità di impiantare nella sua psiche un senso di superiorità sulle masse, in cui è al di là del suo ego dare loro un resoconto dettagliato di come ha utilizzato l’oro etc. Al contrario, vede il suo potere datogli da Dio come un mezzo per conferire dignità e grandezza a tutto il popolo.
Mosè diede l’esempio a tutte le generazioni a venire. I grandi leader ebrei capirono per sempre che ciò che li qualificava come leader e insegnanti e che conferiva loro il diritto al potere non era il loro carisma, la loro brillantezza, le loro capacità o persino il fatto che l’Onnipotente stesso li aveva nominati alla loro posizione. Era piuttosto il fatto che nel profondo del loro cuore consideravano davvero i loro “sudditi” come loro pari. Possedevano una sincera convinzione che la dignità fosse proprietà di tutti.
I leader insicuri, invece, devono ricorrere alla paura e alla tirannia per assicurarsi la lealtà e proteggere la propria posizione. Devono parlare in nome dell’autorità piuttosto che in nome dell’integrità. Devono rimanere distaccati e superiori e non permettere mai alla gente semplice di avere troppo accesso alla verità, perché sono facilmente vulnerabili. Nella migliore delle ipotesi, creano seguaci. I leader autentici, d’altro canto, guadagnano la fiducia, l’apprezzamento e l’affetto del loro popolo, a causa della loro fiducia nel popolo e della loro fede incrollabile nella maestà di ogni singolo essere umano plasmato a immagine del divino. Ossia diventano creatori di leader, come il mio mentore e maestro il Rebbe, un grandissimo leader che ha caratterizzato la sua vita nel “creare” altri leader: persone altruiste in grado di prendere decisioni per il bene comune con coraggio e determinazione.
Ciò è vero per tutte le nostre relazioni nella vita. Se si desidera ispirare una lealtà genuina, in un matrimonio, sul posto di lavoro o nelle amicizie, si deve imparare ad accettare genuinamente l’altra persona come un pari, conferendole la dignità che si tiene cara per se stessi.
Questo saggio si basa su un discorso tenuto dal Rebbe di Lubàvitch, Shabbàt Pekudè 5744, 3 marzo 1984 tratto da uno scritto di Y. Y. Jacobson
Pekudè
La Costruzione del Tabernacolo Continua
Esodo da 38, 21 fino a 40, 38
Vi proponiamo un estratto del libro “Saggezza Quotidiana” basato sugli insegnamenti cassidici del Rebbe e dei suoi predecessori.
La parashà che viene letta questo Shabbàt si incentra prevalentemente sugli incarichi che Moshè assegna per il funzionamento e il trasporto del Tabernacolo.
Il brano si sofferma sul fatto che in questa parashà, per la prima volta, il Tabernacolo è chiamato “testimonianza”, perché testimonia come Hashèm ha perdonato Israèl, per il peccato del Vitello d’Oro. Inoltre, la parola ebraica per “testimonianza” (edùt) è legata alla parola “gioielli” (adì), ossia, le “corone spirituali” che le persone hanno ricevuto durante il Dono della Torà e che hanno dovuto rimuovere, dopo l’incidente del Vitello d’Oro.
Il significato profondo di questo insegnamento è legato al significato del Tabernacolo. Esso, infatti, non è tanto e solamente un edificio, per quanto santo e importante, ma le “istruzioni” per la sua edificazione celano – come abbiamo già spiegato nei precedenti scritti – anche le “istruzioni” per migliorare il nostro percorso spirituale rettificando le nostre menti, parole e azioni. Lo scopo di questo è quello di “costruire”, dentro di noi, un Santuario dove Hashèm possa dimorare.
Questa associazione tra noi, il Santuario, il Dono della Torà e il peccato del Vitello d’oro ci permette di comprendere che quando ci impegniamo a costruire dentro di noi il nostro “Santuario” interiore ci vengono perdonati le trasgressioni commesse e possiamo ottenere le nostre “corone spirituali”.
Tuttavia, rimane da spiegare che genere di risultato può permettere di ottenere tanta benevolenza da parte di Hashèm: non solo ci perdona delle nostre passate trasgressioni, ma addirittura, possiamo ottenere un livello spirituale paragonato dalla Torà.
In soccorso viene la parte esoterica della Torà. La parola העדת “Testimonianza” è composta dalle stesse lettere che formano la parola הדעת “Conoscenza”, intesa anche come consapevolezza. Questo è anche un riferimento alla sefirà Da’àt composta dalle lettere che formano la radice della parola “Conoscenza” דעת.
Il legame con questa Sefirà ci spiega quale livello noi possiamo ottenere riuscendo a costruire una dimora per Hashèm in noi, il nostro “santuario” interiore. Da’àt non simboleggia o allude solo ad una generica consapevolezza e/o conoscenza, ma essa rappresenta un livello di consapevolezza per cui arriviamo a “sentire”, percepire, in ogni nostro atto e azione, la presenza di Hashèm in questo mondo. In particolare, a questo livello riconosciamo manifestatamene la Regalità di Hashèm sull’intero creato e quindi anche su noi stessi. E se ci pensiamo bene la “Corona” è il simbolo stesso della Regalità. In questo modo, “riempendoci” della Sua presenza divina diventiamo come uno strumento della Sua Regalità, come dei gioielli, “adì”, di una corona.
L’undicesima e ultima sezione del libro dell’Esodo si apre informandoci che Moshè affida gli “incarichi” (pekudè, in ebraico) per il funzionamento e il trasporto del Tabernacolo. Avendo terminato il racconto di come gli artigiani hanno modellato i vari componenti del Tabernacolo, la Torà ora procede descrivendo come questi stessi artigiani realizzano le vesti sacerdotali e di come il Tabernacolo viene finalmente eretto.
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Narrando come Moshè nomina varie persone per il funzionamento e il trasporto del Tabernacolo, qui la Torà si riferisce al Tabernacolo, per la prima volta, come la “testimonianza.”
Seconda Innocenza
Questi sono i computi del Tabernacolo. Il Tabernacolo della Testimonianza. (38, 21)
La Torà si riferisce al Tabernacolo come una “testimonianza”, perché testimonia che Hashèm ha perdonato Israèl, per il peccato del Vitello d’Oro. Inoltre, la parola ebraica per “testimonianza” (edùt) è legata alla parola che la Torà usa per “gioielli” (adì), ossia, le corone spirituali che le persone hanno ricevuto durante il Dono della Torà e che hanno dovuto rimuovere, dopo l’incidente del Vitello d’Oro. Perciò, il Tabernacolo è anche chiamato “il Tabernacolo dei gioielli”.
Questo indica che il Tabernacolo era anche il mezzo attraverso il quale Hashèm ha consentito a Israèl di riconquistare le altezze spirituali e la conoscenza divina che hanno raggiunto, quando Hashèm ha dato loro la Torà, prima del peccato del Vitello d’Oro.
Allo stesso modo, costruendo il nostro Tabernacolo spirituale interiore personale, anche noi siamo in grado di superare qualsiasi difetto spirituale che potremmo aver accumulato durante la nostra vita. In questo modo, otteniamo parte della conoscenza divina incontaminata, che Hashèm ci ha conferito, quando la Torà è stata data per la prima volta.
Anche questa settimana vi proponiamo un estratto del libro “Saggezza Quotidiana” basato sugli insegnamenti cassidici del Rebbe e dei suoi predecessori.
La parashà che viene letta questo Shabbàt si incentra prevalentemente sugli incarichi che Moshè assegna per il funzionamento e il trasporto del Tabernacolo.
Il brano si sofferma sul fatto che in questa parashà, per la prima volta, il Tabernacolo è chiamato “testimonianza”, perché testimonia come Hashèm ha perdonato Israèl, per il peccato del Vitello d’Oro. Inoltre, la parola ebraica per “testimonianza” (edùt) è legata alla parola “gioielli” (adì), ossia, le “corone spirituali” che le persone hanno ricevuto durante il Dono della Torà e che hanno dovuto rimuovere, dopo l’incidente del Vitello d’Oro.
Il significato profondo di questo insegnamento è legato al significato del Tabernacolo. Esso, infatti, non è tanto e solamente un edificio, per quanto santo e importante, ma le “istruzioni” per la sua edificazione celano – come abbiamo già spiegato nei precedenti scritti – anche le “istruzioni” per migliorare il nostro percorso spirituale rettificando le nostre menti, parole e azioni. Lo scopo di questo è quello di “costruire”, dentro di noi, un Santuario dove Hashèm possa dimorare.
Questa associazione tra noi, il Santuario, il Dono della Torà e il peccato del Vitello d’oro ci permette di comprendere che quando ci impegniamo a costruire dentro di noi il nostro “Santuario” interiore ci vengono perdonati le trasgressioni commesse e possiamo ottenere le nostre “corone spirituali”.
Tuttavia, rimane da spiegare che genere di risultato può permettere di ottenere tanta benevolenza da parte di Hashèm: non solo ci perdona delle nostre passate trasgressioni, ma addirittura, possiamo ottenere un livello spirituale paragonato dalla Torà.
In soccorso viene la parte esoterica della Torà. La parola העדת “Testimonianza” è composta dalle stesse lettere che formano la parola הדעת “Conoscenza”, intesa anche come consapevolezza. Questo è anche un riferimento alla sefirà Da’àt composta dalle lettere che formano la radice della parola “Conoscenza” דעת.
Il legame con questa Sefirà ci spiega quale livello noi possiamo ottenere riuscendo a costruire una dimora per Hashèm in noi, il nostro “santuario” interiore. Da’àt non simboleggia o allude solo ad una generica consapevolezza e/o conoscenza, ma essa rappresenta un livello di consapevolezza per cui arriviamo a “sentire”, percepire, in ogni nostro atto e azione, la presenza di Hashèm in questo mondo. In particolare, a questo livello riconosciamo manifestatamene la Regalità di Hashèm sull’intero creato e quindi anche su noi stessi. E se ci pensiamo bene la “Corona” è il simbolo stesso della Regalità. In questo modo, “riempendoci” della Sua presenza divina diventiamo come uno strumento della Sua Regalità, come dei gioielli, “adì”, di una corona.
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APPROFONDIMENTI KHASSIDICI
Pekudè:
Dall’alto e dal basso
(a pagina 787 del volume Shemòt edizioni Mamash).
E Moshè li benedisse
(a pagina 791 del volume Shemòt edizioni Mamash).
L’inaugurazione del Mishkàn
(a pagina 793 del volume Shemòt edizioni Mamash).
MIDRASHIM
Il resoconto del Mishkàn
(a pagina 697 del volume Shemòt edizioni Mamash).
La Shekhìna torna sulla terra
(a pagina 699 del volume Shemòt edizioni Mamash).
PEKUDE 5768 – PERCHÉ L’ESILIO DURA COSI TANTO?
Moshe dettaglia tutti i quantitativi dei materiali per la costruzione del Mishkàn e il loro utilizzo, ma non dice dei 1775 shekalim che mancano al conteggio.