Questo Shabbàt 10 Maggio 2025, 12 del mese di Iyàr 5785 leggeremo le Parashot di Acharè Moth Kedoshìm
Levitico 16, 1 – 20 , 27
HAFTARÀ
Italiani: Ez 20, 1-20
Sefarditi: Ez. 20, 2-20
Ashkenaziti: Amos 9, 7-15
Pirqè Avot 3° capitolo
Acharè Moth
e Kedoshìm
Questa settimana è stato sepolto il rabbino Shalom Dovber Lipsker di 78 anni, emissario Chabad in Florida, uno degli ebrei più influenti negli Stati Uniti e dell’intero mondo ebraico. Nel corso degli anni, il suo impegno nel campo educativo, nell’insegnamento della Torà e nel volontariato ha raggiunto centinaia di migliaia di ebrei, anche in Israele.
Nato a Tashkent, il giovane Shalom Dovber fu portato fuori clandestinamente dall’Unione Sovietica quando era ancora piccolo, in un campo profughi in Germania. Nei primi anni ‘50 la sua famiglia si trasferì in Ontario, Canada, segnando l’inizio di un nuovo capitolo della sua vita. Ricevette l’ordinazione rabbinica presso la Yeshivà Centrale di Lubavitch di 770 nel 1968. Dopo il matrimonio con Hannah, la coppia fu inviata in missione dal Rebbe a Miami Beach, dove il rabbino Lipsker assunse inizialmente la direzione della Yeshivà Chabad locale, prima di fondare la Grande Yeshivà e di diventarne il direttore educativo. Era una persona super speciale e carismatico con un amore verso il prossimo infinito, come dice proprio questa porzione settimanale: AMA IL TUO PROMESSO COME TE STESSO.
Lui sempre diceva che questo amore infinito lo aveva imparato dal Rebbe e lo avevo inspirato a visitare i carcerati che nessuno tende a dedicare tempo per loro ma anche loro sono anime da illuminare.
Una volta durante una visita a un carcerato quello gli disse che gli voleva tanto bene al rabbino e voleva tanto bene al Rebbe. Allora il rabbino Shalom Dovber Lipsker chiese come mai questo amore così grande? Il condannato rispose perché tu rabbino e il Rebbe mi volete così tanto bene e siete gli unici che pensate a un detenuto, perciò vi voglio tanto tanto bene a me.
Ecco un piccolo aneddoto che lo riguarda, raccontato nel giorno del suo funerale:
Il rabbino Lipsker si prendeva cura di chiunque incontrasse. Sia che si trattasse del Presidente degli Stati Uniti o di un povero che gli chiedeva l’elemosina, trattava tutti con lo stesso rispetto. Aveva fondato l’associazione “Alef” che si prende cura degli ebrei, uomini e donne, sia nelle forze armate che nel sistema penitenziario americano, fornendo loro cibo kosher, risorse, supporto e cure. Il rabbino Lipsker dava loro lo stesso ascolto e considerazione di quello che avrebbe dato all’amministratore delegato di una banca. Trattava tutti, davvero tutti, allo stesso modo, perché tutti sono creati ad immagine di Dio e perché ognuno ha una sua missione un suo posto nel mondo.
Guardava sempre negli occhi la persona che aveva di fronte e chiedeva: “Come stai?”
Ma era un “come stai” sincero, si capiva che voleva davvero saperlo. E poi chiedeva: “E come sta la tua anima?” Non c’era ipocrisia in questo, nemmeno se la domanda veniva ripetuta centinaia di volte. Voleva davvero sapere come stava l’anima del prossimo. Ci sono persone che hanno cambiato completamente il loro stile di vita in meglio e tutto è iniziato proprio da queste due domande: “Come stai? E come sta la tua anima?”. Un interrogativo sul quale vale la pena di riflettere.
COME STAI? E COME STA LA TUA ANIMA?
Che sia la sua vita da esempio per noi per mantenere la sua memoria ed elevare la sua anima.
TUTTO PER UNO
Una famosa storia nel Talmud racconta che una volta un gentile andò da Shamai chiedendogli
di essere convertito ma solo a condizione che gli insegnasse tutta la Torà nel tempo in cui
riusciva a stare su un solo piede, ovvero qualche minuto. Il saggio rabbino si infuriò e scaccio
l’individuo. Poi lo stesso si presentò davanti a Hilèl Hazakèn con la stessa proposta, il quale gli
rispose: ciò che non vuoi che venga fatto a te non fare al prossimo; ecco tutta la Torà, il resto
non è altro che la spiegazione di questo…
Questo insegnamento viene preso dalla parashà di questa settimana dove è scritto: ama il tuo
prossimo come te stesso.
La seguente parabola ci aiuterà a comprendere meglio questa lezione.
Durante la lezione di Khumàsh il maestro notò con la coda dell’occhio una calma
conversazione che si stava svolgendo in fondo alla classe.
«Mi presteresti il temperamatite?» Shmuel sussurrò a Dany, mostrandogli la punta rotta della
sua matita.
Dany scosse la testa facendo capire di no. Dany era uno degli allievi migliori della classe.
«Questa non è la prima volta che Dany mostra la mancanza di ahavàt Israèl», pensò il maestro
dentro di sé. «Devo aiutarlo a lavorare sulle sue Midòt – attributi emotivi». «Chi si offre
volontario a spiegare il prossimo verso?» l’insegnante domandò alla classe. Dany alzò subito la
mano. «Vai avanti, Dany». Dany tradusse il pasuk parola per parola. «Cosa ci insegna la Torà in
questo pasuk?» domandò il maestro. Dany ripeté la sua spiegazione. «Dany» disse il maestro,
«tu mi hai tradotto e spiegato le parole del verso, ma cosa ci vuole trasmettere la Torà in
questo pasuk?» Dany rimase perplesso. «Non è quello che ho appena detto?» insistette. «No»
disse dolcemente il maestro. «Hai tradotto le parole, ma non hai spiegato cosa ci vuole
insegnare la Torà. Il pasuk significa “Presta una matita al tuo compagno. Mostragli ahavàt
Israèl”. «Ma questo cosa ha a che fare con questo pasuk?» sbottò Dany. «Tutto!» rispose il
maestro. «Hillel ci insegna: Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te. Questa è tutta la
Torà. Il resto sono solo commenti». Ogni pasuk della Torà allora ci insegna di fare ahavàt
Israèl. Nella parashà di Kedoshìm leggiamo “Veahavta Lerèacha Kamocha”. Lo Zohar ci
racconta che Am Israèl, la Torà e Hashèm sono come tre anelli concatenati. Se uno dei tre
viene rafforzato, l’intera struttura diventa più forte.
Quando un ebreo mostra ahavàt Israèl, il suo legame con la Torà diventa più forte di prima,
come insegna Hillel, “Ama le creature di Hashèm e avvicinale alla Torà”. Allo stesso modo,
studiare la Torà ci porta a fare più ahavàt Israèl. E sia la ahavàt Israèl e sia lo studio della Torà
ci portano vicino ad Hashèm.
COMUNICARE MEGLIO CHE CURARE
Non odiare tuo fratello nel tuo cuore.
Sembrerebbe significare che nel cuore non si può odiare ma nella bocca si può. La Torà
avrebbe potuto dire non odiare e basta; perché aggiunge le parole “nel tuo cuore”?
La spiegazione, dicono i commentatori, è che odiare nel cuore è veramente molto peggio che
odiare nella bocca. Infatti se uno finge di non provare odio e non dice niente, ma poi possiede
l’odio nel cuore, questo è falso e ipocrita e D-o odia gli ipocriti. Per questo è molto peggio
odiare nel cuore che nella bocca.
Inoltre, se uno comunica il suo odio e la causa per la quale è arrivato a sviluppare tale
sentimento e non lo lascia dentro, questo può portare la persona che viene odiata a scusarsi
eventualmente dell’errore che ha fatto o forse a giustificare il suo atto e così ad annullare la
causa dell’odio.
Impariamo che mai bisogna lasciare le cose dentro: cercare sempre di comunicare i sentimenti
con la moglie con i figli questo porta solo bene. Non dare le cose per scontato, come alcuni
dicono: «certo che amo mia moglie, è sempre nel mio cuore non devo neanche dirglielo».
Proprio a queste persone parla la parashà di questa settimana: anche le cose più ovvie vanno
dette perché la comunicazione è la base della nostra esistenza.
Non per altro la superiorità dell’uomo sull’animale secondo la Torà non è nell’intelletto bensì
nella parola, nella forza di comunicare e di unire persone lontane fra di loro addirittura
opposte come un uomo e una donna che hanno nature opposte. Questa è la vera forza
dell’uomo sfruttiamola al massimo per migliorare i nostri rapporti sociali.
Infatti la Torà chiama l’uomo: PARLANTE.
ELEVARE ANCHE LE COSE MONDANE
Nella parashà di Kedoshìm è scritto “Siate santi perché Io Hashèm, sono Santo”. Come
possiamo osservare la mitzvà di essere santi?
1) Un ebreo si santifica osservando le mitzvòt della Torà e allontanandosi dalle azioni che la
Torà proibisce.
2) Ma la Torà vuole che siamo “santi” anche quando non preghiamo, studiamo o facciamo una
mitzvà. Una persona deve cercare di santificarsi anche ogni giorno al lavoro.
Essere santi allora significa usare la mente, il corpo e le cose materiali per “santificarci”:
MANGIARE certamente possiamo mangiare solo cibi kashèr e quando lo facciamo dobbiamo
dire la berakhà relativa prima e dopo aver mangiato. Ma per fare la mitzvà di essere “santi”
dobbiamo assicurarci di mangiare solo cibi che ci rendono forti e sani. E mentre mangiamo
dobbiamo pensare di farlo per avere la forza di servire Hashèm.
DIVERTIRSI E RILASSARSI lo facciamo sapendo che lo scopo è prendere forza per pregare e fare
meglio le mitzvòt.
PARLARE CON AMICI facendo attenzione a non fare lashòn harà. Per essere “santi” dobbiamo
pensare sempre alle parole che stiamo per dire. Sono belle parole? Possono aiutare gli altri in
qualche modo? O, khas veshalom (Dio non voglia!), possono ferire o far male agli altri?
FARE SHOPPING usiamo sempre il nostro denaro per un buon proposito, anche se ne abbiamo
più del necessario. Prima di acquistare qualsiasi cosa pensiamo “Ne ho realmente bisogno?”,
“Il mio acquisto ha un buon proposito?”.
Molti di noi potrebbero pensare “Non sono un angelo! Mi voglio divertire. Voglio mangiare
qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Voglio spendere soldi quando lo desidero. E voglio dire
qualsiasi cosa mi venga in mente di dire. La mitzvà di essere “santo” non è per me”.
È vero, non è una mitzvà semplice. Ma se ci è stata data da può essere adempiuta da ognuno
di noi, perché Hashèm ci ha dato le potenzialità per farlo, amen.
Certo il Sommo Sacerdote doveva essere sposato per prestare servizio, però che significato può avere l’ordine di tornare a casa subito dopo il servizio di Kippur? Non era già ovvio che sarebbe stato così? Essendo sposato, il Sommo Sacerdote dove sarebbe dovuto andare al termine del suo servizio, se non a casa!
La chassidùt dietro questo, apparentemente, incomprensibile ordine della Torà ci aiuta a comprendere il significato nascosto di questa richiesta. Lo scopo di raggiungere alti livelli di consapevolezza del Divino nel Kòdesh Hakodashìm, nel giorno di Kippur, non è per un mero “piacere personale”, o per una sorta di gratuita gratificazione che Hashèm dona al Sommo Sacerdote di turno. Il servizio del Sommo Sacerdote, così come quello di tutti noi, è di incidere e rettificare questo mondo materiale in concreto. La massima ispirazione di ognuno, infatti, dovrebbe essere quella di elevarsi spiritualmente per poter applicare le nostre migliorate qualità spirituali alla vita di tutti i giorni.
Tuttavia, la moglie cosa c’entra?
La moglie nella Torà simboleggia anche la casa, la famiglia. Il senso è che questi elementi, ossia il rapporto coniugale e più in generale la vita famigliare, sono, tra gli aspetti della vita materiale, forse i più difficili e impegnativi. Ogni genere di incomprensione e difficoltà, a volte, sono in agguato per rompere o indebolire la shalòm bait (pace famigliare). Questo vera e propria sfida permanente non era, e non è, solo il “campo da gioco” di noi “umili mortali”, ma era una sfida anche per persone di un livello spirituale elevatissimo, proprio come il Sommo Sacerdote. Addirittura, si potrebbe dire che la Santità aggiuntiva, dovuta all’espiazione, la teshuvà, raggiunta in quel giorno e la vicinanza particolare di Hashèm, all’interno del Santo dei Santi, erano, in qualche modo, finalizzate a dare una forza supplementare al Sommo Sacerdote, per migliorare ancora di più i suoi rapporti famigliari, in particolare con la moglie.
L’ideale della vita ebraica, infatti, non è quella di essere dei campioni “solitari”, ma di essere dei “campioni” in una “squadra”. E nel caso del matrimonio vi sono due giocatori, marito e moglie, e un allenatore Hashèm. Solo attraverso l’unione e l’armonia sia spirituale, sia nella vita reale, tra queste componenti: lato maschile, femminile e legame con Hashèm, possiamo creare una dimora per Hashèm in questo mondo e raggiunge la tanto bramata era messianica, presto ai nostri giorni Amen.
A seguito della morte di Nadav e Avihù, Hashem ammonisce di non accedere nel luogo Santissimo dove è conservata l’Arca. Solo una persona, il Cohen Gadol (sommo sacerdote) può entrarvi una volta all’anno, per Yom Kippur, ed offrire il sacro Ketoret a D-o.
Una caratteristica del servizio nel Giorno dell’Espiazione è la selezione tra due capri per scegliere quale offrire a D-o e quale portare nel deserto, per allontanare i peccati di Israel.
La Parashà mette in guardia anche dal portare korbanot (offerte di animali o farina) in luoghi che non siano il Santuario, proibisce di nutrirsi del sangue e dettaglia le leggi relative all’incesto e ad altre relazioni sessuali deviate.
Kedoshìm
La Parashà (Levitico 19:1–20:27) comincia con l’affermazione “Santi dovete essere, perché Santo sono Io, il Signore vostro D-o”, da cui seguono decine di mitzvot attraverso le quali l’ebreo santifica sè stesso, relazionandosi con la santità di D-o.
Tra queste: la proibizione all’idolatria, la mitzvà della carità, il principio di uguaglianza davanti alla legge, lo Shabbat, la moralità sessuale, l’onestà nel proprio lavoro, l’onore e il rispetto verso i genitori e la sacralità della vita.
In Kedoshim viene riportato anche il principio, definito dal grande saggio Rabbi Akiva come un principio cardine della Torà e del quale Hillel disse, “questa è l’intera Torà, il resto è solo un commento”, AMA IL TUO PROSSIMO COME TE STESSO.
Questo Shabbat ci riporta alla solennità di Yom Kippur poiché quasi tutta la parashà che leggiamo è incentrata su tale giorno, il più santo dell’anno.
Nel giorno di Kippur non beviamo, non mangiamo, non ci laviamo e non indossiamo scarpe di cuoio. Non è difficile sentirsi santi in questo giorno speciale, in cui molte cose sono così diverse dagli altri giorni.
Da notare che il titolo della parashà è Akharè significa “in seguito”. Un ebreo deve rendere tutta la sua vita “santa” e tutte le sue azioni coerenti con questa santità, non solo il giorno di Kippur ma anche dopo, durante qualsiasi altro giorno dell’anno, quando mangia, dorme ecc.
L’Onestà negli Affari
מֹאזְנֵי צֶדֶק אַבְנֵי צֶדֶק אֵיפַת צֶדֶק וְהִין צֶדֶק יִהְיֶה לָכֶם וגו׳: (ויקרא יט, לו)
[Hashèm istruì a Moshè di dire a Israèl] «Dovete possedere [solo] pesi giusti e misure veritiere». (19, 36)
Altrove nella Torà siamo solo messi in guardia dal prendere denaro che non è nostro (attraverso il furto, la rapina, l’imbroglio, ecc.). Qui, ci viene comandato di non possedere nemmeno false misure, anche se non le useremo mai. Questo perché, quando un commerciante utilizza misure false sta fingendo di comportarsi correttamente. Sta effettivamente misurando le sue merci, apparentemente per addebitarle correttamente al suo cliente; tuttavia, allo stesso tempo, lo sta ingannando. Questo inganno è la radice di ogni disonestà che alla fine porta a un furto manifesto o peggio ancora.
Lo stesso vale per il nostro rapporto con Hashèm. La nostra inclinazione al male, – consapevole che qualsiasi tentativo di convincerci a ribellarci apertamente contro il nostro Creatore fallirà – indubbiamente, tenterà di intrappolarci attraverso l’inganno. “Sono d’accordo”, esso inizia, “che ogni azione deve essere ‘misurata’, condotta nel pieno rispetto della legge ebraica. Tuttavia, cosa ci sarebbe di così terribile se le ‘misure’ fossero leggermente alterate? Anche se insisti a mantenere una misura onesta”, continua, “mantienine anche un’altra: applica le leggi di Hashèm alla tua vita pienamente, quando si tratta di questioni spirituali; ma quando si interagisce con il mondo materiale o si fanno affari, sicuramente c’è spazio per il compromesso”.
La scrupolosità nel mantenere misure accurate, così come in tutti i rapporti d’affari, è il prerequisito per soddisfare l’intera Torà. Con le parole di Hilèl, uno dei grandi saggi talmudici: “Ciò che è odioso a te, non farlo ai tuoi simili – questa è l’intera Torà il resto è un commento. Vai e studia !”.
tratto dal nuovo libro in uscita Saggezza Quotidiana
Levitico da 16, 1 fino a 18, 30
Yom Kippùr
più gravi venivano espiati con i rituali e i sacrifici nel Giorno dell’Espiazione (Yom Kippùr). Rituali che venivano eseguiti solo dal Sommo Sacerdote. Alcuni di essi si svolgevano nella camera più intima del Tabernacolo, il “Santo dei Santi” (Kòdesh Hakodashìm).
Aharòn offrirà il suo toro come sacrificio di espiazione, per espiare il peccato per se stesso e per la sua famiglia [sua moglie]. (16, 6)
I riti Sommo Sacerdote del Kippùr ci istruiscono su come rinnovare il nostro rapporto con Hashèm. Promuovere la nostra armonia coniugale è parte integrante dello sviluppo della nostra relazione con Lui. Il marito è responsabile dell’accrescimento spirituale della moglie. Inoltre, dobbiamo sforzarci di armonizzare i nostri lati “maschili”, cioè l’aspirazione alla spiritualità, con i nostri lati “femminili”, cioè l’aspirazione a portare la spiritualità nelle nostre vite quotidiane.
Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor
CHI TROVA UN AMICO TROVA UN TESORO
Akharè Mot – Kedoshim (Vayikrà 16-18, Vayikrà 19-20)
“Siate santi perché Santo sono Io, il Signore vostro Dio”. (Vayikrà 19,1)La parashà di questa settimana comincia con il comandamento a tutto Israèl di essere “santi”.
Rashi spiega che questa santità è, di fatto, un prerequisito per adempiere alla maggior parte dei comandamenti della Torà. Questo è il motivo per cui andava detto di fronte all’intera nazione.
Subito dopo questo comandamento, la Torà procede dando una lista di diversi precetti – mitzvot da osservare. Se esaminiamo con attenzione tali mitzvot, vediamo che esse sono riconducibili a due distinte categorie: comandamenti tra uomo e Hashèm (verticali), come osservare le leggi concernenti lo Shabbat, e comandamenti tra uomo e uomo (orizzontali), come per esempio quello di non desiderare intensamente i beni del proprio vicino.
Molte persone, erroneamente, ritengono che la santità riguardi solo la relazione tra uomo e Hashem, dimenticandosi così delle altre relazioni che si costruiscono nella vita. Nell’ebraismo si ritiene che, poiché Hashem è Santo, tutte le nostre interazioni con Lui devono a loro volta avvenire con santità.
Tuttavia, proprio quando si giunge ai comandamenti tra uomo e uomo, si tende a pensare che la santità non sia più necessaria: gli uomini sembrano diventare così solo persone non perfette, non meritevoli della Santità. Di conseguenza spesso non ricevono quello che meritano.
La Torà ci insegna il motivo per il quale a noi tutti è comandato di essere santi: se ciascuno mantiene un livello di santità nella propria vita, allora ognuno deve trattare il proprio vicino come qualcuno di santo. Se le cose stanno così, allora come può una persona santa anche solo pensare di rubare, offendere, o maltrattare un altro?
Per questa ragione il verso della porzione settimanale ci insegna che “siamo santi” perché dobbiamo santificare la nostra vita materiale, il nostro corpo fisico, che altro non è se non l’involucro che ospita la Forza vitale Divina. Perciò bisogna rispettare gli uomini come si rispetta Dio e la sua Divina forza vitale che scorre in tutti.La storia di due amici
Amare il nostro prossimo porta santità nel mondo, come spiegato nel seguente midrash.Due uomini erano legati da una profonda amicizia ma la vita li mise a dura prova. Vivevano infatti in due stati diversi, tra loro in conflitto. Il cui confine tra gli stati passava proprio nei due villaggi in cui abitavano e, a cause della guerre e delle vicissitudini quotidiane, i due amici si separarono per molti anni.Uno dei due decise un giorno di partire per andare a trovare l’amico, superando il confine pericoloso.
Ma le cose presero anche questa volta una brutta piega e presto, vista lo stato di guerra, cominciarono a spargersi nel paese di destinazione delle voci riguardo alla missione dello straniero venuto in visita. Presto egli venne arrestato con l’accusa di spionaggio e ritenuto colpevole venne condannato a morte dal re in persona.
L’uomo supplicò allora il re di esaudire un suo ultimo desiderio: essendo uno stimato uomo d’affari nel suo paese, e, come tale, ben conosciuto, faceva spesso degli affari a credito, tramite una semplice stretta di mano. In tal modo aveva accumulato una piccola fortuna, ma, poiché la maggior parte del suo denaro veniva dato in prestito alle persone senza contratti, egli chiese al Re di consentirgli un ultimo viaggio a casa per mettere in ordine i propri affari e dire addio alla sua famiglia. Diversamente, il re non lo stava semplicemente condannando a morte, ma condannava anche i suoi figli a una vita di povertà.
Il re incredulo e perplesso gli chiese di fornirgli delle garanzie sul fatto che sarebbe tornato. L’uomo rispose di avere un buon amico in città che avrebbe preso volentieri il suo posto fino al ritorno. Fu condotto l’amico che accettò prontamente dicendo: “Dopo tutto, a cosa servono gli amici?”
Il re incredulo del fatto che l’amico locale fosse pronto a morire per permettere al suo amico di tornare a casa, in terra nemica, allora decise di mettere alla prova i due e acconsenti alla partenza dell’uomo, per scoprire se sarebbe davvero tornato.
Giunto il giorno dell’esecuzione, tuttavia, l’uomo non aveva fatto ritorno, così il re diede ordine alle sue guardie di portare fuori l’amico e decapitarlo. Quando la lama stava per scendere sulla testa del pover uomo, si fece largo tra la folla l’amico: aveva fatto ritorno, fermamente pronto ad accettare il suo destino!
A questo punto ebbe inizio tra i due amici una insolita ed “accesa” discussione su chi dovesse essere giustiziato, poiché entrambi erano intenzionati a sacrificarsi l’uno per l’altro.
Il re osservò la discussione con grande STUPORE. Non riusciva a credere a quello che vedeva: non avrebbe mai immaginato che esistesse al mondo un’amicizia fraterna così vera e carica di rispetto e reciproca devozione.
Poi si rivolse ai due amici per la pelle, dicendo “Nessuno di voi due verrà ucciso, alla condizione che io diventi vostro amico! Se esiste un’amicizia così sincera e profonda anche io ne voglio fare parte.”Da questo racconto apprendiamo il significato del verso “Amerai il tuo prossimo come te stesso, io sono l’Eterno” (Vayikrà 19,18). Il profondo messaggio ivi contenuto è che, se un uomo ama il suo prossimo sinceramente e di cuore, Hashem promette di amare entrambi ed essere costantemente loro socio, il terzo amico.
I comandamenti che valgono tra l’uomo e il suo prossimo includono anche Hashèm.Inoltre il valore numerico di amare – ahava è 13. Quando due si amano a vicenda allora ci sono due ahava ovvero 13+13=26. Sappiamo che il valore numerico del Tetragramma è 26 (yud 10 – hei 5 – vav 6 – hei 5). Quando due si amano sinceramente portano la luce divina nel mondo poiché creano l’energia che corrisponde al Tetragramma il valore 26.
Quando agiamo con amore nei confronti del nostro prossimo, portiamo la Shekhinà (presenza divina) nel mondo.
AKHARE MOT 5770 – IL GIORNO DOPO IL DOMANI!
Quando si raggiunge la cima della montagna è ora di tornare casa!
KEDOSHIM 5769 – MANTENERE L’IDENTITA’ INTERIORE DURANTE MOMENTI STRESSANTI!
La logica del concetto “mechubar lo batil”: se il frutto è attaccato all’albero non si annulla?
KEDOSHIM 5768 – AMA IL TUO PROSSIMO COME TE STESSO!
Quattro spiegazioni su come si può amare il prossimo come sè stesso. Rabbi Akiva e Hilel hazaken affermano che questo precetto rappresenta tutta la Torà.
KEDOSHIM 5765 – RICONOSCERE SEMPRE L’IMPORTANZA DI HASHEM!
Ama il prossimo come te stesso, non attribuire due pesi e due misure, il quinto anno del raccolto.
Comments
Una risposta a “AKHARE MOT KEDOSHIM 5785 : 6 LEZIONI”
[…] Per ascoltare le altre lezioni sulla parashà: http://www.virtualyeshiva.it/2020/04/30/akhare-mot-kedoshim-5772-5-lezioni/ […]