EMOR 5785 : 7 LEZIONI

Questo Shabbàt  17 Maggio 2025, 19 del mese di Iyàr 5785 leggeremo la Parashà di Emor Levitico 21: 1 – 24: 23.

HAFTARÀ
Ezechiele 44: 15-31

4° Pirke Avot

Ecco 16 lezioni video/audio/testo
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Contare i Giorni o le Settimane?
Ci sono tre tipi di persone, dice una vecchia barzelletta: quelle che sanno contare e quelle che non sanno contare. Tuttavia, c’è qualcosa di strano nel modo in cui contiamo i 49 giorni dell’Òmer che, nella tradizione ebraica, vanno da Pèssakh alla festa di Shavuòt. Il Talmud afferma (Menakhòt 66a) che Abayè disse: “È una Mitzvà contare i giorni, ed è una Mitzvà contare le settimane”. Questo perché entrambi sono menzionati esplicitamente nella Torà e nella parashà di questa settimana di Emòr:
in Vayikrà (23, 15-16) è scritto, “Dal giorno dopo il (primo) giorno di riposo (di Pèssakh), il giorno in cui portate l’Òmer come offerta rituale, conterete per voi sette settimane. Quando le conterete saranno perfette, dovrete contare fino cinquanta giorni, ossia il giorno dopo la settima settimana. Il cinquantesimo giorno dovrete portare la prima offerta di cibo dal nuovo raccolto a Dio”. Mentre in Devarìm (16, 9-10) è scritto: “Conterai sette settimane; dal momento in cui si mette la falce sulla messe, comincerai a contare sette settimane. Celebrerai la festa delle Settimane in onore del Signore tuo Dio, con l’elemosina che potrai dare, secondo la benedizione che il Signore tuo Dio ti avrà dato”.

Chiaramente, la Torà parla di due forme di conteggio: il conteggio delle sette settimane e quello dei 49 giorni. Pertanto, per adempiere a entrambi i precetti, alla fine della prima settimana contiamo come segue: “Oggi sono sette giorni, che è una settimana per l’Òmer”; la notte successiva contiamo come segue: “Oggi sono otto giorni, che è una settimana e un giorno per l’Òmer”; e poi “Oggi sono quarantotto giorni, che sono sei settimane e sei giorni per l’Òmer”.
Eppure è strano. Perché la Torà insiste affinché contiamo contemporaneamente sia i giorni che le settimane? Uno di questi conteggi sembrerebbe superfluo, cosa guadagniamo, infatti, contando la settimana dopo aver contato i giorni? Perché se qualcuno vuole sapere quante settimane sono, puoi fare i calcoli da solo, oppure, in alternativa, possiamo limitarci alle settimane, ad esempio “Oggi siamo una settimana dell’Òmer”. Non bisogna essere certamente un genio per sapere quanti giorni vi sono in una settimana!

BEAUTIFUL MIND
Come Affrontare Traumi e Depressione
NUOVA RIFLESSIONE ATOMICA
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Precetto della Torà o dei Rabbini?

C’è un’altra questione sconcertante. Il “korbàn Òmer/l’offerta dell’Òmer” era un’offerta d’orzo portata al Tempio Santo il secondo giorno di Pèssakh (il 16 di Nissàn). Si raccoglieva l’orzo e lo si macinava fino a ottenere la farina per offrirne una manciata sull’altare. Il resto della farina veniva cotta come matzà per i cohanìm (l’Òmer, il volume di farina, equivale al volume di 42,2 uova).
Perciò la Torà afferma (Vayikrà 23, 15): “E conterete per voi stessi dal giorno dopo il Sabato, dal giorno in cui portate l’offerta dell’Òmer, ci saranno sette settimane complete, fino al giorno del settimo giorno conterete cinquanta giorni…”.
Quando il Bet Hamikdàsh (Tempio Sacro) sorgeva a Gerusalemme, quest’offerta di una misura di Òmer d’orzo, portata il secondo giorno di Pèssakh, segnava l’inizio del conteggio delle sette settimane. Oggi, che non abbiamo più il Tempio e quindi la possibilità di portare l’offerta dell’Òmer durante Pèssakh, esiste ancora l’obbligo di compiere il conteggio dell’Òmer?
Come avrete intuito, c’è una disputa tra i nostri saggi.
Il Ràmbam (Maimonide), il Khinùkh e altri stabiliscono in base al Talmùd che l’obbligo di contare non dipenda dall’offerta dell’Òmer. Anche oggi, siamo obbligati, secondo la Torà, a contare i 49 giorni tra Pèssakh e Shavuòt.
Tuttavia, Tosfòt e la maggior parte delle autorità halakhiche, inclusi i Codici della Legge Ebraica, (Tosfòt Menakhòt 66a, Shulkhàn Arùkh e Òrakh Khayìm) sostengono che la mitzvà del conteggio dipenda direttamente dall’effettiva offerta dell’Òmer. Pertanto, oggi, esiste solo un obbligo rabbinico di contare, per commemorare il conteggio al tempo del Santo Tempio. Secondo questa autorevole opinione, quindi, ad oggi il nostro conteggio non è un comandamento della Torà a tutti gli effetti (Mitzvà Deorayta), ma un’ordinanza rabbinica che si limita a commemorare la Mitzvà adempiuta quando il Tempio era operativo.
Fin qui tutto logico e sembra semplice? Eppure non lo è.

Terzo Parere

Ma c’è una terza e originale opinione, quella del saggio francese e spagnolo del XIII secolo Rabbenu Yerucham ben Meshùlam (1290-1350): un importante rabbino e possèk (codificatore della Legge Ebraica) durante il periodo dei Rishonìm, nacque in Provenza, in Francia. Nel 1306, dopo l’espulsione degli ebrei dalla Francia, si trasferì a Toledo, in Spagna. Durante questo periodo della sua vita, divenne studente di Rabbi Ashèr ben Yehiel, noto come il Rosh.
Tale opinione afferma che tutto dipende da quale conteggio stiamo parlando: quello dei giorni o delle settimane? Il conteggio dei giorni è un obbligo della Torà anche oggi, mentre il conteggio delle settimane, afferma Rabbenu Yerucham, è solo un precetto rabbinico. Questa terza opinione è un’interessante combinazione delle prime due: secondo Rabbenu Yerucham, contare i giorni è una mitzvà della Torà, anche quando non esiste più il Bet Hamikdàsh, mentre la mitzvà di contare le settimane si applica solo quando viene offerto l’Òmer che a oggi è solo un comandamento rabbinico.
La logica alla base di questa tesi è affascinante: quando la Torà afferma di contare le settimane sia in Vayikrà (23, 15) che in Devarìm (16, 9), lo fa nel contesto dell’offerta dell’Òmer, quindi, senza l’offerta dell’Òmer, l’obbligo biblico decade. Ma quando la Torà ordina di contare i giorni (solo in Vayikrà 23, 16), lo afferma indipendentemente dall’offerta dell’Òmer. Pertanto, anche senza l’offerta dell’Òmer esiste comunque la mitzvà di contare 49 giorni. Ora, questo sembra davvero strano, come possiamo interpretare Rabbenu Yerucham? Contare è contare, quindi qual’è esattamente la differenza tra dire “Oggi sono ventotto giorni dell’Òmer” che ancora oggi è un obbligo dalla Torà, invece dire “Oggi sono quattro settimane dell’Òmer” che NON è più un obbligo della Torà? Come possiamo dare un senso all’idea che contare i giorni sia un mandato biblico, mentre contare le settimane sia un mandato rabbinico? Visto che parliamo di maestri illustri che avevano spirito divino, sicuramente le loro opinioni celano un profondo messaggio.
Certo, Rabbenu Yerucham offre una prova convincente tratta dalla Torà. Ma questo non fa che trasferire la domanda sulla Torà stessa: quale sarebbe la logica per comandare agli ebrei di oggi, in esilio, di contare solo i giorni e non le settimane? Oltretutto, al tempo del Santo Tempio agli israeliti era stato ordinato dalla Torà di fare entrambe le cose.
Le opinioni di Ràmbam e Tosfòt sono chiare. O l’intero obbligo, conteggio dei giorni e delle settimane, è biblico o è completamente rabbinico. Ma la scissione, tra giorni e settimane, suggerita da Rabbenu Yerucham appare enigmatica. Perché la Torà dovrebbe fare questa distinzione? Perché dovrebbe negarci l’opportunità di contare le settimane durante l’esilio, ma obbligarci comunque a contare i giorni in assenza del Sacro Tempio?

Due Lavori Diversi

Cerchiamo di approfondire il mistero dei giorni, delle settimane e delle tre visioni di Ràmbam, Tosfòt e Rabbenu Yerucham, da un punto di vista emotivo e psicologico più profondo. Questa spiegazione fu offerta dal Rebbe di Lubàvitch durante un discorso, il 24 maggio 1951, il giorno di Lag Ba’òmer (Maamàr Usfartem Lag Ba’òmer 5711 / 1951. Probabilmente è la prima e unica fonte che spiega il punto di vista di Rabbenu Yerucham secondo la Chassidùt).

Gli insegnamenti della Cabala e del Chassidismo descrivono sette tratti caratteriali fondamentali nel cuore di ogni essere umano: Khèssed (amore, gentilezza); Ghevurà (disciplina, moderazione); Tifèret (bellezza e misericordia); Nètzakh (vittoria, ambizione); Hod (umiltà e gratitudine); Yessòd (legame e comunicazione) e Malkhùt (leadership e fiducia). Questo è il significato più profondo del “conteggio dell’Òmer”, la mitzvà del conteggio da Pèssakh a Shavuòt: l’ebraismo designa un periodo dell’anno per una sorta di “terapia comunitaria”, quando insieme attraversiamo un processo di guarigione del nostro io interiore, passo dopo passo, problema dopo problema e emozione dopo emozione. Per ciascuna delle sette settimane, ci concentriamo su una delle sette emozioni della nostra vita, esaminandola, affinandola e correggendola, al fine di allinearla alle emozioni divine, che si intercludono ognuna nell’altra con armonia senza litigare, anche quando sono opposte (questo può accadere solo nel mondo di Tikun, ma non nel mondo primordiale del Tohu).

Nella prima settimana, ci concentriamo sull’amore, Khèssed, nelle nostre vite e in questo periodo dovremmo domandarci: se sappiamo come esprimere e ricevere amore, come amare con passione.
Invece nella seconda settimana, Ghevurà, ci concentriamo sulla nostra capacità di creare confini, limiti e autodisciplina e pertanto dovremmo chiederci: se sappiamo come creare e mantenere l’adeguata disciplina nella vita.
Nella terza settimana, Tifèret, riflettiamo sulla nostra capacità di empatizzare: come essere empatici nei confronti dei bisogni del prossimo.
Nella quarta settimana, Nètzakh, rettifichiamo la nostra capacità di trionfare di fronte alle avversità: la capacità di vincere e di essere persone ambiziose.
La quinta settimana, Hod, invece, si concentra sulla nostra capacità di essere umili  ed esprimere gratitudine, mostrare vulnerabilità e ammettere gli errori.
Nella sesta settimana, Yessòd, ci concentriamo sulla nostra capacità di creare legami solidi e duraturi. E infine, nella settima settimana, Malkhùt, ci concentriamo sulle nostre capacità autostima e di leadership: di possedere la sicurezza necessaria, oppure di percepire la nostra dignità, o di capire se la nostra leadership è guidata dall’insicurezza o dall’egocentrismo.

Tuttavia, come abbiamo detto, la mitzvà dell’Òmer consiste nel contare sia i giorni che le settimane. Infatti, ciascuna delle sette settimane è ulteriormente suddivisa in sette giorni. Questi sette tratti si esprimono nella nostra vita in vari pensieri, parole e azioni. Quindi, durante i sette giorni di ogni settimana, ci concentriamo ogni giorno su un dettaglio diverso di come questa particolare emozione si esprime nella nostra vita. Se il conteggio delle settimane rappresenta il nucleo dell’emozione stessa, ad esempio l’amore, il conteggio dei giorni rappresenta l’affrontare non l’emozione stessa, ma piuttosto come essa si esprime nella nostra vita quotidiana, nei dettagli della nostra vita, nei nostri comportamenti, parole e pensieri. Questo perché l’attenzione è rivolta all’espressione dell’emozione, infatti, nei dettagli della nostra vita ci sono sette giorni, che rappresentano sette sfumature in cui ogni emozione si esprime, attraverso l’amore, o attraverso la disciplina, o attraverso l’empatia, o attraverso l’ambizione, ecc.

Trasformazione vs Autocontrollo Giornaliero

Quando diciamo, “Oggi è una settimana dell’Òmer”, intendiamo che oggi siamo riusciti a sintonizzarci sulla portata completa di quell’emozione, trasformandola e guarendola nel profondo di tutte le sue sette sfumature.
Ogni tanto, sentiamo quello che chiamiamo un meraviglioso viaggio di incredibile guarigione e trasformazione. Qualcuno che ha lottato con un trauma o una dipendenza per molti anni, scopre improvvisamente in sé una profonda consapevolezza, o forse intraprende un profondo percorso di guarigione, o un programma terapeutico, uscendone completamente guarito.
Ha toccato un punto così profondo dentro di sé, che la sua vita è ora completamente trasformata. Il trauma è guarito; la dipendenza è scomparsa. La rabbia o la gelosia non sono più un problema. Come un bambino che sta imparando a usare il vasino, a un certo punto smette di considerare l’idea di usare il pannolino. È maturato. Allo stesso modo, c’è la possibilità di contare le settimane, ovvero di trasformare completamente una particolare emozione, eliminando completamente le distorsioni. Ma questa è un’esperienza spesso unica e rara. E anche quando accade, potrebbe non durare per sempre, c’è sempre il rischio di ritornare ai vecchi meccanismi di difesa causati dai traumi della vita.

Arriviamo ora al secondo modello di auto-raffinamento, il “MODELLO DEL GIORNO”. Questo è il modello che appartiene a ciascuno di noi in ogni momento. Non possiamo essere sempre capaci di realizzare completamente e subito il “modello della settimana”, ma possiamo sempre lavorare con il “modello del giorno”. Non c’è una grande trasformazione qui, gli impulsi ci sono, le tentazioni ci sono, le dipendenze pure, le emozioni negative ci sono e a volte sono intatte. Tuttavia, con il modello “giorno per giorno” possiamo sempre riuscire a raffinare, anche se solo in parte, quel giorno dell’Òmer: magari riuscendo a controllare dove e come quell’emozione verrà espressa nei dettagli della nostra vita; oppure anche se non riusciamo a capire e ridefinire il nucleo stesso di una particolare emozione – l’intera “settimana” – possiamo comunque scegliere come verrà incanalata, o non incanalata, nei dettagli della nostra vita.
Immaginiamo di guidare la nostra auto e di avvicinarci a un semaforo rosso. Ora qualcuno sul nostro sedile posteriore ci urla: “Vai! Passa col rosso! Fallo e basta!”. Quel tizio ci sta urlando dritto nell’orecchio. Le urla sono così forti e fastidiose, ma oramai siamo al volante e nessun tipo di urla può farci passare col rosso. Perché no? Perché ora possiamo identificare “l’urlatore” come una voce aliena a noi stessi, come uno sconosciuto che propone un’idea assurda e pericolosa. Potremmo non essere in grado di fermare quelle urla, ma possiamo identificarle e quindi metterle in “quarantena”, inserendole nel contesto a cui appartengono: a un uomo folle che urla stupidità.
Invece, ora proviamo a immaginare se, sentendo quella voce che ci urla di “prendere il semaforo rosso”, decidessimo che è la nostra mente razionale a parlarci, la nostra intelligenza, invece di un uomo sciocco, allora diventerebbe molto più difficile dire di no.
Lo stesso vale per emozioni e pensieri. Anche se siamo emotivamente “traviati”, abbiamo ancora il timone in mano. Potremmo non essere in grado di trasformare un particole impulso e fermare l’urlo di certi pensieri, tuttavia, finché riusciamo a identificare che questo pensiero non appartiene alla nostra essenza, ma dalla nostra “parte” malsana e insicura, possiamo sempre impedire a quel pensiero di definirci e controllare il nostro comportamento.
Perciò, anche se non abbiamo sempre il “lusso” di contare le settimane e di trasformare le emozioni negative, abbiamo sempre la facoltà e il dovere di raffinare i giorni, ovvero di capire quando un urlo non fa parte della nostra vita ed è un pericolo da eliminare.

Pensieri Suicidi

Una donna che lotta contro pensieri suicidi mi ha raccontato di recente come ha imparato a gestirli in modo più efficace.
“Ho sempre creduto che quando ho impulsi suicidi, non ho il controllo. Dopotutto, gli impulsi suicidi non erano qualcosa che potevo tirare fuori a piacimento: È stato necessario un innesco estremamente doloroso perché i pensieri suicidi esplodessero con tale intensità. Ma questa volta ho capito che i pensieri erano solo PENSIERI, e siamo noi a scegliere se impegnarci con essi e definirci attraverso di essi. Scegliamo di agire in base ai nostri pensieri oppure no. Non è facile pensare a pensieri nuovi, quando i vecchi pensieri familiari ti dicono che il suicidio è l’unica soluzione. Se l’unica cosa che le persone imparassero fosse a non avere paura delle proprie esperienze, questo cambierebbe il mondo. Nel momento in cui riusciamo a guardare negli occhi il nostro impulso o la nostra tentazione e dire: ‘Ciao! Non ho paura di te, sei solo un pensiero’, abbiamo acquisito il controllo su quell’impulso”.

Cambiare i Vestiti

Ora, ipotizziamo di ricevere un messaggio da nostra moglie del tipo: “Ma, quando torni a casa?”. Immediatamente e istintivamente ci viene in mente un pensiero che ci fa infuriare: “Apprezzerà mai il massacrante lavoro che faccio? Cosa pensa che ci faccia qui in ufficio? Non può semplicemente lasciarmi in pace!”.
Ma su, cerchiamo invece di rilassarci e riflettere sul fatto che, ad esempio, ci ha solo chiesto quando saremo tornati a casa, forse perché si sente sola, ci vuole bene e vuole vederci. Ma a causa delle nostre insicurezze, non riusciamo a pensare in senso positivo e probabilmente anche veritiero. Abituati come siamo a sentirci spesso criticati, magari dalla suocera, ci viene naturale pensare che dietro a un messaggio affettuoso ci sia solo un rimprovero. Ma spesso non è così. Era solo una domanda semplice e innocente.
Possiamo sempre e comunque liberarci delle nostre insicurezze e frustrazioni in ogni momento della giornata? Ovviamente No. Tuttavia possiamo IDENTIFICARE la nostre emozioni e capire come la loro fonte sono le nostre dimensioni di insicurezza.
Così, possiamo autodeterminarci a non permettere che quella parte storta di noi, prenda mai più il controllo della nostra vita. Non permettiamo, infatti, alle “immagini tossiche” che abbiamo di noi stessi, come pensare che tutti aspettano solo il momento di criticarci, di sopraffarci. Una volta identificata la provenienza dell’emozione, possiamo metterla in quarantena e lasciarla essere ciò che è, ma senza permetterle di definirci. Oppure, usando il linguaggio del Tanya, bisogna impedire che prenda le redini e il comando del nostro corpo. La chiave non è lasciarci intrappolare dall’idea che quel pensiero siamo noi, che rifletta la nostra essenza. No! La chiava è capire che esso è solo un pensiero. Non rappresenta il nostro Io. Siamo noi che dobbiamo definire i nostri pensieri e non il contrario. Anche se sono una parte di noi, non rappresentano completamente chi siamo. È solamente il tizio sul sedile posteriore che ci urla: “Passa con il semaforo rosso, forza!”.
Anche quando non riusciamo a perfezionare la settimana, possiamo riuscire a perfezionare la giornata: prendere il controllo del modo in cui i nostri pensieri ed emozioni si manifestano nei singoli giorni e nei comportamenti della nostra vita.

Anche un grande personaggio come Winston Churchill soffriva di depressione. Nella sua biografia, descrive come arrivò a vedere la sua depressione come un “cane nero” che lo accompagnava sempre e a volte abbaiava fortissimo. Ma il cane nero non era lui. I pensieri deprimenti erano SOLO dei pensieri e nulla più. Una delle idee più potenti nel Tanya (Cap. 4, 6, 12) è che i pensieri sono gli “abiti dell’anima”, non l’anima stessa. Gli abiti sono fatti per cambiare. Spesso vediamo i nostri pensieri come il nostro vero sé. Ma non lo sono; sono solo abiti. Possiamo cambiarli quando vogliamo.

Una Mente Meravigliosa; una Vita Meravigliosa

Diversi anni fa, John Nash, uno dei più grandi matematici del XX secolo, morì insieme alla moglie in un devastante incidente stradale nel New Jersey. È difficile non versare una lacrima leggendo la biografia “A Beautiful Mind”, sulla vita tragica e trionfale del signor Nash, in seguito trasformata anche in un film. John Nash, nato nel 1928, fu nominato all’inizio della sua carriera come uno dei matematici più promettenti al mondo. Nash è considerato uno dei grandi matematici del XX secolo. Gettò le basi della moderna teoria dei giochi – la matematica del processo decisionale – quando aveva ancora vent’anni, e la sua fama crebbe durante il suo periodo alla Princeton University e al Massachusetts Institute of Technology, dove incontrò Alicia Larde, laureata in fisica. Si sposarono nel 1957. Ma alla fine degli anni ‘50, voci folli nella sua testa iniziarono a sopraffare i suoi pensieri sulla teoria matematica. Sviluppò una terribile malattia mentale. Nash, nei suoi deliri, accusò un matematico di essere entrato nel suo ufficio per rubare le sue idee e iniziò a sentire messaggi alieni. Quando a Nash fu offerta una prestigiosa cattedra all’Università di Chicago, rifiutò perché progettava di diventare l’Imperatore dell’Antartide.
John credeva che tutti gli uomini che indossavano cravatte rosse facessero parte di una cospirazione comunista contro di lui. Nash inviò lettere alle ambasciate di Washington DC, dichiarando che stavano istituendo un governo comunista. I suoi problemi psicologici, inevitabilmente, si riversarono nella sua vita professionale, ciò divenne evidente quando tenne una conferenza dell’American Mathematical Society alla Columbia University nel 1959. Sebbene intendesse presentare una dimostrazione dell’ipotesi di Riemann (teoria sui “numeri primi”), la conferenza risultò incomprensibile. Parlò come un pazzo, i colleghi presenti capirono immediatamente che qualcosa non andava. Fu ricoverato in ospedale, dove gli fu diagnosticata la schizofrenia paranoide. Per molti anni trascorse periodi in ospedali psichiatrici, dove ricevette farmaci antipsicotici e terapia d’urto.
A causa dello stress causato dalla malattia, sua moglie Alicia divorziò da lui nel 1963. Eppure Alicia continuò a sostenerlo durante tutta la malattia. Dopo le sue ultime dimissioni dall’ospedale nel 1970, visse a casa di Alicia come pensionante. Fu in questo periodo che imparò a liberarsi consapevolmente dai suoi deliri paranoici.
“Ero stato ricoverato in ospedale abbastanza a lungo da poter finalmente rinunciare alle mie ipotesi deliranti e tornare a considerarmi un essere umano in circostanze più convenzionali, per poi dedicarmi alla ricerca matematica”, scrisse in seguito Nash di sé.
Alla fine, l’Università di Princeton gli permise di tornare a insegnare. Nel corso degli anni, divenne un matematico di fama mondiale, contribuendo in modo significativo alla sua disciplina. Nel 2001, Alicia decise di risposarsi con il suo primo amore, da cui aveva divorziato. Alicia e John Nash si sposarono per la seconda volta.
Negli ultimi anni entrambi divennero importanti sostenitori dell’assistenza sanitaria mentale nel New Jersey, quando anche al loro figlio John junior  fu diagnosticata la schizofrenia. Nel 1994, John Nash vinse il premio Nobel per l’economia.

Le Equazioni dell’Amore

Nella scena finale del film, Nash riceve il Premio Nobel ed esprime una pensiero memorabile durante la cerimonia, pronunciando le seguenti parole: “Ho sempre creduto nei numeri, nelle equazioni e nella logica che conducono alla ragione. Ma dopo una vita di tali ricerche, mi chiedo: “Che cosa è veramente la logica?” “Chi decide la ragione?” La mia ricerca mi ha portato attraverso il fisico, il metafisico, il delirante… e ritorno. Ma la scoperta più importante della mia carriera, la scoperta più importante della mia vita è che solo nelle misteriose equazioni dell’amore si può trovare una logica o una ragione. Sono qui stasera e solo grazie a te [indicando la moglie Alicia]. Tu sei la ragione per cui esisto, voi siete tutte le mie ragioni. Grazie”.
La folla dopo un tale discorso saltò in piedi, tributando una fragorosa standing ovation al brillante matematico che è stato all’inferno e ritorno un paio di volte. E poi arriva una delle scene più toccanti.

Non C’è Niente di Sbagliato

Subito dopo la cerimonia del Premio Nobel, mentre John sta lasciando la sala, la malattia mentale lo attacca nel modo più crudele e sinistro. Improvvisamente, i suoi deliri lo assalgono e, negli splendidi corridoi di Stoccolma, “vede” gli stessi personaggi che sono stati responsabili della sua distruzione. Improvvisamente “vede” tutti i comunisti che credeva fossero lì per distruggerlo. È un momento potenzialmente tragico, di proporzioni epiche. Ecco un uomo che ha appena vinto il Premio Nobel, che è diventato famoso in tutto il mondo ed è considerato una delle menti più brillanti del secolo. Ecco un uomo in piedi con la sua amata moglie, che si crogiola all’ombra della gloria internazionale. Eppure, proprio in questo momento, il demone della malattia mentale lo colpisce mortalmente, un vero e proprio “rapimento” della mente del povero John Nash.
Sua moglie intuisce che sta succedendo qualcosa; lo vede improvvisamente allontanarsi. Non è più presente nel mondo reale. I suoi occhi sono altrove; il suo corpo è sopraffatto dalla paura. Profondamente addolorata e sotto shock, si volta verso il marito e gli chiede: “Cosa c’è? Cosa c’è che non va?” Si ferma, guarda i personaggi immaginari che vivono nella sua mente tormentata, poi torna a guardarla e con un sorriso sul volto dice: “Niente; niente di niente”. Le prende la mano e se ne vanno.
È un momento di profondo trionfo. Ecco un uomo che in un momento culminante della sua vita viene colpito all’improvviso dalla schizofrenia. Non c’era niente che potesse fare per liberarsene. Era ancora lì; non lo aveva mai abbandonato. Eppure, anche dal suo complicatissimo mondo interiore riuscì a identificare la malattia e quindi a metterla in quarantena. Poteva definirla e contestualizzarla, piuttosto che essere definito da essa. Poteva vederla per quello che era: una malattia mentale malsana, estranea alla sua meravigliosa essenza. No, non ci si libera dalla schizofrenia, ma si può riuscire a definirla, anziché lasciarsi definire da essa. Occorrerebbe essere capaci almeno di identificarla come pensieri che non costituiscono la nostra essenza, perché provengono dalla nostra parte insana.

John Nash riusciva a vedere tutte quelle immagini mentali e a dire a se stesso: “Queste sono forze dentro di me; ma non sono io. È una malattia mentale, e queste voci provengono da una parte di me che è malata. Ma sono al timone della mia vita e ho deciso di non permettere a questi pensieri di prenderne il sopravvento. Continuerò a vivere, continuerò ad amare e a connettermi con mia moglie e con tutto il bene della mia vita, anche se i diavoli nel mio cervello non si zittiscono mai. Non riesco a contare le mie settimane, ma posso contare i miei giorni”.
Nash una volta disse qualcosa di molto toccante su se stesso: “Non avrei avuto buone idee scientifiche se avessi pensato in modo più normale”, riuscendo a trasformare la sua malattia in un vantaggio. Disse anche: “Se mi fossi sentito completamente libero da pressioni, non credo che avrei seguito questo schema”. Vedete, riuscì persino a percepire la benedizione e l’opportunità nella sua lotta, nonostante il prezzo terribile che pagò per esse.
Nash era un eroe nella vita reale. Qui abbiamo un uomo alle prese con una terribile malattia mentale, ma con il tempo, il lavoro e, soprattutto, con amore e sostegno, impara ad affrontarla. Impara che la sua salute non è definita dal chiacchiericcio mentale e da ciò che la sua mente decide di mostrargli in quel momento. Ha imparato che, nonostante tutto, giorno dopo giorno, può essere lui a vivere la sua vita e ad avere il controllo, invece che la malattia a controllare lui.

L’Incidente

Il 23 maggio 2015, John e sua moglie Alicia stavano tornando a casa dopo una visita in Norvegia, dove Nash aveva ricevuto il premio Abel per la matematica dal re Harald V. Aveva organizzato un viaggio in limousine con la moglie all’aeroporto di Newark per portarli a casa a West Windsor, nel New Jersey. L’aereo era atterrato presto, quindi avevano preso un taxi normale per tornare a casa. Erano entrambi seduti in un taxi sulla New Jersey Turnpike. Quando l’autista perse il controllo del veicolo, colpendo un guardrail, John e Alicia furono sbalzati fuori dall’auto e morirono sul colpo. Nash aveva 86 anni, sua moglie 80.

Cosa Possiamo Fare Ora?

Possiamo apprezzare la profondità della legge della Torà riguardo al conteggio dell’Òmer. La ricerca della verità, della guarigione e della perfezione continua in ogni momento e in ogni condizione, anche nelle ore più buie dell’esilio. Pertanto, siamo istruiti a contare non solo i giorni, ma anche le settimane. Abbiamo il dovere di imparare l’autocontrollo e comandare la nostra vita (giorni), ma anche di cercare la completa trasformazione delle “settimane” (Tanya cap. 14).

Ma è qui che Rabbenu Yerucham ci offre un pensiero profondamente confortante. È vero, ai tempi del Tempio Santo, un tempo di grande rivelazione spirituale, la Torà ci istruisce e ci dà il potere di contare sia i giorni che le settimane. In presenza di una consapevolezza spirituale così intensa, vi era anche la capacità di contare le settimane. Tuttavia, oggi, dice Rabbenu Yerucham, non respiriamo la stessa consapevolezza, siamo in esilio e viviamo in un livello di consapevolezza spiritualmente inferiore. Quindi, l’obbligo biblico è quello di contare i giorni, di acquisire il controllo sul nostro comportamento. Contare le settimane, cioè trasformare completamente le nostre emozioni, è solo un obbligo rabbinico, semplicemente per rammentarci che in definitiva c’è un percorso di trasformazione a cui aspiriamo.

In realtà, poiché viviamo oggi in tempi di redenzione, possiamo sperimentare sempre di più la capacità di una guarigione completa, trasformare non solo le nostre giornate, ma anche le nostre settimane e abbandonare per sempre i nostri traumi.

Tratto da un maamar del Rebbe di Lubavitch e da uno scritto di Y. Y. Jacobson

Una coppia di ebrei vinse alla lotteria e decisero immediatamente di iniziare una nuova vita nel lusso. Comprarono una magnifica villa e si circondarono di tutte le ricchezze materiali immaginabili. Poi decisero di assumere anche un maggiordomo.
Trovato il maggiordomo perfetto, tramite un’agenzia, lo riportarono a casa con loro. Il giorno dopo il suo arrivo gli fu ordinato di apparecchiare il tavolo della sala da pranzo per quattro, poiché avevano invitato una coppia, i Cohèn, per pranzo. Usciti di casa per fare qualche spesa, quando tornarono trovarono la tavola apparecchiata per otto. Stupiti, chiesero al maggiordomo perché otto? Non ti abbiamo forse chiesto di apparecchiare per quattro?
Il maggiordomo rispose: “I Cohèn hanno telefonato e hanno detto che avrebbero portato con loro i “Blintze e i Knish” (due piatti tradizionali ebraici).

Il Matrimonio del Sommo Sacerdote
Un contrasto sorprendente, che fa riflettere riguardo alla natura della psiche umana e cattura la nostra immaginazione, lo troviamo nella porzione della Torà di questa settimana, Emòr. La Torà proibisce a un semplice Cohèn, un sacerdote (tutti i discendenti di Aronne), di sposare una donna divorziata. Vieta inoltre a un Cohèn Gadòl, un Sommo Sacerdote, di sposare una divorziata e una vedova (Vayikrà/Levitico 21, 7).

FORZA ATTRATTIVA DELLA DONNA
Tra una Visione di Dio e una Montagna di Polvere

Ora, si può forse dare un senso al precedente divieto, quello della divorziata: poiché un sacerdote serviva come agente spirituale del popolo ebraico nel servizio divino, gli veniva richiesto di vivere una vita di completa innocenza e purezza. Pertanto, la Torà non voleva che sposasse una persona coinvolta in un divorzio, responsabile o meno della sua conclusione.
Tuttavia, è difficile spiegare il motivo per cui un Sommo Sacerdote non poteva sposare una vedova. Cosa c’è nella morte di suo marito che la rende non idonea a godere di una relazione benedetta con un Sommo Sacerdote?
A questa domanda sono state date diverse risposte (ad esempio Shèfer Hakhinùkh Parashà Emòr). In questo saggio ci limitiamo a condividere con voi una risposta che ho sempre trovato estremamente inquietante, ma allo stesso tempo confortante, poiché dimostra come l’ebraismo non si nasconde mai (a differenza di altre fedi), evitando di dare delle risposte, anche di fronte alle profonde lotte contro i “demoni” interiori che ogni essere umano deve affrontare nella sua vita.

Abuso del Potere Spirituale
Rabbi Chaìm Yossèf Davìd Azulai, fu un saggio e mistico del XVIII secolo, conosciuto in breve come Chida, autore di oltre 50 volumi sul pensiero della Torà, fu uno dei grandi luminari del suo tempo. Egli presenta la seguente interpretazione in nome del grande saggio pietista ebreo del XII secolo, Rabbi Yehudà Hachassid (vissuto a Ratisbona, Germania) che fu l’autore del famoso Shèfer Chassidìm, conosciuto come uno dei più grandi cabalisti e autorità halakhica del suo tempo.
Secondo questa interpretazione, quindi, al Sommo Sacerdote d’Israele furono conferiti molti grandi poteri spirituali. Il più importante di questi era il suo dovere nel giorno più sacro dell’anno, Yom Kippur, di entrare nel Sancta Sanctorum del Tempio, un luogo dove a nessun altro ebreo vivente fu mai permesso di entrare.
In quel giorno molto particolare, il Sommo Sacerdote pronunciava il segreto Nome di Dio di ben 72 lettere, che conteneva poteri molto profondi, tanto che i Saggi cessarono intenzionalmente di citare e insegnare quel Nome durante il periodo della conquista romana di Gerusalemme, e da allora è stato dimenticato.
Ora, tutto questo cosa c’entra con il divieto imposto dalla Torà al Sommo Sacerdote di sposare una vedova? La risposta è che la Torà teme che egli potesse invaghirsi di una particolare donna sposata e, quindi, non potendola prendere in moglie, dato che era già sposata, avrebbe potuto commettere un abuso: ossia, che durante lo Yom Kippur avrebbe potuto utilizzare il Nome ineffabile di Dio di 72 lettere per ottenere un decreto di morte sul marito di lei. Così sarebbe stato libero di sposare la vedova da lui tanto desiderata.
Pertanto, secondo questa interessante, quanto incredibile, interpretazione è proprio a causa di questa preoccupazione che la Torà comanda che un Sommo Sacerdote non possa sposare una vedova. Anche se riuscisse a liberarsi del marito, non potrebbe mai sposarne la moglie. È come se la Torà dicesse al Sommo Sacerdote: “Non ci provare neanche, questo pensiero insano non ti porterà da nessuna parte”.
Tuttavia il solo pensiero di una simile tentazione per un uomo come il Sommo Sacerdote è a dir poco scioccante! Nel giorno più santo dell’anno, nel luogo più santo della terra, si teme che l’uomo designato a servire nella più alta posizione spirituale del popolo santo, mentre pronuncia le sillabe più sante del mondo, possa nutrire il desiderio di eliminare un uomo innocente al solo fine di sposarne la moglie! Come può essere possibile tutto ciò?

Altezze Angeliche
Ora, confrontiamo questo con un’altra affermazione della Torà riguardante l’ingresso del Sommo Sacerdote nel Santuario durante lo Yom Kippur, anch’essa tratta dal libro del Levitico:
“Nessun essere umano sarà nella tenda del convegno quando egli [il Sommo Sacerdote] verrà a compiere l’espiazione nel Santuario, fino alla sua partenza (Vayikrà 16, 17).” Non solo non erano ammessi “Blintz e Knish” durante il servizio dello Yom Kippur, ma nemmeno un semplice Cohèn o qualsiasi altra persona poteva essere presente in quel sacro momento.
Il Midràsh (Rabbà), nella sua sensibilità alle sfumature dei testi sacri, si chiede come può la Torà affermare che nessun essere umano doveva essere presente al momento del servizio del Sommo Sacerdote nello Yom Kippur, quando il Sommo Sacerdote stesso era un essere un uomo quindi gli era vietato entrare? Il Midràsh risponde che quando il Sommo Sacerdote entrava nel Santo dei Santi non era veramente umano, poiché assumeva lo status di un Angelo Celeste. Nessun essere umano, infatti, entrò con lui nel Santuario; ossia nemmeno lui era presente come umano.
Che cosa sta succedendo qui? Ci troviamo di fronte ad una contraddizione scomoda. Una fonte indica la potenziale sconcertante bassezza di un Sommo Sacerdote, capace di scendere nelle profondità più basse del comportamento umano; mentre un’altra fonte suggerisce come il suo potenziale spirituale fosse in grado di farlo giungere ad altezze spirituali tali da fargli trascendere l’esperienza umana stessa e raggiungere altezze angeliche. Come è possibile conciliare queste due visioni espresse dalla Torà? Chi è il Sommo Sacerdote, il più “santo dei santi” oppure il più “infimo degli infimi”?

Polvere e Immagine
Eppure è qui che incontriamo, ancora una volta, la commovente prospettiva dell’ebraismo sulla natura dell’essere umano. Ci sono due modi in cui la Torà parla della creazione dell’uomo. Nel primo capitolo di Bereshìt l’uomo viene descritto come “creato a immagine e somiglianza di Dio”. Nel secondo capitolo l’uomo viene descritto come formato dalla “polvere della terra”. Insieme, “immagine e polvere” esprimono le polarità della natura dell’uomo: un essere formato dalla materia più inferiore che esiste, e allo stesso tempo formato dall’immagine più superiore in assoluto.
L’autore della vita e dell’umanità, Hashèm, sapeva e sa benissimo che la sessualità tiene prigionieri gli uomini, sia preti che laici, nella sua morsa enormemente potente. Anche il più grande degli uomini è capace di cadere preda della sua epocale tentazione, magari solo per qualche secondo, ma comunque un tempo sufficiente per pronunciare il nome di Dio con intenzioni non buone. Quindi, perfino un Sommo Sacerdote, nel giorno più sacro dell’anno, nello spazio più sacro del mondo, mentre pronuncia la parola più santa del mondo, è capace di pensare a cose grottesche come, nel nostro caso, “buttare un uomo fuori strada” in modo da poter “mettere le mani” sulla sua donna. L’ebraismo è sempre stato profondamente sensibile a una scomoda “verità”, ossia che ogni essere umano ha un demone in agguato dentro di sé. Se non lo sfidi e non lo domi ogni giorno, può trasformarti in un mostro, capace di ogni bruttezza nelle circostanze più impreviste.
Ma l’Autore della vita sa anche che l’essere umano, da Lui creato, è capace di una grandezza incredibile. Essendo l’anima dell’uomo un “frammento di Dio”, è capace di generare infinita bontà e di incontrare dentro di sé infinita purezza. Come disse una volta il professor Avrahàm Yoshuà Heschel, un rampollo dei grandi maestri chassidici: “L’uomo è una polarità fatta da un’immagine divina e da polvere senza valore. È una dualità di misteriosa grandezza e pomposa aridità, allo stesso tempo, una visione di Dio e una montagna di polvere. È a causa del suo essere polvere che le sue iniquità possono essere perdonate, ed è a causa del suo essere un’immagine divina che ci si aspetta la sua santità”.

Quindi, la prossima volta che rischiamo di essere sopraffatti da desideri, dipendenze, tentazioni e qualsiasi sentimento negativo, non cadiamo nella disperazione. Ricordiamoci che non siamo peggiori del Sommo Sacerdote d’Israele! Anche noi dobbiamo lottare e possiamo vincere contro orribili demoni. Ma, nonostante ciò, possiamo entrare comunque nel Santo dei Santi.

Sta a ciascuno di noi definire chi siamo, il resto diventerà una profezia che si auto avvera.
L’importante è avere la consapevolezza che siamo venuti al mondo per aggiustare il nostro corpo (l’anima no ha bisogno di essere rettificata) e di conseguenza raffinare il mondo ed elevarlo. Questo è lo scopo della nostra esistenza, combattere i nostri istinti per vincerli sempre.
Come il famoso detto comunista degli anni Sessanta, ma che in realt origina dalla prima parte del Tanya: la nostra vita è UNA LOTTA CONTINUA!

Tratto da uno scritto di Y. Y. Jacobson basato sugli insegnamenti del Rebbe di Lubavitch

 

HO VISTO UN RE, SA l’HA VIST CUS’È’?
Anche oggi vi proponiamo un estratto del libro “Saggezza Quotidiana”, edito da Mamash. Attraverso gli
insegnamenti cassidici del Rebbe e dei suoi predecessori, questo libro è una vera e propria guida alla lettura e
comprensione della Torà settimanale.
Uno dei principali argomenti del brano scelto per voi è quello che sottolinea l’importanza dello Shabbàt. Tanto
che, se una festa importante come Rosh Hashanà cade di Shabbàt, si “sospende” il precetto della Torà di
suonare il mistico shofàr.
Come spiegato, questo suono, generato dal corno delle shofàr ha, tra le altre, la funzione di risvegliare
nell’ascoltare il timore di Hashèm, nel senso di riuscire a far percepire e introiettare in se stessi il fatto che
l’unico e vero Re esistente in noi e fuori di noi è Hashèm.
Tuttavia, perché di Shabbàt non vi sarebbe questa esigenza? La risposta la troviamo nel fatto che durante il
settimo giorno avviene un evento straordinario. Un tipo di “miracolo” che necessita di una preparazione da
parte nostra per essere percepito pienamente, almeno solo in parte. Alcune persone particolarmente pie e
collegate ad Hashèm non fanno fatica a “vedere” e “sentire” la diversità del settimo giorno, rispetto agli altri,
ma per la maggior parte di noi invece non è così.
Il “miracolo in questione è che durante Shabbàt, Hashèm ha deciso, fin dagli albori della creazione, di “svelarsi”
maggiormente rispetto agli altri giorni. Questo significa che, se rispettiamo le numerose e precise “regole”,
stabilite dalla Torà per questo giorno, anche noi possiamo percepire, magari solo in parte, questa rivelazione
aumentata della presenza di Hashèm nel mondo. Per tale motivo non vi sarebbe il bisogno di un qualcosa che
ci aiuti, come lo Shofàr. L’altissima rivelazione dello Shabbàt, di per sé, ci rende in grado di percepire la
regalità di Hashèm. Per utilizzare una metafora, durante lo Shabbàt è come se il Re si facesse vedere, quindi
il “suddito” che vede il Re non ha bisogno di “ricordarsi” (tramite il suono dello shofàr) chi è il Vero Re del
mondo, chi governa sopra e dentro di noi.
*
Il Sacerdozio; le Festività
L’ottava sezione del libro di Levitico inizia con Hashèm che ordina a Moshè di “dire” (emòr, in ebraico) ai
sacerdoti anziani di educare i sacerdoti più giovani, riguardo alle leggi del sacerdozio. In seguito, Hashèm
insegna a Moshè queste leggi e quelle riguardanti tutte le festività dell’anno.
*
Pèssakh è seguita, dopo sette settimane, dalla festa di Shavu’òt [“Settimane” in ebraico]. Anche, se i mesi
dell’anno ebraico sono numerati da Nissàn, gli anni sono contati dall’inizio del primo giorno di Tishrè, il
settimo mese. Il primo di Tishrè è quindi Rosh Hashanà, “il capo dell’anno”. Questa festa è scandita dal suono
dello shofàr, il corno d’ariete, tranne quando cade di Shabbàt.
Le Altezze Spirituali dello Shabbàt
[Hashèm disse a Moshè] «Il primo [giorno] del mese [di Tishrè] sarà … un ricordo del suono dello shofàr».
(23, 24)
Il suono dello shofàr, nel primo giorno dell’anno, suscita la nuova energia divina che sosterrà tutta la creazione,
spirituale e fisica, per quell’anno. Tuttavia, quando Rosh Hashanà coincide con Shabbàt, lo shofàr non viene
suonato e noi lo “ricordiamo” menzionandolo nelle nostre preghiere.
Questo, perché soffiare lo shofàr a Shabbàt non è solo superfluo, ma inutile. La sovranità di Hashèm su di noi
è il tema principale di Rosh Hashanà. Il suono dello shofàr, in occasione della Sua “incoronazione”, è la
dichiarazione della nostra sottomissione rinnovata, disinteressata e volontaria alla Sua sovranità.
La necessità di una dichiarazione simile, tuttavia implica, che siamo consapevoli di noi stessi come esseri
indipendenti, che devono sottostare a Lui intenzionalmente. Tale consapevolezza intima caratterizza la nostra
coscienza nei giorni feriali. Tuttavia, nel giorno dello Shabbàt, quando siamo intrinsecamente assorbiti nella
nostra accresciuta consapevolezza di Hashèm, una dichiarazione simile sarebbe un’offesa allo Shabbàt.

Alcuni chiedono: perché dovremmo” tremare nei mondi “e parlare continuamente della venuta del Messia? L’Onnipotente dovrebbe ben sapere quando portare il Redentore, quando lo ritiene opportuno.

Una risposta a questo dovrebbe essere appresa dalla Pessakh Sheni la seconda Pasqua.
Questo comandamento fu dato per quelli del popolo ebraico che per vari motivi (“erano in un luogo distante” o “impuro per l’anima”) non potevano rispettare il sacrificio della Pasqua. Tuttavia, queste persone non “si arresero”, ma insistettero e fecero richiesta all’Onnipotente per osservare il comandamento. Come risultato per questa determinazione fu stabilito un nuovo precetto, quello della Seconda Pasqua.

Lo stesso vale per noi:
Al tempo dell’esilio, quando il popolo d’Israèl è “in un luogo distante” e al livello spirituale “dell’anima impura”, deve reclamare con tenacia e chiedere a Dio: “Perché non possiamo offrire il sacrificio del Signore?”
“Vogliamo già avere la vera e completa redenzione e il Tempio, subito !”

(Da una Sikhà del Rebbe)

PICCOLO VIDEO DEL REBBE SPIEGA PESSAKH SHENI sottotitoli in italiano
https://www.facebook.com/shlomo.bekhor/posts/10158198710295540

Ti riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.

Shabbat Shalom

Rav Shlomo Bekhor

Il mio portale delle email è saltato e sto cercando di ripartire con un altro portale e ho raccolto alcune email ma ne mancano ancora tante.
Se la email in uso non è aggiornata prego di comunicarmi.
Se si conoscono delle persone che la vogliono ricevere per favore di farmelo sapere o registrarsi al link in basso.
Se non desideri ricevere la riflessione sulla Torà della settimana provvederò a disinserirti  dalla mia email (che mando anche via whatsapp e FaceBook: https://www.facebook.com/shlomo.bekhor).

Il periodo dell’Omer rappresenta l’impazienza di ricevere la Torà, come un prigioniero che aspetta con desiderio di conoscere la sua sposa per 49 giorni. Perciò durante questi 49 giorni ognuno di noi ha il potere e la forza di lavorare su se stesso, elevando la sua anima per mezzo dei 49 attributi che sono innati in noi ed essere pronto così a ricevere la sua sposa il giorno di Shavuot.
Domani leggiamo nella Torà proprio la mitzvà dell’offerta del’Omer e l’ordine di contare i giorni tra Pessakh e Shavuot.
Contare in ebraico vuole dire anche illuminare i giorni ovvero illuminare i nostri 49 attributi.
Questa settimana ho fatto una lezione sulla sefira dell’Omer molto interessante che si può sentire al seguente link:
Qui sotto trovi quella di stasera e domani sera.
Ogni giorno pubblico il significato della sefirà di quel giorno da raffinare su Facebook. Qui un post di questa settimana molto interessante:
C’è VITA su MARTE?
O c’è VITA intellignte sulla TERRA?

Una VITA ben spesa, LUNGA è!
Leonardo Da Vinci

Se vuoi ricevere anche gli altri direttamente posso mandare anche via email o Whatsapp.
Ti riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it sulla parashà.
Un caloroso Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor
EMOR
Al seguente link trovi la lezione sulla nostra parashà di EMOR molto interessante in formato mp3:
dal seguente link si scarica il file audio immediatamente, senza aprire la pagina web: 

MORTE, HANDICAP, PROBLEMI PSICHICI, STRESS ECONOMICO, INSICUREZZA!

Come le 5 festività ci illuminano nelle 5 grandi sfide della vita!

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Per sentire le altre lezioni sulla parashà:
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SEFIRAT HAOMER: 28° giorno
Ventottesimo giorno dell’Omer
4 settimane
MALKHÙT in NÈTZAKH – REGALITÀ nella DETERMINAZIONE
13 di Iyar – venerdì sera 17 Maggio
28°giorno: questa sera Hashèm ci dota la capacità di innalzare l’ultimo aspetto di Nètzakh, la Regalità nella Determinazione.
Nètzakh è l’attributo che ci consente di perseverare e vincere le sfide della vita.
Malkhùt è la capacità di comunicare, organizzare e comandare. Tutte doti che si devono coniugare alla fiducia e dignità verso noi stessi e verso gli altri.
L’unione di queste due Sefiròt rende capaci di perseverare in modo organizzato e comunicativo: il più grande progetto, se non organizzato bene e promosso con il giusto marketing, non riceve il successo che merita. In negativo la spinta di Nètzakh può renderci eccessivamente impetuosi, nel perseguire un progetto, e quindi poco organizzati.
Inoltre Malkhùt in Nètzakh consente di perseverare con autostima, e quindi di capire il proprio ruolo nel mondo senza farsi intimidire dalle difficoltà.
Un’esemplare Regalità nella Perseveranza, la possiamo trovare nella figura stessa del mio Maestro il Rebbe di Lubàvitch:
il Rebbe, Menachem Mendel Schneerson, il settimo leader della dinastia Chabad, è uno dei più grandi leader che il popolo ebraico abbia avuto negli ultimi secoli.
Lui è riuscito a coniugare eccezionali doti di leadership, capacità di comunicazione e di organizzazione, fondando istituzioni chassidiche a fini educativi, sociali e culturali. Inoltre, sotto la sua guida, sono sorte centinaia di scuole e centri di Torà, in ogni parte del mondo e migliaia discepoli sono stati inviati come emissari.
QUESTI RISULTATI NON FURONO CERTO REGALATI! Fin dall’inizio le idee “profetiche” e controcorrente del Rebbe furono osteggiate e derise da molti. Grazie alla sua tenace convinzione (nètzakh) di agire per una missione divina, che trascendeva la sua volontà e i suoi bisogni, il Rebbe, piano piano, ma costantemente, convinse e acquistò sempre più la stima degli scettici in tutto il mondo (malkhùt in nètzakh). Centinaia di migliaia di fedeli e milioni di simpatizzanti, lo consideravano e tutt’ora lo considerano, come “il Rebbe”: l’uomo responsabile di aver risvegliato la coscienza e la consapevolezza dell’Ebraismo, dopo l’inferno della Shoà.
Una forte autostima, la capacità di comunicare e il rispetto per la dignità degli altri (malkhùt), sono qualità fondamentali per superare ogni ostacolo con successo (nètzakh).
Riflessione:
nonostante la vita mi porti a correre molto riesco a rimanere consapevole del mio ruolo nel mondo e non perdere la mia dignità? Riesco a coniugare nel lavoro tenacia con una buona organizzazione?
Esercizio:
perseguire con determinazione (nètzakh) i bisogni familiari, ma senza comunicare con la dolce metà, vuole dire mancare di Regalità (malkhùt). Nel 28° attributo scopriamo la forza di vincere le nostre sfide con comunicatività (malkhùt in nètzakh).

SEFIRAT HAOMER: 29° giorno

Ventinovesimo giorno dell’Omer
4 settimane e 1 giorno
KHESSÈD in HOD – BENEVOLENZA nell’UMILTÀ
14 di Iyar – sabato sera 18 Maggio
29° giorno: stasera iniziamo la costruzione del QUINTO piano del “palazzo” della nostra formazione. Da stasera abbiamo la facoltà di illuminare la prima faccia dellUmiltà che è la Bontà.
Questa è la settimana di HOD – SPLENDORE che cade sempre in occasione di due ricorrenze: la festa di Pèssakh Shenì (la luce di Pessakh in forma elevata) e nell’anniversario di Rabbi Mèir baal hanes (il nome Meir significa luce).
Hod, letteralmente “Splendore” rappresenta l’attributo dell’umiltà: solo chi è umile davanti ad Hashèm, può riflettere il Suo vero splendore e quello dell’anima.
Hod significa anche ringraziamento inteso come lehodòt – ringraziare (essere grati): essere riconoscenti ad Hashèm per tutto quello che abbiamo; in quanto tutto ciò che possediamo non ci appartiene realmente.
Tramite questa Sefirà ci svuotiamo del nostro ego e creiamo lo spazio per far scendere in noi la grazia divina che permette di uscire dalle limitazioni umane.
Khèssed è l’attributo dell’Amore, Passione che ci spinge a dare, sempre e comunque, poiché si considera i desideri del prossimo, come se fossero i nostri.
Con Khèssed in Hod, impariamo a mettere al servizio dell’umiltà l’entusiasmo dell’Amore. Questo permette alla nostra umiltà di proiettarsi all’esterno con vitalità.
Un’umiltà sana non deve demoralizzare, bensì portare amore e gioia. L’umiltà che manca dell’amore è spenta.
Una storia talmudica può aiutarci a capire meglio:
Prima della distruzione del secondo tempio, viveva un grande Tzaddik chiamato El’azàr ish birta che era molto, ma molto povero! Era conosciuto da tutti per due grandi qualità: l’umiltà e la benevolenza verso il prossimo. Un giorno la moglie dello Tzaddik gli dice, perentoriamente, che la loro unica figlia doveva sposarsi e che serviva urgentemente la dote per il matrimonio.
L’uomo non si scompose, prese una piccola borsa, con i pochi risparmi, e andò al mercato della città. Lì scorse gli addetti alla tzedakà che cercavano, in tutti i modi, di non farsi vedere da lui, poiché sapevano che lo Tzaddik era tanto povero quanto generoso, ma oramai era troppo tardi!
Elazar in un attimo fu davanti a loro e gli chiese per quale giusta causa raccogliessero i soldi. Essi risposero che era per il matrimonio di due orfani. Lui allora disse: “Giuro su Dio che questa cosa è più importante del matrimonio di mia figlia!”. Detto fatto, prese tutta la borsa dei soldi e la diede ai responsabili.
Per non tornare a mani vuote il povero Tzaddik continuò comunque il suo giro al mercato e comprò qualche chicco di grano. Arrivato a casa, mise questi pochi chicchi nel suo piccolo deposito per il grano, completamente vuoto. L’indomani la figlia, con il viso pieno di gioia, corse a ringraziare il padre per tutto quel grano. Miracolosamente, durante la notte, il deposito del grano strabordò tanto da non riuscire ad aprire la porta.
Lo Tzaddik guardò sua figlia con affetto e gli diede un grande insegnamento di Umiltà: “prendi solo la parte minimale che ti serve il resto spetta ai poveri, poiché è detto che una persona retta non deve trarre vantaggi da un miracolo!”.
Il grande Tzaddik, nonostante la sua umile povertà (hod), agiva senza paura verso i bisognosi e con amore dava in tzedakà quel poco che possedeva (khèssed). Conscio del fatto che tutto ciò che abbiamo in realtà appartiene a Dio, era umile nel farsi tramite dell’amore di Hashèm per il bene della società (khèssed in hod).
Riflessione:
la mia umiltà permette di amare di più, oppure mi inibisce e blocca?
Esercizio:
siamo sempre disposti a metterci da parte e ci facciamo piccoli, quando dobbiamo aiutare un amico, poiché siamo consapevoli che tutto in fondo viene da Dio. Tuttavia, annullando eccessivamente noi stessi, appariamo agli occhi degli altri, come freddi e indecisi. Riempiamo la nostra umiltà con un amore caldo e vitale, facciamo si che la generosità (khèssed) trasformi la nostra umiltà (hod) in una protagonista, per noi e il prossimo.

La porzione di Torà di Emor (Levitico 21:1–24:23) si apre con le leggi speciali relative ai Kohanim (“sacerdoti”), il Kohen Gadol (“Sommo Sacerdote”), e il servizio nel Tempio: un Kohen non può diventare ritualmente impuro attraverso il contatto con un corpo morto, salvo nel caso della morte di un parente stretto; un Kohen non può sposare una donna divorziata; un Kohen Gadol può sposare solo una vergine. Un Kohen con una deformità fisica non può servire nel tempio santo, né un animale deforme può essere portato in offerta.
Un neonato di vitello, agnello o capretto deve essere lasciato con sua madre per sette giorni prima di poterlo portare in offerta; non si può macellare un animale e la sua discendenza lo stesso giorno.
La seconda parte di Emor elenca le principali ricorrenze festive del calendario ebraico: lo Shabbat settimanale, la settimana di Pessakh, l’offerta del primo raccolto d’orzo da portare nel secondo giorno di Pessakh e l’inizio del conteggio dei 49 giorni dell’Omer che culmina con la festa di Shavuot nel 50° giorno, il digiuno del 10 di Tevet e Sukkot.
La parashà prosegue con la descrizione dell’illuminazione della menorah nel Tempio, e l’offerta settimanale del pane (hapanim lechem).
Emor si conclude presentando il caso di un uomo giustiziato per blasfemia, e descrivendo le sanzioni per l’omicidio o la distruzione della proprietà altrui (rimborso monetario).

EMOR 5771 – 3 MATRIMONI: PECORA, TORO E GEMELLI
Il segreto per creare la pace tra le varie culture

EMOR 5770 – LA MELA NON CADE LONTANO DALL’ALBERO!
Qual è il sistema sul quale si basa il mondo?

EMOR 5769 – MORTE, HANDICAP, PROBLEMI PSICHICI, STRESS ECONOMICO, INSICUREZZA!
Come le 5 festività ci illuminano nelle 5 grandi sfide della vita!

EMOR 5765 – LE FESTE EBRAICHE E I 49 GIORNI DELL’OMER
Le festività ebraiche, lo Shabbat, il conteggio dell’Omer e il Pirkè Avot.

Emor 5766 – 2006 – COSA PERDONA IL KIPPUR?
La parasha di questa settimana ci parla di tutte le feste che scandiscono il calendario ebraico. Nel parlarci delle feste ci ricorda alcune delle loro caratteristiche.
Ecco quindi che a Kippur si può chiedere ad Hashem di perdonarci le colpe che abbiamo commesso nell’osservanza dei suoi precetti, ma non possiamo aspettarci da lui il perdono per le i torti verso i nostri simili. Solo il colpito dal torto pu? perdonare.

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