SHEMOT 5784: 9 LEZIONI
Questo Shabbàt 6 Gennaio 2024, 25 del mese di Tevèt 5784 leggeremo la Parashà di Shemòt Esodo 1, 1-6, 1.
Si legge l’Haftarà di:
Italiani/Sefarditi: Geremia 1, 1-2, 3
Ashkenaziti: Isaia 27, 6-28, 13; 29, 22-23
La Parashà di Shemòt è composta da 124 versetti.
La Parashà di Shemòt non contiene alcun precetto.
Quando il presidente americano Dwight Eisenhower incontrò il primo ministro israeliano David Ben-Gurion, il primo disse: “È molto difficile essere il presidente di 170 milioni di persone”. Ben-Gurion rispose: “È più difficile essere il primo ministro di 2 milioni di primi ministri…”.
Oppure!
Due uomini ebrei nella Russia zarista venivano condotti all’aperto per essere fucilati. Uno era un umile sarto, l’altro un selvaggio anarchico. Mentre l’ufficiale zarista, incaricato del plotone di esecuzione, cercava di mettere una benda sugli occhi dell’anarchico oramai condannato, il giovane ebreo reagì, dicendo coraggiosamente ad alta voce: “Affronterò la morte guardandola in faccia!”. Il sarto, allarmato da tanto clamore, disse al giovane anarchico: “Per favore, cerca di non creare problemi!”.
IL VERO SIGNIFICATO DI LIBERTÀ
Cosa Serve Per Crescere?
“Ci vuole un villaggio per crescere un bambino”, dice un vecchio detto, poiché nessun uomo è un’isola! Cresciamo tutti all’interno di una comunità da cui siamo modellati. Il nostro ambiente di fatto crea le nostre identità! Chi di noi non ricorda con affetto qualche personaggio particolare dell’infanzia da cui abbiamo imparato tanto? “L’eccentrico zio”, il “vicino un po’ pazzo”, “la santa nonna” o “l’insegnante severo”. Ognuno dei quali ha lasciato impressioni sulla nostra psiche e ha influenzato il nostro modo di affrontare il mondo che ci circonda.
Certamente “ci vuole un villaggio per crescere un bambino”, anche per chi conduce una vita ebraica. L’ebraismo è una religione fondata sulla famiglia e sulla comunità, con i suoi peculiari momenti e personaggi: la Pasqua ebraica con tutta la famiglia, il Bar Mitzvà di nostro figlio, l’umorismo tagliente del nostro rabbino o l’insegnante acuto e intelligente, il nostro amico sempre più “furbo di noi”. Tutto questo ci ha conferito l’interpretazione della nostra identità, assorbendo la cultura, l’eredità, la fede, la visione del mondo dall’ambiente dove siamo cresciuti. Non bisogna mai sottovalutare il potere e la capacità delle tradizioni. Quante nonne hanno trasmesso il loro amore e la loro saggezza alle generazioni successive?
Dove Può Crescere Un Redentore, Profeta e Guida?
Eppure, Mosè – la più grande guida politica e spirituale che sia mai esistita per il popolo ebraico, il più grande profeta e insegnante, l’interprete e il messaggero per eccellenza di Hashèm per rivelare la Torà nel mondo – è cresciuto senza avere accanto a sé genitori, una famiglia e un ambiente ebraico. Mosè è cresciuto in un ambiente completamente immerso nella corrotta cultura egiziana di allora. Un ambiente più lontano e antitetico dei valori della Torà e dell’ebraismo era forse impossibile da trovare!
Come se tutto questo non bastasse, ancora più incredibile è il fatto che Mosè è cresciuto nel palazzo del Faraone! Il monarca della superpotenza dell’epoca, il tiranno che ha cercato sistematicamente di sterminare il popolo ebraico. Come se in quest’era moderna un grande redentore e maestro di Israele fosse cresciuto e si manifestasse nella casa di uno Stalin o di un Hitler! Perché tutto questo? Quale è il significato, nascosto?
Come Diventare Un Presidente
Certo tuti noi conosciamo i dettagli più importanti di come Moshè sia finito in una casa simile: Batyà, la figlia del faraone, andò a fare il bagno nel fiume Nilo e lì trovò una cesta con dentro un bambino. Recuperò il cestino, salvò il bambino e lo allevò come un figlio. L’immaginazione di Hashèm è “infinitamente fertile”, ma certamente avrebbe potuto organizzare il tutto senza “scomodare” la figlia del faraone, per accogliere il bambino. O non sarebbe stato ancora meglio che, in qualche modo, Mosè fosse rimasto tra la sua famiglia e il suo popolo, assorbendo l’energia e l’ideologia del popolo ebraico?
La Costituzione americana impone alcune restrizioni per coloro che possono essere ammessi all’Ufficio del Presidente degli Stati Uniti. Essa, in sostanza, stabilisce che nessuno al di fuori di un cittadino nato nel territorio degli Stati Uniti sia eleggibile come Presidente degli USA!
C’è una logica ferrea in questa legge. Per essere un leader adeguato, occorre essere come una “pianticella cresciuta in casa”, ossia un leader deve essere cresciuto tra la gente, il popolo della nazione che vuole guidare, in modo da poter veramente comprendere “la gente”.
Quindi torniamo alla nostra domanda iniziale: perché, proprio a Mosè, che cresce lontano dalle sofferenze del popolo, è “toccato in sorte” di redimere il popolo?
Le Risposte Di Un Povero Ricco
La domanda è stata sollevata anche da uno dei più importanti studiosi ebrei del Medioevo, il rabbino Avrahàm Ibn Ezra, che visse nel XII secolo in Spagna. Era un saggio, un filosofo, un medico, un astronomo, un astrologo, un poeta, un linguista e un matematico. Ha scritto un commento sulla Torà che è studiato anche oggi.
Il rabbino Abraham Ibn Ezra è nato a Toledo, in Spagna, ma ha trascorso gran parte della sua vita girovagando da un paese all’altro, sempre irrequieto, alla ricerca di conoscenza, insegnando agli studenti e vivendo sempre in grande povertà. A tal punto che in uno dei suoi scritti afferma ironicamente che nella sua vita le stelle cambiano il loro corso naturale per portargli sfortuna, al punto che se avesse deciso di vendere candele il sole non sarebbe mai tramontato, e se avesse deciso di vendere sudari, le persone non sarebbero più morte. Ma su quale idea, su quale pensiero il grande studioso fondava la sua non facile esistenza? “I pensieri di Dio sono profondi e misteriosi, chi può cogliere il Suo segreto? Solo Dio comprende i Suoi schemi”. Questo scritto è un vero e proprio esempio di “ebraismo 2.0”! La prima risposta che noi tutti spesso ci diamo è: “Non capiamo, perché accade questo?”. Perché Mosè dovette crescere nel seno del faraone? La risposta corretta sarebbe: “Non lo so! Poiché è un desiderio di Hashèm!”.
Ma, ovviamente, non bisogna fermarsi qui! Ibn Ezrà continua a dare due potenti risposte speculative sul perché Dio abbia voluto questa trama:
Risposta N. 1: “Mantenere Le Distanze”
La prima risposta è un commento un po’ satirico sulla cultura ebraica che rimane valido fino a oggi. Se Mosè fosse cresciuto tra gli ebrei, non avrebbe mai ottenuto il rispetto e il timore reverenziale di cui aveva bisogno per condurli alla redenzione e modellarli in grandezza. Se Mosè fosse cresciuto in una scuola ebraica, Yeshivà, nella comunità, ci sarebbero sempre stato qualcuno che, dopo un suo discorso, sarebbe andato da lui a dirgli: “Ehi Mosè, ci mancano i giorni in cui giocavi a calcio con noi là fuori? Quando sei diventato così serio?”.
E quando sarebbe sceso dal Sinai con la Divina Torà, ci sarebbe sempre stata una nonna anziana, che gli avrebbe detto: “Ti ricordo come un bambino nella tua culla. Oh, non smettevi mai di piangere, ma eri così carino. Oggi sei un omone grande e grosso. Ma devo dirtelo, sei ancora così carino!”.
Quando si cresce con delle persone fin dall’infanzia, è difficile per loro accettare veramente l’autorità di un loro “ex compagno di giochi” anche se la meriterebbe pienamente. “Non è possibile essere un profeta nella tua città”, questa antica espressione è sempre valida e attuale.
Quindi, secondo questo punto di vista Hashèm ha fatto crescere Mosè lontano da suo popolo, poiché la distanza era necessaria affinché Mosè diventasse ciò di cui il popolo ebraico aveva veramente bisogno: un leader forte e autorevole.
Risposta N. 2: “Un Atteggiamento Maestoso”
Ora Ibn Ezra fornisce una seconda spiegazione: ossia, forse Dio ha fatto crescere Mosè nella casa della famiglia reale, in modo che la sua anima fosse abituata a un comportamento fiero, consapevole e regale. Senza lasciarsi intimidire, abbattere o demoralizzare dal fatto di vivere in una casa di schiavi. Mosè non esitò a uccidere un egiziano che commetteva un atto criminale contro un ebreo picchiandolo a morte, e non esitò ad affrontare dei pastori turbolenti per salvare delle ragazze a Midyàn, pur essendo allora un fuggiasco, una specie di profugo.
Questo, poiché la maledizione dell’esilio egiziano consisteva non solo nel lavoro fisico degli schiavi e nell’orribile oppressione, ma inculcò in Israèl una mentalità simile all’esilio. Molti, infatti hanno imparato a vedere la loro miseria come una realtà intrinseca e immutabile, una sorta di rassegnazione totale. Abusi e crudeltà ripetute, dopo tanti decenni, rischiano di abituare una persona all’oscurità e di farle smettere di percepire l’ingiusto e anomalo degrado della situazione in cui si trova.
Ecco perché il redentore di Israele doveva crescere nel palazzo egiziano, non tra il suo stesso popolo. Se Mosè fosse cresciuto tra gli schiavi ebrei, anche lui avrebbe potuto soffrire di una “mentalità da schiavo”, privandolo del coraggio di combattere l’ingiustizia e della capacità di plasmare una tribù schiava in un grande popolo capace di migliorare il mondo. Forse non avrebbe trovato in sé stesso la forza di sognare la libertà e di affrontare il più grande tiranno del tempo, il faraone, con un messaggio di libertà. Essendo cresciuto in un ambiente reale, privo di catene fisiche e psicologiche, Mosè aveva un chiaro senso dell’orrenda ingiustizia e sentiva di poterla sovvertire in giustizia divina. Cresciuto in un’atmosfera di ampiezza, Mosè si sentiva come un principe, non uno schiavo.
Mosè Vs Ingiustizie
Ibn Ezra, continua facendo due profonde osservazioni circa due storie che la Torà riporta su Mosè prima che fosse scelto per diventare ufficialmente il leader e il redentore di Israele.
Il primo episodio è quello di Mosè, oramai un adulto intraprendente, che ha voluto vedere la schiavitù dei suoi fratelli. E quando ha visto un egiziano picchiare un ebreo Mosè uccise l’egizio, salvando così una vita innocente. Perché era l’unico che ha impedito all’egiziano di picchiare l’ebreo? Perché nessun altro ha ucciso l’egiziano? La risposta è legata a quanto detto sopra, perché uno schiavo tende ad arrendersi al suo pietoso destino e ai suoi carnefici.
Qual è la storia successiva nella Torà su Mosè? A causa del suo atto di aggressione, è costretto a fuggire a Midyàn. Ancora una volta si ritrova coinvolto in un altro conflitto. È testimone dei pastori locali che maltrattano un gruppo di ragazze che per prime erano in fila per attingere acqua da un pozzo. Si alza immediatamente in loro difesa, scacciando i pastori.
Mosè era uno sconosciuto, un fuggiasco che era appena arrivato in quel territorio. Chi gli ha chiesto di intervenire? Chi gli ha chiesto di essere coinvolto? La risposta è che qualcuno che è cresciuto in una casa regale può avere il coraggio e l’assertività di farsi carico e amministrare la giustizia ovunque sia richiesto. Aveva la mentalità e la sicurezza di non permettere ai “bulli” di maltrattare una giovane donna innocente.
Molotov il Fedelissimo!
C’è stato un periodo negli anni Quaranta del Novecento in cui Vyacheslav Molotov era ministro degli Esteri sovietico. Era un uomo scaltro e un duro negoziatore, ma lavorava per Joseph Stalin, che era il capo. Nel corso di un intricato negoziato con l’Occidente, Molotov prima disse come sempre: “Sì, compagno Stalin”, in tono tranquillo, poi di nuovo: “Sì, compagno Stalin” e poi, dopo una lunga attesa: “Certamente, compagno Stalin”. Ma all’improvviso, e incredibilmente, il fedelissimo Molotov iniziò a pronunciare una serie di “NO”: “No, compagno Stalin, no. Quello è no. Sicuramente no. Mille volte, no!”. Dopo un po’ si calmò e fu di nuovo: “Sì, compagno Stalin”. Un giornalista occidentale che casualmente sentì gli echi di quella surreale conversazione approfittò subito per chiedere spiegazioni. Chiaramente, Molotov osò opporsi al dittatore su almeno un punto, e sarebbe stato sicuramente importante per l’Occidente sapere quale fosse quel punto.
Il giornalista si avvicinò a Molotov e disse nel modo più calmo possibile: “Segretario Molotov, non ho potuto fare a meno di sentirti dire a un certo punto: No, compagno Stalin”.
“Posso chiedere” disse il giornalista, con cautela, “Qual era l’argomento in discussione in quel momento?”. Rispose prontamente Molotov: “Certo che puoi! Il compagno Stalin mi ha chiesto se c’era qualcosa che aveva detto con cui non ero d’accordo”.
Siamo Degli Schiavi o Dei Re?
Molti di noi, dopo essere stati sottoposti a condizioni disfunzionali per un certo periodo, imparano in qualche modo a tollerare e accettarle come condizione innata della nostra vita. Questo può essere peggio della condizione stessa, poiché non garantisce alcuna via d’uscita.
Dobbiamo coltivare in noi stessi e nei nostri cari la sensazione di regalità. “La più grande tragedia”, ha detto il maestro chassidico Rabbi Aaron di Karlin, “è quando il principe crede di essere un contadino”, quando ti accontenti di poco perché pensi di essere destinato alla schiavitù. Non ti vedi come un principe, come un figlio di Dio, e quindi non hai la sensazione di poter riscrivere il tuo futuro e raggiungere il tuo potenziale finale.
Presidenti Dormiglioni
Non è questa la storia di alcune delle nostre vite? Dormiamo durante la nostra “presidenza”, dormiamo nelle grandi possibilità, poiché dimentichiamo che ciascuna delle nostre anime è infinita, un “frammento dei Hashèm”. Invece di vivere una vita di grandezza, ci accontentiamo della mediocrità. Dimentichiamo che, sebbene non sempre siamo grandi, siamo collegati a una grandezza al di là di noi stessi. Siamo i figli e le figlie della famiglia reale e ci è stato dato il dono di portare la guarigione nel mondo di Dio.
Ci convinciamo che non possiamo essere più gentili, più compassionevoli, meno arrabbiati o più comprensivi. Ci convinciamo che i nostri matrimoni sono destinati a fallire e che i litigi in casa siano eterni. Pensiamo come schiavi: quello che era ieri sarà domani, e io sono sempre una vittima. Quando ti vedi vittima, diventi una vittima!
È vero per noi come individui, come è stato per il popolo ebraico come collettività in Egitto, il mondo è imbarazzato dalle persone che sono imbarazzate con se stessi; il mondo rispetta e ammira le persone e i gruppi che rispettano se stessi e la loro identità.
Se ci convinciamo che possiamo diventare dei piccoli principi, contribuiamo a fare di questo mondo il luogo dove Hashèm avrà “il desiderio e il piacere” di rivelarsi apertamente e eternamente di essere riconosciuto da tutto come IL RE IN ETERNO. Presto ai nostri giorni con l’arrivo di Mashiàkh.
Eppure, Mosè – la più grande guida politica e spirituale che sia mai esistita per il popolo ebraico, il più grande profeta e insegnante, l’interprete e il messaggero per eccellenza di Hashèm per rivelare la Torà nel mondo – è cresciuto senza avere accanto a sé genitori, una famiglia e un ambiente ebraico. Mosè è cresciuto in un ambiente completamente immerso nella corrotta cultura egiziana di allora. Un ambiente più lontano e antitetico dei valori della Torà e dell’ebraismo era forse impossibile da trovare!
Come se tutto questo non bastasse, ancora più incredibile è il fatto che Mosè è cresciuto nel palazzo del Faraone! Il monarca della superpotenza dell’epoca, il tiranno che ha cercato sistematicamente di sterminare il popolo ebraico. Come se in quest’era moderna un grande redentore e maestro di Israele fosse cresciuto e si manifestasse nella casa di uno Stalin o di un Hitler! Perché tutto questo? Quale è il significato, nascosto?
Certo tuti noi conosciamo i dettagli più importanti di come Moshè sia finito in una casa simile: Batyà, la figlia del faraone, andò a fare il bagno nel fiume Nilo e lì trovò una cesta con dentro un bambino. Recuperò il cestino, salvò il bambino e lo allevò come un figlio. L’immaginazione di Hashèm è “infinitamente fertile”, ma certamente avrebbe potuto organizzare il tutto senza “scomodare” la figlia del faraone, per accogliere il bambino. O non sarebbe stato ancora meglio che, in qualche modo, Mosè fosse rimasto tra la sua famiglia e il suo popolo, assorbendo l’energia e l’ideologia del popolo ebraico?
C’è una logica ferrea in questa legge. Per essere un leader adeguato, occorre essere come una “pianticella cresciuta in casa”, ossia un leader deve essere cresciuto tra la gente, il popolo della nazione che vuole guidare, in modo da poter veramente comprendere “la gente”.
Quindi torniamo alla nostra domanda iniziale: perché, proprio a Mosè, che cresce lontano dalle sofferenze del popolo, è “toccato in sorte” di redimere il popolo?
Le Risposte Di Un Povero Ricco
La domanda è stata sollevata anche da uno dei più importanti studiosi ebrei del Medioevo, il rabbino Avrahàm Ibn Ezra, che visse nel XII secolo in Spagna. Era un saggio, un filosofo, un medico, un astronomo, un astrologo, un poeta, un linguista e un matematico. Ha scritto un commento sulla Torà che è studiato anche oggi.
Il rabbino Abraham Ibn Ezra è nato a Toledo, in Spagna, ma ha trascorso gran parte della sua vita girovagando da un paese all’altro, sempre irrequieto, alla ricerca di conoscenza, insegnando agli studenti e vivendo sempre in grande povertà. A tal punto che in uno dei suoi scritti afferma ironicamente che nella sua vita le stelle cambiano il loro corso naturale per portargli sfortuna, al punto che se avesse deciso di vendere candele il sole non sarebbe mai tramontato, e se avesse deciso di vendere sudari, le persone non sarebbero più morte. Ma su quale idea, su quale pensiero il grande studioso fondava la sua non facile esistenza? “I pensieri di Dio sono profondi e misteriosi, chi può cogliere il Suo segreto? Solo Dio comprende i Suoi schemi”. Questo scritto è un vero e proprio esempio di “ebraismo 2.0”! La prima risposta che noi tutti spesso ci diamo è: “Non capiamo, perché accade questo?”. Perché Mosè dovette crescere nel seno del faraone? La risposta corretta sarebbe: “Non lo so! Poiché è un desiderio di Hashèm!”.
Ma, ovviamente, non bisogna fermarsi qui! Ibn Ezrà continua a dare due potenti risposte speculative sul perché Dio abbia voluto questa trama:
La prima risposta è un commento un po’ satirico sulla cultura ebraica che rimane valido fino a oggi. Se Mosè fosse cresciuto tra gli ebrei, non avrebbe mai ottenuto il rispetto e il timore reverenziale di cui aveva bisogno per condurli alla redenzione e modellarli in grandezza. Se Mosè fosse cresciuto in una scuola ebraica, Yeshivà, nella comunità, ci sarebbero sempre stato qualcuno che, dopo un suo discorso, sarebbe andato da lui a dirgli: “Ehi Mosè, ci mancano i giorni in cui giocavi a calcio con noi là fuori? Quando sei diventato così serio?”.
E quando sarebbe sceso dal Sinai con la Divina Torà, ci sarebbe sempre stata una nonna anziana, che gli avrebbe detto: “Ti ricordo come un bambino nella tua culla. Oh, non smettevi mai di piangere, ma eri così carino. Oggi sei un omone grande e grosso. Ma devo dirtelo, sei ancora così carino!”.
Quando si cresce con delle persone fin dall’infanzia, è difficile per loro accettare veramente l’autorità di un loro “ex compagno di giochi” anche se la meriterebbe pienamente. “Non è possibile essere un profeta nella tua città”, questa antica espressione è sempre valida e attuale.
Quindi, secondo questo punto di vista Hashèm ha fatto crescere Mosè lontano da suo popolo, poiché la distanza era necessaria affinché Mosè diventasse ciò di cui il popolo ebraico aveva veramente bisogno: un leader forte e autorevole.
Ora Ibn Ezra fornisce una seconda spiegazione: ossia, forse Dio ha fatto crescere Mosè nella casa della famiglia reale, in modo che la sua anima fosse abituata a un comportamento fiero, consapevole e regale. Senza lasciarsi intimidire, abbattere o demoralizzare dal fatto di vivere in una casa di schiavi. Mosè non esitò a uccidere un egiziano che commetteva un atto criminale contro un ebreo picchiandolo a morte, e non esitò ad affrontare dei pastori turbolenti per salvare delle ragazze a Midyàn, pur essendo allora un fuggiasco, una specie di profugo.
Questo, poiché la maledizione dell’esilio egiziano consisteva non solo nel lavoro fisico degli schiavi e nell’orribile oppressione, ma inculcò in Israèl una mentalità simile all’esilio. Molti, infatti hanno imparato a vedere la loro miseria come una realtà intrinseca e immutabile, una sorta di rassegnazione totale. Abusi e crudeltà ripetute, dopo tanti decenni, rischiano di abituare una persona all’oscurità e di farle smettere di percepire l’ingiusto e anomalo degrado della situazione in cui si trova.
Ibn Ezra, continua facendo due profonde osservazioni circa due storie che la Torà riporta su Mosè prima che fosse scelto per diventare ufficialmente il leader e il redentore di Israele.
Il primo episodio è quello di Mosè, oramai un adulto intraprendente, che ha voluto vedere la schiavitù dei suoi fratelli. E quando ha visto un egiziano picchiare un ebreo Mosè uccise l’egizio, salvando così una vita innocente. Perché era l’unico che ha impedito all’egiziano di picchiare l’ebreo? Perché nessun altro ha ucciso l’egiziano? La risposta è legata a quanto detto sopra, perché uno schiavo tende ad arrendersi al suo pietoso destino e ai suoi carnefici.
Qual è la storia successiva nella Torà su Mosè? A causa del suo atto di aggressione, è costretto a fuggire a Midyàn. Ancora una volta si ritrova coinvolto in un altro conflitto. È testimone dei pastori locali che maltrattano un gruppo di ragazze che per prime erano in fila per attingere acqua da un pozzo. Si alza immediatamente in loro difesa, scacciando i pastori.
Mosè era uno sconosciuto, un fuggiasco che era appena arrivato in quel territorio. Chi gli ha chiesto di intervenire? Chi gli ha chiesto di essere coinvolto? La risposta è che qualcuno che è cresciuto in una casa regale può avere il coraggio e l’assertività di farsi carico e amministrare la giustizia ovunque sia richiesto. Aveva la mentalità e la sicurezza di non permettere ai “bulli” di maltrattare una giovane donna innocente.
C’è stato un periodo negli anni Quaranta del Novecento in cui Vyacheslav Molotov era ministro degli Esteri sovietico. Era un uomo scaltro e un duro negoziatore, ma lavorava per Joseph Stalin, che era il capo. Nel corso di un intricato negoziato con l’Occidente, Molotov prima disse come sempre: “Sì, compagno Stalin”, in tono tranquillo, poi di nuovo: “Sì, compagno Stalin” e poi, dopo una lunga attesa: “Certamente, compagno Stalin”. Ma all’improvviso, e incredibilmente, il fedelissimo Molotov iniziò a pronunciare una serie di “NO”: “No, compagno Stalin, no. Quello è no. Sicuramente no. Mille volte, no!”. Dopo un po’ si calmò e fu di nuovo: “Sì, compagno Stalin”. Un giornalista occidentale che casualmente sentì gli echi di quella surreale conversazione approfittò subito per chiedere spiegazioni. Chiaramente, Molotov osò opporsi al dittatore su almeno un punto, e sarebbe stato sicuramente importante per l’Occidente sapere quale fosse quel punto.
Il giornalista si avvicinò a Molotov e disse nel modo più calmo possibile: “Segretario Molotov, non ho potuto fare a meno di sentirti dire a un certo punto: No, compagno Stalin”.
“Posso chiedere” disse il giornalista, con cautela, “Qual era l’argomento in discussione in quel momento?”. Rispose prontamente Molotov: “Certo che puoi! Il compagno Stalin mi ha chiesto se c’era qualcosa che aveva detto con cui non ero d’accordo”.
Molti di noi, dopo essere stati sottoposti a condizioni disfunzionali per un certo periodo, imparano in qualche modo a tollerare e accettarle come condizione innata della nostra vita. Questo può essere peggio della condizione stessa, poiché non garantisce alcuna via d’uscita.
Dobbiamo coltivare in noi stessi e nei nostri cari la sensazione di regalità. “La più grande tragedia”, ha detto il maestro chassidico Rabbi Aaron di Karlin, “è quando il principe crede di essere un contadino”, quando ti accontenti di poco perché pensi di essere destinato alla schiavitù. Non ti vedi come un principe, come un figlio di Dio, e quindi non hai la sensazione di poter riscrivere il tuo futuro e raggiungere il tuo potenziale finale.
Non è questa la storia di alcune delle nostre vite? Dormiamo durante la nostra “presidenza”, dormiamo nelle grandi possibilità, poiché dimentichiamo che ciascuna delle nostre anime è infinita, un “frammento dei Hashèm”. Invece di vivere una vita di grandezza, ci accontentiamo della mediocrità. Dimentichiamo che, sebbene non sempre siamo grandi, siamo collegati a una grandezza al di là di noi stessi. Siamo i figli e le figlie della famiglia reale e ci è stato dato il dono di portare la guarigione nel mondo di Dio.
Ci convinciamo che non possiamo essere più gentili, più compassionevoli, meno arrabbiati o più comprensivi. Ci convinciamo che i nostri matrimoni sono destinati a fallire e che i litigi in casa siano eterni. Pensiamo come schiavi: quello che era ieri sarà domani, e io sono sempre una vittima. Quando ti vedi vittima, diventi una vittima!
Se ci convinciamo che possiamo diventare dei piccoli principi, contribuiamo a fare di questo mondo il luogo dove Hashèm avrà “il desiderio e il piacere” di rivelarsi apertamente e eternamente di essere riconosciuto da tutto come IL RE IN ETERNO. Presto ai nostri giorni con l’arrivo di Mashiàkh.
È più facile portare Israèl fuori dall’Egitto,
che portare l’Egitto fuori da Israèl!!!
Basato sugli insegnamenti del rabbino Abraham ben Meir Ibn Ezra (1089-1164) nacque a Toledo, in Spagna nel 1089, e morì il 4 di Shevat (24 gennaio) 1167. Fu uno dei più illustri studiosi di Torà del Medioevo.
Tratto da uno scritto di Y. Y. Jacobson
BASTONI CONSAPEVOLI
Shemòt – Schiavitù
(Esodo da 1, 1 fino a 6, 1)
Stiamo per iniziare il secondo libro della Torà e partiamo con l’esilio in Egitto. Gli insegnamenti della Torà sono eterni poiché arrivando dall’Eterno, quindi in queste settimane dell’esilio troveremo riflessione di come bisogna comportarsi durante l’esilio, in particolare nell’esilio personale.
Quando ci si sente bloccati a livello emotivo, sociale, intellettuale… vuole dire che siamo in un esilio personale e dobbiamo uscirne quanto prima. L’esilio è un regalo per risvegliare le nostre forze nascoste che le tiriamo fuori solo in circostanze di difficoltà.
Quindi i momenti di buio in realtà sono momenti di più grande luce e sono i più grandi trampolini della vita, perciò dobbiamo sfruttarle per trasformarci e crescere dai nostri limiti e uscire dal nostro Egitto che in ebraico Mizraim vuole dire Limitazioni.
Dalle seguenti parashòt sull’esilio, che leggeremo in queste settimane possiamo trovare la luce per uscire nella redenzione e di conseguenza portare la redenzione al mondo intero con Mashiakh presto nei nostri giorni.
***
Vi proponiamo due commenti del libro “Saggezza Quotidiana” sulla parashà di Shemòt di questo Shabbàt, basati sugli insegnamenti del Rebbe e dei suoi predecessori. Come è noto, in questa prima porzione del Libro dell’Esodo inizia la redenzione del popolo ebraico dalla tremenda schiavitù egizia, grazie a Moshè. Tuttavia, come è altrettanto noto, la Torà andrebbe letta sempre con la consapevolezza che ogni suo eterno insegnamento “spazia” a 360° gradi in ogni direzione: dalle questioni più esoteriche, apparentemente complicate fino a quelle più “semplici” e vicine alla vita di ogni giorno.
Salite Difficili
La prima parte del libro “Saggezza Quotidiana” introduce un argomento eternamente valido nel percorso spirituale di ogni persona. Quando decidiamo di compiere un miglioramento spirituale nelle nostre vite, soprattutto se finalizzato al benessere del prossimo, quasi sempre troviamo delle difficoltà dinnanzi a noi. Oltretutto, più grande è il compito che ci apprestiamo ad intraprendere, sempre nell’ambito del servizio di Hashèm e la sua volontà, maggiori saranno le difficoltà.
Hashèm avrebbe potuto creare il mondo senza che ci fosse una “opposizione” alle nostre buone intenzioni. Tuttavia, se ci soffermiamo a riflettere possiamo capire perché Hashèm ha voluto diversamente. Che merito potremmo avere se, ad esempio, per ogni atto buono compiuto, per ogni atto di beneficenza, ineluttabilmente riceveremo dei benefici per noi o per il prossimo? Potrebbe esistere il libero arbitrio? Se ogni buona azione venisse palesemente e immediatamente premiata chi si comporterebbe come un malvagio? Solo qualche masochista… o pazzo totale!
Invece, Hashèm ponendoci delle difficoltà nel nostro desiderio di servirlo ci consente di avere dei meriti, di migliorarci grazie anche alla nostra volontà e sacrificio e fede in Lui. Come un alunno di una scuola. Se il suo insegnante non premiasse lo sforzo nello studio e desse a tutti 10 che insegnante sarebbe? Quale alunno studierebbe con impegno e diligenza al fine di migliorare e meritarsi un buon voto?
Allo stesso tempo, Hashèm ci dà la forza di vincere le nostre sfide a patto, però, di rimanere “fermi” e “ritti” come un bastone di fronte ai nostri oppositori, i nostri “faraoni interiori ed esteriori”. Proprio così si comportò Moshè in una delle prime occasioni in cui, nel suo “nuovo ruolo” di redentore del popolo ebraico, dovette incontrare il faraone. Moshè non accetta compromessi sulle richieste riguardanti i bisogni spirituali e fisici del popolo. Parlerà con “il bastone di Hashèm nella sua mano” cioè con autorità e determinazione. Diversamente la missione di Moshè sarebbe terminata subito, così come la missione di ognuno di noi in questo mondo pieno di insidie materiali e spirituali. Dobbiamo sempre cercare di essere “duri” e “fermi” quando ci viene presentata l’occasione di violare, rinnegare o sminuire i valori e i principi eterni della Torà.
Ragionare, Domandare, Senza Dubitare
Il secondo brano, scelto per voi, del libro “Saggezza Quotidiana”, ci pone di fronte ad una delle più grandi sfide nel nostro rapporto con Hashèm. Quale potrebbe essere la nostra reazione quando, nonostante la nostra fiducia e fermezza nei valori e principi della Torà, nel perseguire un buon intento non solo non veniamo premiati, ma causiamo del dolore o delle difficoltà a noi stessi o al nostro prossimo?
In qualche modo è proprio questo che accadde a Moshè quando, per la prima volta, chiese al faraone di lasciare libero per pochi giorni il popolo ebraico. Il faraone, infatti, non solo rifiuta la proposta di Moshè, ma ordina di non fornire più paglia agli ebrei per fare i mattoni. Cosa che avrebbe reso ancora più duro e gravoso il loro lavoro. Logicamente, il popolo si lamenta con Moshè, il quale chiede ad Hashèm perché lo ha mandato in missione se questo deve essere il risultato. Tuttavia, Moshè non sta mettendo in dubbio la giustizia di Hashèm, ma sta solo cercando di comprenderla e grazie a questo riceve la risposta che cercava da Dio.
L’esempio di Moshè permette anche a noi di capire come agire nella malaugurata ipotesi di essere posti di fronte ad una situazione analoga. Dovremmo cercare di sforzarci di comprendere le azioni di Hashèm, anche quando ci sembrano “ingiuste”, illogiche o incomprensibili. E per capire bisogna anche chiedere, senza perdere la fiducia in Hashèm e nei valori e principi della Torà. Essere “duri come un bastone”, ma allo stesso tempo non esimerci dall’utilizzare la nostra intelligenza per comprendere quello che apparentemente è incomprensibile ai nostri occhi.
Solo grazie a questo “sforzo” potremmo migliorarci ulteriormente nella nostra fede e nel nostro percorso spirituale, perché in questo modo possiamo cercare di utilizzare anche la nostra mente e metterla al servizio divino. A volte la sola fede innata e poco consapevole non basta per affrontare questo mondo. A volte occorre anche fare appello alla nostra intelligenza al fine di ottenere delle risposte da Hashèm, circa le “Sue intenzioni” e la Sua immane e perfetta giustizia.
La prima sezione del libro dell’Esodo (Shemòt) si apre con l’elenco dei “nomi” (shemòt, in ebraico) dei figli di Ya’akòv (Giacobbe). Esso narra come i discendenti di Ya’akòv sono diventati una nazione, successivamente alla loro schiavitù in Egitto. Mentre le condizioni della schiavitù peggiorano progressivamente, Israèl si appella ad Hashèm. Egli decide di affidare a Moshè la missione di liberare gli israeliti dalla schiavitù, per ricevere la Torà. Hashèm li informa che lo scopo della loro liberazione è che essi possano assumere il loro ruolo di leader morali dell’umanità, guidando il mondo verso il suo compimento divino, ovvero divenire una dimora per Hashèm.
*
Shemòt 4, 18–31
Moshè sostiene che gli israeliti non crederanno che è stato mandato da Hashèm, così Egli gli dà il potere di compiere alcuni prodigi per dimostrare loro che Moshè è in missione per conto di Hashèm. Alla fine, Moshè sostiene che essendo balbuziente il suo difetto di pronuncia gli impedirà di essere una guida efficace. Hashèm risponde che il fratello maggiore di Moshè, Aharòn, è un oratore dotato e parlerà in sua vece. Hashèm allora informa Moshè che il faraone si rifiuterà di rilasciare Israèl e che solo dopo aver sofferto le piaghe miracolose, libererà il popolo. Quindi Egli ordina a Moshè di prendere il suo bastone grazie al quale compirà tutti questi miracoli.
Il Bastone di Hashèm
Moshè prese il bastone di Hashèm nella sua mano. (4, 20)
Come vedremo in seguito Moshè, anche se dà al faraone l’onore di un re parlandogli rispettosamente, non accetterà compromessi sulle richieste riguardanti i bisogni spirituali e fisici del popolo. Parlerà con “il bastone di Hashèm nella sua mano” cioè con autorità e determinazione.
La lezione, per noi oggi, è che ogni volta che ci troviamo di fronte a un “re egiziano”, ossia a qualcuno che cerca di imporci elementi di uno stile di vita che va contro i nostri valori e princìpi – attraverso la gentilezza o con la forza – dobbiamo saper riconoscere l’insito pericolo di soccombere a tale pressione. Alla fine, questo faraone ci dirà di annegare noi stessi (o i nostri figli) nella cultura materiale. Dobbiamo, pertanto, respingere queste offerte rispettosamente ma con risolutezza, continuando a vivere secondo i valori della Torà.
*
Shemòt 5, 1 – 6, 1
Moshè si congeda da Yitrò e parte per l’Egitto. Tuttavia, come Hashèm aveva predetto, quando Moshè chiede al faraone di liberare gli israeliti, anche solo per tre giorni, il faraone rifiuta, anzi, ordina di non fornire più paglia agli ebrei per fare i mattoni, costringendoli così a produrre la stessa quota giornaliera di mattoni, raccogliendo da soli la paglia necessaria. Gli israeliti si lamentano con Moshè che, sentendo la loro sofferenza, chiede ad Hashèm perché lo ha mandato in missione se questo deve essere il risultato.
Dubitare delle Vie di Hashèm
Moshè tornò da Hashèm e disse: «Hashèm, perché hai maltrattato questo popolo?». (5, 22)
Moshè non sta mettendo in dubbio la giustizia di Hashèm, ma sta solo cercando di comprenderla. Moshè e Israèl avevano ereditato la loro grande fede in Lui dai patriarchi e dalle matriarche. Questa fede era davvero molto forte, ma per essere redenti dall’Egitto e ricevere la Torà non era sufficiente che il loro rapporto con Hashèm fosse ereditato dai loro antenati: dovevano farcela da soli. Solo quando una persona interiorizza la fede e la fa sua, essa può permeare il suo intero essere.
Ironia della sorte, il modo in cui trasformiamo la nostra fede in nostro possesso ereditario è mettendola in discussione, non unicamente per esternare i dubbi o al solo fine di criticarla, ma
per capirla veramente.
Quindi, in risposta al desiderio di Moshè di comprendere le intenzioni divine, Hashèm gli dice che lo scopo dell’esilio è consentire al popolo di raggiungere un livello di consapevolezza divina ancora più alto di quanto è possibile fare affidandosi esclusivamente a quella ereditata dai patriarchi.
La prima parte del libro “Saggezza Quotidiana” introduce un argomento eternamente valido nel percorso spirituale di ogni persona. Quando decidiamo di compiere un miglioramento spirituale nelle nostre vite, soprattutto se finalizzato al benessere del prossimo, quasi sempre troviamo delle difficoltà dinnanzi a noi. Oltretutto, più grande è il compito che ci apprestiamo ad intraprendere, sempre nell’ambito del servizio di Hashèm e la sua volontà, maggiori saranno le difficoltà.
Hashèm avrebbe potuto creare il mondo senza che ci fosse una “opposizione” alle nostre buone intenzioni. Tuttavia, se ci soffermiamo a riflettere possiamo capire perché Hashèm ha voluto diversamente. Che merito potremmo avere se, ad esempio, per ogni atto buono compiuto, per ogni atto di beneficenza, ineluttabilmente riceveremo dei benefici per noi o per il prossimo? Potrebbe esistere il libero arbitrio? Se ogni buona azione venisse palesemente e immediatamente premiata chi si comporterebbe come un malvagio? Solo qualche masochista… o pazzo totale!
Invece, Hashèm ponendoci delle difficoltà nel nostro desiderio di servirlo ci consente di avere dei meriti, di migliorarci grazie anche alla nostra volontà e sacrificio e fede in Lui. Come un alunno di una scuola. Se il suo insegnante non premiasse lo sforzo nello studio e desse a tutti 10 che insegnante sarebbe? Quale alunno studierebbe con impegno e diligenza al fine di migliorare e meritarsi un buon voto?
Allo stesso tempo, Hashèm ci dà la forza di vincere le nostre sfide a patto, però, di rimanere “fermi” e “ritti” come un bastone di fronte ai nostri oppositori, i nostri “faraoni interiori ed esteriori”. Proprio così si comportò Moshè in una delle prime occasioni in cui, nel suo “nuovo ruolo” di redentore del popolo ebraico, dovette incontrare il faraone. Moshè non accetta compromessi sulle richieste riguardanti i bisogni spirituali e fisici del popolo. Parlerà con “il bastone di Hashèm nella sua mano” cioè con autorità e determinazione. Diversamente la missione di Moshè sarebbe terminata subito, così come la missione di ognuno di noi in questo mondo pieno di insidie materiali e spirituali. Dobbiamo sempre cercare di essere “duri” e “fermi” quando ci viene presentata l’occasione di violare, rinnegare o sminuire i valori e i principi eterni della Torà.
Il secondo brano, scelto per voi, del libro “Saggezza Quotidiana”, ci pone di fronte ad una delle più grandi sfide nel nostro rapporto con Hashèm. Quale potrebbe essere la nostra reazione quando, nonostante la nostra fiducia e fermezza nei valori e principi della Torà, nel perseguire un buon intento non solo non veniamo premiati, ma causiamo del dolore o delle difficoltà a noi stessi o al nostro prossimo?
In qualche modo è proprio questo che accadde a Moshè quando, per la prima volta, chiese al faraone di lasciare libero per pochi giorni il popolo ebraico. Il faraone, infatti, non solo rifiuta la proposta di Moshè, ma ordina di non fornire più paglia agli ebrei per fare i mattoni. Cosa che avrebbe reso ancora più duro e gravoso il loro lavoro. Logicamente, il popolo si lamenta con Moshè, il quale chiede ad Hashèm perché lo ha mandato in missione se questo deve essere il risultato. Tuttavia, Moshè non sta mettendo in dubbio la giustizia di Hashèm, ma sta solo cercando di comprenderla e grazie a questo riceve la risposta che cercava da Dio.
L’esempio di Moshè permette anche a noi di capire come agire nella malaugurata ipotesi di essere posti di fronte ad una situazione analoga. Dovremmo cercare di sforzarci di comprendere le azioni di Hashèm, anche quando ci sembrano “ingiuste”, illogiche o incomprensibili. E per capire bisogna anche chiedere, senza perdere la fiducia in Hashèm e nei valori e principi della Torà. Essere “duri come un bastone”, ma allo stesso tempo non esimerci dall’utilizzare la nostra intelligenza per comprendere quello che apparentemente è incomprensibile ai nostri occhi.
Solo grazie a questo “sforzo” potremmo migliorarci ulteriormente nella nostra fede e nel nostro percorso spirituale, perché in questo modo possiamo cercare di utilizzare anche la nostra mente e metterla al servizio divino. A volte la sola fede innata e poco consapevole non basta per affrontare questo mondo. A volte occorre anche fare appello alla nostra intelligenza al fine di ottenere delle risposte da Hashèm, circa le “Sue intenzioni” e la Sua immane e perfetta giustizia.
Shemòt 4, 18–31
Moshè sostiene che gli israeliti non crederanno che è stato mandato da Hashèm, così Egli gli dà il potere di compiere alcuni prodigi per dimostrare loro che Moshè è in missione per conto di Hashèm. Alla fine, Moshè sostiene che essendo balbuziente il suo difetto di pronuncia gli impedirà di essere una guida efficace. Hashèm risponde che il fratello maggiore di Moshè, Aharòn, è un oratore dotato e parlerà in sua vece. Hashèm allora informa Moshè che il faraone si rifiuterà di rilasciare Israèl e che solo dopo aver sofferto le piaghe miracolose, libererà il popolo. Quindi Egli ordina a Moshè di prendere il suo bastone grazie al quale compirà tutti questi miracoli.
La lezione, per noi oggi, è che ogni volta che ci troviamo di fronte a un “re egiziano”, ossia a qualcuno che cerca di imporci elementi di uno stile di vita che va contro i nostri valori e princìpi – attraverso la gentilezza o con la forza – dobbiamo saper riconoscere l’insito pericolo di soccombere a tale pressione. Alla fine, questo faraone ci dirà di annegare noi stessi (o i nostri figli) nella cultura materiale. Dobbiamo, pertanto, respingere queste offerte rispettosamente ma con risolutezza, continuando a vivere secondo i valori della Torà.
Moshè si congeda da Yitrò e parte per l’Egitto. Tuttavia, come Hashèm aveva predetto, quando Moshè chiede al faraone di liberare gli israeliti, anche solo per tre giorni, il faraone rifiuta, anzi, ordina di non fornire più paglia agli ebrei per fare i mattoni, costringendoli così a produrre la stessa quota giornaliera di mattoni, raccogliendo da soli la paglia necessaria. Gli israeliti si lamentano con Moshè che, sentendo la loro sofferenza, chiede ad Hashèm perché lo ha mandato in missione se questo deve essere il risultato.
Ironia della sorte, il modo in cui trasformiamo la nostra fede in nostro possesso ereditario è mettendola in discussione, non unicamente per esternare i dubbi o al solo fine di criticarla, ma
per capirla veramente.
Quindi, in risposta al desiderio di Moshè di comprendere le intenzioni divine, Hashèm gli dice che lo scopo dell’esilio è consentire al popolo di raggiungere un livello di consapevolezza divina ancora più alto di quanto è possibile fare affidandosi esclusivamente a quella ereditata dai patriarchi.
BASTONI CONSAPEVOLI
Anche questa settimana vi proponiamo due commenti del libro “Saggezza Quotidiana” sulla parashà
di Shemòt di questo Shabbàt, basati sugli insegnamenti del Rebbe e dei suoi predecessori. Come è
noto, in questa prima porzione del Libro dell’Esodo inizia la redenzione del popolo ebraico dalla
tremenda schiavitù egizia, grazie a Moshè. Tuttavia, come è altrettanto noto, la Torà andrebbe letta
sempre con la consapevolezza che ogni suo eterno insegnamento “spazia” a 360° gradi in ogni
direzione: dalle questioni più esoteriche, apparentemente complicate fino a quelle più “semplici” e
vicine alla vita di ogni giorno.
Salite Difficili
La prima parte del libro “Saggezza Quotidiana” introduce un argomento eternamente valido nel
percorso spirituale di ogni persona. Quando decidiamo di compiere un miglioramento spirituale nelle
nostre vite, soprattutto se finalizzato al benessere del prossimo, quasi sempre troviamo delle difficoltà
dinnanzi a noi. Oltretutto, più grande è il compito che ci apprestiamo ad intraprendere, sempre
nell’ambito del servizio di Hashèm e la sua volontà, maggiori saranno le difficoltà.
Hashèm avrebbe potuto creare il mondo senza che ci fosse una “opposizione” alle nostre buone
intenzioni. Tuttavia, se ci soffermiamo a riflettere possiamo capire perché Hashèm ha voluto
diversamente. Che merito potremmo avere se, ad esempio, per ogni atto buono compiuto, per ogni
atto di beneficenza, ineluttabilmente riceveremo dei benefici per noi o per il prossimo? Potrebbe
esistere il libero arbitrio? Se ogni buona azione venisse palesemente e immediatamente premiata chi
si comporterebbe come un malvagio? Solo qualche masochista… o pazzo totale!
Invece, Hashèm ponendoci delle difficoltà nel nostro desiderio di servirlo ci consente di avere dei
meriti, di migliorarci grazie anche alla nostra volontà e sacrificio e fede in Lui. Come un alunno di
una scuola. Se il suo insegnante non premiasse lo sforzo nello studio e desse a tutti 10 che insegnante
sarebbe? Quale alunno studierebbe con impegno e diligenza al fine di migliorare e meritarsi un buon
voto?
Allo stesso tempo, Hashèm ci dà la forza di vincere le nostre sfide a patto, però, di rimanere “fermi”
e “ritti” come un bastone di fronte ai nostri oppositori, i nostri “faraoni interiori ed esteriori”. Proprio
così si comportò Moshè in una delle prime occasioni in cui, nel suo “nuovo ruolo” di redentore del
popolo ebraico, dovette incontrare il faraone. Moshè non accetta compromessi sulle richieste
riguardanti i bisogni spirituali e fisici del popolo. Parlerà con “il bastone di Hashèm nella sua mano”
cioè con autorità e determinazione. Diversamente la missione di Moshè sarebbe terminata subito, così
come la missione di ognuno di noi in questo mondo pieno di insidie materiali e spirituali. Dobbiamo
sempre cercare di essere “duri” e “fermi” quando ci viene presentata l’occasione di violare, rinnegare
o sminuire i valori e i principi eterni della Torà.
Ragionare, Domandare, Senza Dubitare
Il secondo brano, scelto per voi, del libro “Saggezza Quotidiana”, ci pone di fronte ad una delle più
grandi sfide nel nostro rapporto con Hashèm. Quale potrebbe essere la nostra reazione quando,
nonostante la nostra fiducia e fermezza nei valori e principi della Torà, nel perseguire un buon intento
non solo non veniamo premiati, ma causiamo del dolore o delle difficoltà a noi stessi o al nostro
prossimo?
In qualche modo è proprio questo che accadde a Moshè quando, per la prima volta, chiese al faraone
di lasciare libero per pochi giorni il popolo ebraico. Il faraone, infatti, non solo rifiuta la proposta di
Moshè, ma ordina di non fornire più paglia agli ebrei per fare i mattoni. Cosa che avrebbe reso ancora
più duro e gravoso il loro lavoro. Logicamente, il popolo si lamenta con Moshè, il quale chiede ad
Hashèm perché lo ha mandato in missione se questo deve essere il risultato. Tuttavia, Moshè non sta
mettendo in dubbio la giustizia di Hashèm, ma sta solo cercando di comprenderla e grazie a questo
riceve la risposta che cercava da Dio.
L’esempio di Moshè permette anche a noi di capire come agire nella malaugurata ipotesi di essere
posti di fronte ad una situazione analoga. Dovremmo cercare di sforzarci di comprendere le azioni di
Hashèm, anche quando ci sembrano “ingiuste”, illogiche o incomprensibili. E per capire bisogna
anche chiedere, senza perdere la fiducia in Hashèm e nei valori e principi della Torà. Essere “duri
come un bastone”, ma allo stesso tempo non esimerci dall’utilizzare la nostra intelligenza per
comprendere quello che apparentemente è incomprensibile ai nostri occhi.
Solo grazie a questo “sforzo” potremmo migliorarci ulteriormente nella nostra fede e nel nostro
percorso spirituale, perché in questo modo possiamo cercare di utilizzare anche la nostra mente e
metterla al servizio divino. A volte la sola fede innata e poco consapevole non basta per affrontare
questo mondo. A volte occorre anche fare appello alla nostra intelligenza al fine di ottenere delle
risposte da Hashèm, circa le “Sue intenzioni” e la Sua immane e perfetta giustizia.
Auguro a tutti un caro Shabbàt Shalom e un buon prosieguo di lettura.
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Shemòt – Schiavitù
Esodo da 1, 1 fino a 6, 1
La prima sezione del libro dell’Esodo (Shemòt) si apre con l’elenco dei “nomi” (shemòt, in ebraico)
dei figli di Ya’akòv (Giacobbe). Esso narra come i discendenti di Ya’akòv sono diventati una nazione,
successivamente alla loro schiavitù in Egitto. Mentre le condizioni della schiavitù peggiorano
progressivamente, Israèl si appella ad Hashèm. Egli decide di affidare a Moshè la missione di liberare
gli israeliti dalla schiavitù, per ricevere la Torà. Hashèm li informa che lo scopo della loro liberazione
è che essi possano assumere il loro ruolo di leader morali dell’umanità, guidando il mondo verso il
suo compimento divino, ovvero divenire una dimora per Hashèm.
*
Shemòt 4, 18–31
Moshè sostiene che gli israeliti non crederanno che è stato mandato da Hashèm, così Egli gli dà il
potere di compiere alcuni prodigi per dimostrare loro che Moshè è in missione per conto di Hashèm.
Alla fine, Moshè sostiene che essendo balbuziente il suo difetto di pronuncia gli impedirà di essere
una guida efficace. Hashèm risponde che il fratello maggiore di Moshè, Aharòn, è un oratore dotato
e parlerà in sua vece. Hashèm allora informa Moshè che il faraone si rifiuterà di rilasciare Israèl e che
solo dopo aver sofferto le piaghe miracolose, libererà il popolo. Quindi Egli ordina a Moshè di
prendere il suo bastone grazie al quale compirà tutti questi miracoli.
Il Bastone di Hashèm
Moshè prese il bastone di Hashèm nella sua mano. (4, 20)
Come vedremo in seguito Moshè, anche se dà al faraone l’onore di un re parlandogli rispettosamente,
non accetterà compromessi sulle richieste riguardanti i bisogni spirituali e fisici del popolo. Parlerà
con “il bastone di Hashèm nella sua mano” cioè con autorità e determinazione.
La lezione, per noi oggi, è che ogni volta che ci troviamo di fronte a un “re egiziano”, ossia a qualcuno
che cerca di imporci elementi di uno stile di vita che va contro i nostri valori e princìpi – attraverso
la gentilezza o con la forza – dobbiamo saper riconoscere l’insito pericolo di soccombere a tale
pressione. Alla fine, questo faraone ci dirà di annegare noi stessi (o i nostri figli) nella cultura
materiale. Dobbiamo, pertanto, respingere queste offerte rispettosamente ma con risolutezza,
continuando a vivere secondo i valori della Torà.
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Shemòt 5, 1 – 6, 1
Moshè si congeda da Yitrò e parte per l’Egitto. Tuttavia, come Hashèm aveva predetto, quando Moshè
chiede al faraone di liberare gli israeliti, anche solo per tre giorni, il faraone rifiuta, anzi, ordina di
non fornire più paglia agli ebrei per fare i mattoni, costringendoli così a produrre la stessa quota
giornaliera di mattoni, raccogliendo da soli la paglia necessaria. Gli israeliti si lamentano con Moshè
che, sentendo la loro sofferenza, chiede ad Hashèm perché lo ha mandato in missione se questo deve
essere il risultato.
Dubitare delle Vie di Hashèm
Moshè tornò da Hashèm e disse: «Hashèm, perché hai maltrattato questo popolo?». (5, 22)
Moshè non sta mettendo in dubbio la giustizia di Hashèm, ma sta solo cercando di comprenderla.
Moshè e Israèl avevano ereditato la loro grande fede in Lui dai patriarchi e dalle matriarche. Questa
fede era davvero molto forte, ma per essere redenti dall’Egitto e ricevere la Torà non era sufficiente
che il loro rapporto con Hashèm fosse ereditato dai loro antenati: dovevano farcela da soli. Solo
quando una persona interiorizza la fede e la fa sua, essa può permeare il suo intero essere.
Ironia della sorte, il modo in cui trasformiamo la nostra fede in nostro possesso ereditario è mettendola
in discussione, non unicamente per esternare i dubbi o al solo fine di criticarla, ma
per capirla veramente.
Quindi, in risposta al desiderio di Moshè di comprendere le intenzioni divine, Hashèm gli dice che lo
scopo dell’esilio è consentire al popolo di raggiungere un livello di consapevolezza divina ancora più
alto di quanto è possibile fare affidandosi esclusivamente a quella ereditata dai patriarchi.
In memoria del mio carissimo amico Rav Haim Moshe Mordechai ben Dovber Shaikevitz
UCCIDIAMO IL SALVATORE… OPPURE NO?
Una lezione di vita INVEROSIMILE emerge dalla storia dell’esilio in Egitto e dell’uomo più potente dell’epoca: il capo di un impero, il SUPER POWER di tremila e passa anni fa, il FARAONE, il personaggio che addirittura millantava di essere un dio e di avere poteri sovrannaturali. Lui era l’uomo più crudele al mondo che faceva due volte al giorno il bagno nel sangue dei bambini ebrei (300), per curarsi dalla malattia della lebbra e non risparmiava nessuno dalla sua megalomania di potere.
Quantunque fosse un malvagio e privo di sentimenti è proprio grazie a lui che arriverà la prima redenzione e in futuro l’ultima redenzione nei nostri giorni che è la conseguenza della prima come scritto nel Midràsh e come spiegheremo in breve. Questo concetto è intimamente legato a un insegnamento del libro dei proverbi (19, 21):
L’UOMO HA TANTI PENSIERI (programmi), MA SOLO LA VOLONTÀ DI DIO (determina) QUELLO CHE SUCCEDERÀ.
Per capire meglio il significato di questo versetto e quanto sia fantastico questo evento di Moshè e il Faraone il suo “Padre Adottivo”, facciamo un riepilogo storico.
Israèl si stabilisce nella terra di Gòshen in Egitto e inizia a moltiplicarsi in maniera esagerata. Il Faraone inizia a temere uno squilibrio demografico e per frenare questa “spina nel fianco” decide di affliggere il popolo ebraico per indebolirlo e ridurne la crescita. Tuttavia, non solo non ha successo nei suoi intenti, ma ottiene l’esatto opposto, come è scritto all’inizio dell’Esodo: “più lo tormentavano (Israèl) e più si moltiplicava…”
Questo è un altro dejà vu della storia ebraica, per quanto vi sia qualcuno che cerchi di sterminarlo, l’effetto è sempre l’opposto. L’indole di Israèl è come quando si pressano le olive, solo allora viene fuori il meglio del frutto ovvero L’OLIO DI OLIVA.
A questo punto il Faraone di fronte al fallimento della sua “politica”, della sua volontà, inizia un nuovo piano per cercare di abbattere Israèl: buttare nel Nilo tutti i bimbi maschi appena nati.
Un bel giorno, il sei di sivàn, gli astrologi predicono al Faraone che in quel giorno sarebbe nato il futuro redentore di Israèl (in realtà era nato esattamente tre mesi prima il sette di adàr), perciò egli emette un nuovo decreto che ordina non solo l’uccisione dei bambini maschi, nati in quel giorno, ma di TUTTI I BIMBI, anche quelli egiziani.
Per via di ciò, Moshè viene nascosto in una cesta e viene messo nel Nilo. La figlia del Faraone Batyà era nel Nilo e vede la cesta col piccolo bimbo, se ne innamora e lo prende a casa. Decide di adottarlo come proprio figlio. Il piccolo neonato non vuole farsi allattare da nessuna donna, perché la bocca che parlerà con il Padre Eterno non può essere allattata da una donna idolatra. Miriam, che seguiva la cesta nel Nilo con attenzione, si accorge che Moshè non vuole farsi allattare, allora offre a Batyà di chiamare una donna ebrea per allattarlo e così arriva Yokhèved (la vera mamma) per allattare Moshè a pagamento. Questa è la prima e ultima volta nella storia che una mamma VIENE PAGATA per allattare SUO proprio figlio.
Così Moshè cresce nel palazzo reale sotto il naso del Faraone che ha fatto di tutto per ucciderlo, ma alla fine è proprio lui che lo fa crescere sulle sue ginocchia e addirittura paga per farlo allattare. Questa storia è una delle più grandi conferme del verso che ha scritto il Re Salomone. Tutti noi abbiamo i nostri piani, progetti, ma in realtà stiamo realizzando il piano divino, anche se a noi sembra di fare quella che comprendiamo e sentiamo di agire in maniera autonoma dal piano Superiore, in realtà è solo un’illusione. Anche se è vero che abbiamo libero arbitrio, questo riguarda solo le decisioni spirituali: fare o non fare un precetto o studiare la Torà. Riguardo a tutto il resto noi ci possiamo solo illudere di poter decidere secondo i nostri piani.
Un grande maestro, il Rebbe di Piskhe, spiega che il verso nei proverbi: “L’uomo ha tanti pensieri (programmi), ma solo la volontà di Dio (determina) quello che succederà”, non intende solo insegnarci che l’uomo pensa di fare qualcosa, che in realtà non è quello che succederà, bensì che l’uomo che sta facendo un suo piano personale, senza saperlo sta realizzando proprio la volontà di Dio, il Suo piano.
L’uomo Propone, Ma Dio Dispone
Un esempio eclatante lo troviamo nella storia di Ester che leggiamo a Purìm. Alla fine del secondo banchetto di sette giorni di mangiare e bere, il re Assuero è molto ubriaco e sfida tutti i governatori di ogni paese del mondo che erano tutte sotto il suo dominio: “Mia moglie è la più bella di tutto il reame e ve la mostrerò senza veli come Dio l’ha creata così non avrete dubbi”. Vashti risponde offendendo pubblicamente il Re Assuero dicendogli che perfino i stalloni di suo padre (re della babilonia) quado si ubriacavano non perdevano la testa come era a successo a lui.
A questo punto il re umiliato non si capacita una offesa così grave e chiede consiglio di cosa fare della regina Vashtì. Quando chiedono a Hamàn il malvagio cosa pensa egli risponde che bisogna ucciderla per mancanza di rispetto. Hamàn pensa di realizzare un piano personale, perché lui ha una figlia che vuole diventare regina e nel caso Vashtì morisse lui potrebbe diventare molto ricco e potente, perciò ordina di uccidere Vashtì. Ma sua figlia ha dei problemi di salute e quando il re deve scegliere la sostituta di Vashtì, sceglie la bellissima Ester. La quale successivamente chiederà e otterrà l’uccisione di Hamàn il malvagio. Perciò senza accorgersene è proprio lui a spianare la strada alla nomina della regina che ordinerà la sua morte.
Un altro esempio è quando Hamàn decide di costruire una forca alta cinquanta amòt (25 metri) e si presenta in mezzo alla notte per chiedere di impiccare Mordekhày. Alla fine proprio Hamàn si scava la fossa con le sue mani o meglio ancora: “la forca con le sue mani”.
Questa storia si ripete sempre. Noi pensiamo di fare il nostro piano, ma in realtà non solo esso non si realizza anzi, molto di più, noi stiamo, senza volerlo, realizzando il piano Divino.
Questo concetto è uno dei fili condottieri principali di tutta la storia di Ester e troviamo questa idea tante altre volte. Si potrebbe dire che uno dei principali messaggi della festa di Purìm (che festeggeremo tra meno di due mesi) è che la natura è solo una maschera del piano Superiore e che in realtà anche gli eventi naturali sono un “guanto” dietro al quale si nasconde Dio. Il quale ci fa solo credere che siamo noi ad avere le redini di questo mondo e dei suoi eventi. Non a caso proprio a Purìm ci si maschera, per alludere a come tutto ciò che succede non è altro che è una maschera di ciò che è stato deciso nei “piani superiori”.
Questo è quello che fa il Faraone quando pensa di uccidere il futuro redentore e che alla fine, invece di ucciderlo, lo fa crescere con le sue mani, nel suo palazzo reale e sulle sue ginocchia come un figlio. La verità è molto di più. Che non solo Moshè salverà Israèl, ma sarà proprio il Faraone a farlo diventare il salvatore di Israèl. È proprio lui a coltivare in Moshè le doti di leader e capo che gli permetteranno di diventare il primo redentore di Israèl.
Quali Sono le Caratteristiche di un Re?
In base a quello che spiega Even Ezra potremo capire meglio come mai quando il popolo di seicentomila uomini arriva davanti al mare, ha paura delle seicento carrozze degli egizi che li stanno rincorrendo. Gli uomini armati di Israèl hanno una superiorità numerica schiacciante: un rapporto di 1 a 1000. Pertanto, perché temono il piccolo esercito egizio? Non vi è nessuna logica in questo! Even Ezra spiega che la paura del popolo ebraico si origina dal fatto che sono sempre vissuti, senza avere mai avuto il coraggio e la forza di combattere CONTRO IL LORO PADRONE.
Lo scenario psicologico e sociale delineato da Ezra assomiglia alla patologia conosciuta come la “sindrome di Stoccolma”, dove gli oppressi si sottomettono in maniera inconscia ai loro oppressori fino ad arrivare a difenderli e volerli bene.
Per questa ragione il popolo quando si ritrova intrappolato davanti al mare non ha il coraggio di sfidare il suo famigerato dominatore che lo ha oppresso da due secoli. Questo spiega il perché la generazione uscita dall’Egitto non potrà conquistare la terra di Israèl dai sette popoli che risiedono in essa: essendo un popolo abituato alla schiavitù non troverà nella sua indole la natura di combattere e conquistare la terra.
Infatti quando Moshè va a parlare al Faraone non ha paura di entrare nel grande palazzo dell’uomo più potente al mondo e riferirgli con impeto il messaggio di Dio, ossia che è arrivato il momento di far uscire dall’Egitto il popolo ebraico. E non a caso tutti i 70 saggi del popolo che DEVONO accompagnare Moshè dal Faraone in realtà spariscono uno dopo l’altro e non hanno il coraggio di presentarsi al “dio egizio”, come si faceva soprannominare il Faraone. Questo perché chi è nato in una condizione di totale sudditanza spesso non ha il coraggio di sfidare il suo aguzzino.
Virtù di un Leader
Moshè, invece, non ha questo problema, perché lui è nato nel palazzo reale non è mai stato schiavo e nel palazzo del Faraone Moshè “gioca in casa”, come si suol dire…
Moshè non ha la natura del sottomesso e per questo lui può e riesce a salvare il popolo. E questa capacità di Moshè è dovuta solo grazie al Faraone, proprio quando ha ordinato di uccidere tutti i bimbi, mentre in realtà, senza saperlo, il Faraone sta agendo al servizio dell’Onnipotente per fare crescere Moshè nel suo palazzo reale con uno spirito libero e dandogli la migliore educazione possibile, così da renderlo idoneo per diventare il grande Redentore.
Questo quello che dice il Re Salomone nei proverbi che non solo i nostri piani non si realizzano, ma che in realtà TUTTO quello che stiamo facendo è SEMPRE e SOLO la realizzazione del PIANO DIVINO. Proprio come il Faraone che non solo fa crescere il suo più grande nemico che sconfiggerà il suo impero sulle sue ginocchia ma, in realtà, è proprio il Faraone che semina le doti di Moshè il Redentore. E tutto questo il Faraone lo realizza con il terribile decreto di uccidere i bambini che, invece, secondo i suoi piani sarebbe andato nella direzione opposta a tutta la storia.
Ricordiamo che nella vita ogni azione che facciamo è SEMPRE al servizio del nostro padrone e come tutto ciò che succede è SOLO la realizzazione del piano di DIO, (incluso il Corona virus / Covid2019).
Come si dice in italiano? “L’uomo propone, ma è Dio che dispone!”.
In realtà è molto di più! Anche quando l’uomo agisce all’opposto della volontà divina, lui non sa che sta facendo esattamente quello che è stato prefissato in cielo ed è come una marionetta che è mossa dal suo burattinaio!
In memoria di Yaakov ben Shelomo
לעילוי נשמת יעקב בן שלמה ורחל
Questa è il video della nuova lezione corta di questa settimana della parashà di SHEMOT fresca appena sfornata.
REDENZIONE TOTALE O TEMPORALE?
www.virtualyeshiva.it/files/seminar/shemot_mianokhi.mp4
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IL VERO SIGNIFICATO DI LIBERTÀ
È più facile portare Israèl fuori dall’Egitto,
che portare l’Egitto fuori da Israèl!!!
Quando il presidente americano Dwight Eisenhower incontrò il primo ministro israeliano David Ben-Gurion, il primo disse: “È molto difficile essere il presidente di 170 milioni di persone”. Ben-Gurion rispose: “È più difficile essere il primo ministro di 2 milioni di primi ministri…”.
Oppure!
Due uomini ebrei nella Russia zarista venivano condotti all’aperto per essere fucilati. Uno era un umile sarto, l’altro un selvaggio anarchico. Mentre l’ufficiale zarista, incaricato del plotone di esecuzione, cercava di mettere una benda sugli occhi dell’anarchico oramai condannato, il giovane ebreo reagì, dicendo coraggiosamente ad alta voce: “Affronterò la morte guardandola in faccia!”. Il sarto, allarmato da tanto clamore, disse al giovane anarchico: “Per favore, cerca di non creare problemi!”.
Cosa Serve Per Crescere?
“Ci vuole un villaggio per crescere un bambino”, dice un vecchio detto, poiché nessun uomo è un’isola! Cresciamo tutti all’interno di una comunità da cui siamo modellati. Il nostro ambiente di fatto crea le nostre identità! Chi di noi non ricorda con affetto qualche personaggio particolare dell’infanzia da cui abbiamo imparato tanto? “L’eccentrico zio”, il “vicino un po’ pazzo”, “la santa nonna” o “l’insegnante severo”. Ognuno dei quali ha lasciato impressioni sulla nostra psiche e ha influenzato il nostro modo di affrontare il mondo che ci circonda.
Certamente “ci vuole un villaggio per crescere un bambino”, anche per chi conduce una vita ebraica. L’ebraismo è una religione fondata sulla famiglia e sulla comunità, con i suoi peculiari momenti e personaggi: la Pasqua ebraica con tutta la famiglia, il Bar Mitzvà di nostro figlio, l’umorismo tagliente del nostro rabbino o l’insegnante acuto e intelligente, il nostro amico sempre più “furbo di noi”. Tutto questo ci ha conferito l’interpretazione della nostra identità, assorbendo la cultura, l’eredità, la fede, la visione del mondo dall’ambiente dove siamo cresciuti. Non bisogna mai sottovalutare il potere e la capacità delle tradizioni. Quante nonne hanno trasmesso il loro amore e la loro saggezza alle generazioni successive?
Dove Può Crescere Un Redentore, Profeta e Guida?
Eppure, Mosè – la più grande guida politica e spirituale che sia mai esistita per il popolo ebraico, il più grande profeta e insegnante, l’interprete e il messaggero per eccellenza di Hashèm per rivelare la Torà nel mondo – è cresciuto senza avere accanto a sé genitori, una famiglia e un ambiente ebraico. Mosè è cresciuto in un ambiente completamente immerso nella corrotta cultura egiziana di allora. Un ambiente più lontano e antitetico dei valori della Torà e dell’ebraismo era forse impossibile da trovare!
Come se tutto questo non bastasse, ancora più incredibile è il fatto che Mosè è cresciuto nel palazzo del Faraone! Il monarca della superpotenza dell’epoca, il tiranno che ha cercato sistematicamente di sterminare il popolo ebraico. Come se in quest’era moderna un grande redentore e maestro di Israele fosse cresciuto e si manifestasse nella casa di uno Stalin o di un Hitler! Perché tutto questo? Quale è il significato, nascosto?
Come Diventare Un Presidente
Certo tuti noi conosciamo i dettagli più importanti di come Moshè sia finito in una casa simile: Batyà, la figlia del faraone, andò a fare il bagno nel fiume Nilo e lì trovò una cesta con dentro un bambino. Recuperò il cestino, salvò il bambino e lo allevò come un figlio. L’immaginazione di Hashèm è “infinitamente fertile”, ma certamente avrebbe potuto organizzare il tutto senza “scomodare” la figlia del faraone, per accogliere il bambino. O non sarebbe stato ancora meglio che, in qualche modo, Mosè fosse rimasto tra la sua famiglia e il suo popolo, assorbendo l’energia e l’ideologia del popolo ebraico?
La Costituzione americana impone alcune restrizioni per coloro che possono essere ammessi all’Ufficio del Presidente degli Stati Uniti. Essa, in sostanza, stabilisce che nessuno al di fuori di un cittadino nato nel territorio degli Stati Uniti sia eleggibile come Presidente degli USA!
C’è una logica ferrea in questa legge. Per essere un leader adeguato, occorre essere come una “pianticella cresciuta in casa”, ossia un leader deve essere cresciuto tra la gente, il popolo della nazione che vuole guidare, in modo da poter veramente comprendere “la gente”.
Quindi torniamo alla nostra domanda iniziale: perché, proprio a Mosè, che cresce lontano dalle sofferenze del popolo, è “toccato in sorte” di redimere il popolo?
Le Risposte Di Un Povero Ricco
La domanda è stata sollevata anche da uno dei più importanti studiosi ebrei del Medioevo, il rabbino Avrahàm Ibn Ezra, che visse nel XII secolo in Spagna. Era un saggio, un filosofo, un medico, un astronomo, un astrologo, un poeta, un linguista e un matematico. Ha scritto un commento sulla Torà che è studiato anche oggi.
Il rabbino Abraham Ibn Ezra è nato a Toledo, in Spagna, ma ha trascorso gran parte della sua vita girovagando da un paese all’altro, sempre irrequieto, alla ricerca di conoscenza, insegnando agli studenti e vivendo sempre in grande povertà. A tal punto che in uno dei suoi scritti afferma ironicamente che nella sua vita le stelle cambiano il loro corso naturale per portargli sfortuna, al punto che se avesse deciso di vendere candele il sole non sarebbe mai tramontato, e se avesse deciso di vendere sudari, le persone non sarebbero più morte. Ma su quale idea, su quale pensiero il grande studioso fondava la sua non facile esistenza? “I pensieri di Dio sono profondi e misteriosi, chi può cogliere il Suo segreto? Solo Dio comprende i Suoi schemi”. Questo scritto è un vero e proprio esempio di “ebraismo 2.0”! La prima risposta che noi tutti spesso ci diamo è: “Non capiamo, perché accade questo?”. Perché Mosè dovette crescere nel seno del faraone? La risposta corretta sarebbe: “Non lo so! Poiché è un desiderio di Hashèm!”.
Ma, ovviamente, non bisogna fermarsi qui! Ibn Ezrà continua a dare due potenti risposte speculative sul perché Dio abbia voluto questa trama:
Risposta N. 1: “Mantenere Le Distanze”
La prima risposta è un commento un po’ satirico sulla cultura ebraica che rimane valido fino a oggi. Se Mosè fosse cresciuto tra gli ebrei, non avrebbe mai ottenuto il rispetto e il timore reverenziale di cui aveva bisogno per condurli alla redenzione e modellarli in grandezza. Se Mosè fosse cresciuto in una scuola ebraica, Yeshivà, nella comunità, ci sarebbero sempre stato qualcuno che, dopo un suo discorso, sarebbe andato da lui a dirgli: “Ehi Mosè, ci mancano i giorni in cui giocavi a calcio con noi là fuori? Quando sei diventato così serio?”.
E quando sarebbe sceso dal Sinai con la Divina Torà, ci sarebbe sempre stata una nonna anziana, che gli avrebbe detto: “Ti ricordo come un bambino nella tua culla. Oh, non smettevi mai di piangere, ma eri così carino. Oggi sei un omone grande e grosso. Ma devo dirtelo, sei ancora così carino!”.
Quando si cresce con delle persone fin dall’infanzia, è difficile per loro accettare veramente l’autorità di un loro “ex compagno di giochi” anche se la meriterebbe pienamente. “Non è possibile essere un profeta nella tua città”, questa antica espressione è sempre valida e attuale.
Quindi, secondo questo punto di vista Hashèm ha fatto crescere Mosè lontano da suo popolo, poiché la distanza era necessaria affinché Mosè diventasse ciò di cui il popolo ebraico aveva veramente bisogno: un leader forte e autorevole.
Risposta N. 2: “Un Atteggiamento Maestoso”
Ora Ibn Ezra fornisce una seconda spiegazione: ossia, forse Dio ha fatto crescere Mosè nella casa della famiglia reale, in modo che la sua anima fosse abituata a un comportamento fiero, consapevole e regale. Senza lasciarsi intimidire, abbattere o demoralizzare dal fatto di vivere in una casa di schiavi. Mosè non esitò a uccidere un egiziano che commetteva un atto criminale contro un ebreo picchiandolo a morte, e non esitò ad affrontare dei pastori turbolenti per salvare delle ragazze a Midyàn, pur essendo allora un fuggiasco, una specie di profugo.
Questo, poiché la maledizione dell’esilio egiziano consisteva non solo nel lavoro fisico degli schiavi e nell’orribile oppressione, ma inculcò in Israèl una mentalità simile all’esilio. Molti, infatti hanno imparato a vedere la loro miseria come una realtà intrinseca e immutabile, una sorta di rassegnazione totale. Abusi e crudeltà ripetute, dopo tanti decenni, rischiano di abituare una persona all’oscurità e di farle smettere di percepire l’ingiusto e anomalo degrado della situazione in cui si trova.
Ecco perché il redentore di Israele doveva crescere nel palazzo egiziano, non tra il suo stesso popolo. Se Mosè fosse cresciuto tra gli schiavi ebrei, anche lui avrebbe potuto soffrire di una “mentalità da schiavo”, privandolo del coraggio di combattere l’ingiustizia e della capacità di plasmare una tribù schiava in un grande popolo capace di migliorare il mondo. Forse non avrebbe trovato in sé stesso la forza di sognare la libertà e di affrontare il più grande tiranno del tempo, il faraone, con un messaggio di libertà. Essendo cresciuto in un ambiente reale, privo di catene fisiche e psicologiche, Mosè aveva un chiaro senso dell’orrenda ingiustizia e sentiva di poterla sovvertire in giustizia divina. Cresciuto in un’atmosfera di ampiezza, Mosè si sentiva come un principe, non uno schiavo.
Mosè Vs Ingiustizie
Ibn Ezra, continua facendo due profonde osservazioni circa due storie che la Torà riporta su Mosè prima che fosse scelto per diventare ufficialmente il leader e il redentore di Israele.
Il primo episodio è quello di Mosè, oramai un adulto intraprendente, che ha voluto vedere la schiavitù dei suoi fratelli. E quando ha visto un egiziano picchiare un ebreo Mosè uccise l’egizio, salvando così una vita innocente. Perché era l’unico che ha impedito all’egiziano di picchiare l’ebreo? Perché nessun altro ha ucciso l’egiziano? La risposta è legata a quanto detto sopra, perché uno schiavo tende ad arrendersi al suo pietoso destino e ai suoi carnefici.
Qual è la storia successiva nella Torà su Mosè? A causa del suo atto di aggressione, è costretto a fuggire a Midyàn. Ancora una volta si ritrova coinvolto in un altro conflitto. È testimone dei pastori locali che maltrattano un gruppo di ragazze che per prime erano in fila per attingere acqua da un pozzo. Si alza immediatamente in loro difesa, scacciando i pastori.
Mosè era uno sconosciuto, un fuggiasco che era appena arrivato in quel territorio. Chi gli ha chiesto di intervenire? Chi gli ha chiesto di essere coinvolto? La risposta è che qualcuno che è cresciuto in una casa regale può avere il coraggio e l’assertività di farsi carico e amministrare la giustizia ovunque sia richiesto. Aveva la mentalità e la sicurezza di non permettere ai “bulli” di maltrattare una giovane donna innocente.
Molotov Il Fedelissimo!
C’è stato un periodo negli anni Quaranta del Novecento in cui Vyacheslav Molotov era ministro degli Esteri sovietico. Era un uomo scaltro e un duro negoziatore, ma lavorava per Joseph Stalin, che era il capo. Nel corso di un intricato negoziato con l’Occidente, Molotov prima disse come sempre: “Sì, compagno Stalin”, in tono tranquillo, poi di nuovo: “Sì, compagno Stalin” e poi, dopo una lunga attesa: “Certamente, compagno Stalin”. Ma all’improvviso, e incredibilmente, il fedelissimo Molotov iniziò a pronunciare una serie di “NO”: “No, compagno Stalin, no. Quello è no. Sicuramente no. Mille volte, no!”. Dopo un po’ si calmò e fu di nuovo: “Sì, compagno Stalin”. Un giornalista occidentale che casualmente sentì gli echi di quella surreale conversazione approfittò subito per chiedere spiegazioni. Chiaramente, Molotov osò opporsi al dittatore su almeno un punto, e sarebbe stato sicuramente importante per l’Occidente sapere quale fosse quel punto.
Il giornalista si avvicinò a Molotov e disse nel modo più calmo possibile: “Segretario Molotov, non ho potuto fare a meno di sentirti dire a un certo punto: No, compagno Stalin”.
“Posso chiedere” disse il giornalista, con cautela, “Qual era l’argomento in discussione in quel momento?”. Rispose prontamente Molotov: “Certo che puoi! Il compagno Stalin mi ha chiesto se c’era qualcosa che aveva detto con cui non ero d’accordo”.
Siamo Degli Schiavi o Dei Re?
Molti di noi, dopo essere stati sottoposti a condizioni disfunzionali per un certo periodo, imparano in qualche modo a tollerare e accettarle come condizione innata della nostra vita. Questo può essere peggio della condizione stessa, poiché non garantisce alcuna via d’uscita.
Dobbiamo coltivare in noi stessi e nei nostri cari la sensazione di regalità. “La più grande tragedia”, ha detto il maestro chassidico Rabbi Aaron di Karlin, “è quando il principe crede di essere un contadino”, quando ti accontenti di poco perché pensi di essere destinato alla schiavitù. Non ti vedi come un principe, come un figlio di Dio, e quindi non hai la sensazione di poter riscrivere il tuo futuro e raggiungere il tuo potenziale finale.
Presidenti Dormiglioni
Non è questa la storia di alcune delle nostre vite? Dormiamo durante la nostra “presidenza”, dormiamo nelle grandi possibilità, poiché dimentichiamo che ciascuna delle nostre anime è infinita, un “frammento dei Hashèm”. Invece di vivere una vita di grandezza, ci accontentiamo della mediocrità. Dimentichiamo che, sebbene non sempre siamo grandi, siamo collegati a una grandezza al di là di noi stessi. Siamo i figli e le figlie della famiglia reale e ci è stato dato il dono di portare la guarigione nel mondo di Dio.
Ci convinciamo che non possiamo essere più gentili, più compassionevoli, meno arrabbiati o più comprensivi. Ci convinciamo che i nostri matrimoni sono destinati a fallire e che i litigi in casa siano eterni. Pensiamo come schiavi: quello che era ieri sarà domani, e io sono sempre una vittima. Quando ti vedi vittima, diventi una vittima!
È vero per noi come individui, come è stato per il popolo ebraico come collettività in Egitto, il mondo è imbarazzato dalle persone che sono imbarazzate con se stessi; il mondo rispetta e ammira le persone e i gruppi che rispettano se stessi e la loro identità.
Se ci convinciamo che possiamo diventare dei piccoli principi, contribuiamo a fare di questo mondo il luogo dove Hashèm avrà “il desiderio e il piacere” di rivelarsi apertamente e eternamente di essere riconosciuto da tutto come IL RE IN ETERNO. Presto ai nostri giorni con l’arrivo di Mashiàkh.
Basato sugli insegnamenti del rabbino Abraham ben Meir Ibn Ezra (1089-1164) nacque a Toledo, in Spagna nel 1089, e morì il 4 di Shevat (24 gennaio) 1167. Fu uno dei più illustri studiosi di Torà del Medioevo.
Tratto da uno scritto di Y. Y. Jacobson
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SHEMOT:
PERCHE’ MOSHE NON VUOLE VEDERE LA GRANDE RIVELAZIONE DEL CESPUGLIO?
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SHEMOT: PERCHE’ MOSHE NON VUOLE VEDERE LA GRANDE RIVELAZIONE DEL CESPUGLIO?
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La Parashà di Shemòt tratta in sintesi i seguenti argomenti:
Il popolo ebraico conosce una crescita demografica vertiginosa che suscita l’astio e l’insofferenza del nuovo sovrano egizio. Questi, percependo il fenomeno come una seria minaccia per il paese, impone al popolo ebraico lavori forzati di estrema durezza, ordinando dapprima alle levatrici di uccidere ciascun neonato ebreo e in seguito di gettare tutti i neonati maschi nel Nilo.
Un levita (‘Amràm) genera il suo terzo figlio. Il bambino, che irradia una particolare santità, viene tenuto nascosto dalla madre per tre mesi; in seguito, essa lo pone in una cassetta di giunco e lo lascia nel Nilo. Lì viene trovato dalla figlia del faraone, che gli attribuisce il nome di Moshè e decide di allevarlo a corte.
Moshè, adulto, esce dal palazzo per vedere il suo popolo e assistere di persona alle sue sofferenze. Testimone della violenza perpetrata nei confronti di un fratello ebreo da parte di un egizio, Moshè uccide quest’ultimo e si trova costretto a fuggire a Midyàn. Qui sposa Tzipporà, figlia dell’illustre Yitrò, e diviene pastore nel gregge del suocero.
HaShèm appare a Moshè in un roveto ardente, comandandogli di recarsi a salvare il popolo. Moshè tenta in diversi modi di sottrarsi alla missione, ma invano: è lui il redentore scelto da D-o. HaShèm rivela a Moshè tre segni per farsi accettare dal popolo come guida e liberatore, egli promette che nei suoi incontri con Par’ò verrà accompagnato dal fratello Aharòn, che gli farà da portavoce. Moshè intraprende il viaggio per l’Egitto insieme alla moglie e ai due figli.
Insieme al fratello Aharòn, Moshè annuncia al popolo ebraico la prossima redenzione ed esso crede alle sue parole. In seguito Moshè si rivolge a Par’ò con la richiesta di liberare il popolo, ma il crudele sovrano, invece di obbedire al comando divino, inasprisce ulteriormente la schiavitù rendendola insostenibile. Moshè se ne lamenta con HaShèm.
Nella porzione di questa settimana (Shemòt/Esodo) la Torà introduce la figura di Mosè, attraverso due episodi (Esodo cap 2):
“In quei giorni accadde che Mosè crebbe, uscì verso i suoi fratelli e ne constatò le sofferenze. Vide un egizio colpire uno dei suoi fratelli ebrei. Si voltò qua e là, vide che non c’era nessuno, così colpì a morte l’egizio e lo nascose nella sabbia”.
La Torà continua:
“Il giorno dopo uscì ed ecco, due ebrei che litigavano. Disse a quello malvagio: “Perché colpisci il tuo compagno?”. (L’uomo) gli rispose “Chi ti ha nominato autorità e giudice su di noi? Intendi forse uccidermi come hai ucciso l’egizio?”. Mosè ebbe timore…
Di conseguenza, fugge dall’Egitto. Solo più tardi riuscirà a ritornare per liberare il suo popolo dalla schiavitù.
Questi sono gli unici due aneddoti che la Torà condivide con noi sulla gioventù di Mosè in Egitto. La Torà sottolinea, rimarcandone in questo modo l’importanza, come la storia si è verificata durante due giorni consecutivi. Questo ci porta ad affermare che questi due episodi, in qualche modo, incapsulino la missione e il destino di Mosè e ne catturino la sua particolare storia. Come mai?
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MIDRASHIM
La Nascita di Moshè (Shemòt 2,2)
(a pagina 662 del volume Shemòt edizioni Mamash).
APPROFONDIMENTI KHASSIDICI
Il decreto di estinzione
(a pagina 704 del volume Shemòt edizioni Mamash).
Vita nel fiume
(a pagina 706 del volume Shemòt edizioni Mamash).
Moshè e Mashìakh
(a pagina 708 del volume Shemòt edizioni Mamash).
SHEMOT 5772: AMORE INFINITO E AMORE LIMITATO
Poiché l’amore verso un bambino piccolo è generalmente superiore di quello provato verso un adulto; come mai quando gli ebrei si trovano in esilio in Egitto HaShèm paragona Israèl ad un “PRIMOGENITO”, ovvero ad un adulto?
SHEMOT 5771 – CORAGGIO NEL CUORE DEL MALE!
ll valore di Batya =figlia di D-o.Questo nome le venne dato da Hashem, quando salvò Moshè. Come può la figlia del malvagio faraone diventare figlia di D-o. Il comportamento di Batya ci insegna come, di fronte alle avversità, non dobbiamo mai arrenderci, ma confidando in D-o, trovare le forze per andare avanti. Una piccola azione può sempre cambiare il mondo!
SHEMOT 5770 – PERCHE’ MOSHE NON VUOLE VEDERE LA GRANDE RIVELAZIONE DEL CESPUGLIO?
Il perché della sofferenza del popolo ebraico nell’esilio. Il cespuglio che brucia, ma non si consuma rappresenta tutte le generazioni future del popolo ebraico in esilio, le loro sofferenze e il loro riuscire a non piegarsi mai, a resistere di fronte a tutte le difficoltà. Moshè è disposto a non vedere la grande rivelazione, il fuoco indelebile del cespuglio e della presenza divina insita in essa, per non perdere la sensibilità verso il popolo ebraico, assurgendo con tale scelta al ruolo di futuro leader.
SHEMOT 5769 – COSTRUIRE CON LE PAROLE!
Le caratteristiche, gli attributi, le personalità non sono espresse dai nomi. Da un altro punto di vista il nome ha una forte valenza spirituale, costituendo un canale diretto con l’anima. Questi due concetti opposti si ritrovano nell’esilio, che rappresenta uno stato in cui la divinità è nascosta.
SHEMOT 5768 – IL RICORDO DI ESSERE STRANIERO IN ESILIO
La nascita della nazione di Israele ha inizio con il gesto salvifico di una donna pagana. L’importante missione data da D-o agli ebrei di combattere l’idolatria e il paganesimo, ha origine nella terra più impura, e dalla figlia del più grande idolatra, il faraone. Tutto ciò a dimostrare come il vero annullamento dell’idolatria viene dall’idolatria stessa.
SHEMOT 5767 – COME COSTRUIRE LA DIMORA DI D-O NEL MONDO
L’approcciarsi gentile del Faraone ha coinvolto, con parole morbide, gli ebrei nei lavori di produzione dei mattoni. Poi mano mano il sistema di lavoro è diventato più duro, distruggendoli psicologicamente, rendendoli schiavi. La missione in esilio del popolo ebraico è di elevare la materia, di trasformare la materia in santità, mostrando come le anche le cose che apparentemente sembrano distaccate dal Creatore, sono in realtà unite al divino. Nelle situazioni difficili, davanti al buio che ci circonda, l’unica risposta è di non subire gli ostacoli, ma scavalcare gli ostacoli, andando avanti.
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[…] le altre lezioni sulla parashà: https://virtualyeshiva.it/2021/01/06/shemot-5773-5-lezioni/ […]
Parole di grande saggezza! Quanta luce negli insegnamenti ci porta la Vs cultura
Per anni ho vissuto nel buio e nella totale incomprensione. L’unica cosa che sentivo certa dentro di me era l’esistenza del Signore e la Sua presenza in ogni cosa, in ogni momento. Grazie per insegnarmi la Sua Parola