VAYEKHI 5784: 10 LEZIONI
Questo Shabbàt 30 DICEMBRE 2023, 18 del mese di Tevèt 5784 leggeremo la Parashà di Vayekhì Gen. 47, 28-50, 26.
Si legge l’Haftarà di Melakhìm I 2,1-12
è difficile non cadere in impulsi di rabbia che sono dannosi per noi stessi per chi ci sta intorno e spesso sono molto distruttivi. Imparare a domarli non è un OPTIONAL bensì un MUST, perché poi si paga un prezzo molto caro.
Il nostro manuale di vita la Torà ci insegna nella 12° porzione le conseguenze disastrose che Reuven ha subito per essersi lasciato prendere dall’impulso e ha perso tutti tutto: PRIMOGENITURA, REGNO E SACERDOZIO.
La spiegazione di questo importante concetto al seguente link.
Inoltre ho anche messo un nuovo pdf di una lezione spaziale per leggere sulla tavola di Shabbàt.
12° Vaykhi:
IL TRUCCO PER NON ARRABIARSI
Reuven Perde Primogenitura, Dinastia Regale e Sacerdozio, Ma Per Ragioni Diverse
https://youtu.be/SZ4ZPlZMqGA
LA CHIAVE PER L’ETERNITÀ
Un ottimista è seduto con un pessimista, mentre aspettano l’autobus.
Il pessimista sospirando afferma: “purtroppo le cose non potrebbero andare peggio”.
“Non perdere la speranza! Sicuramente andranno molto peggio!”, gli risponde l’ottimista.
Fra le righe della porzione di questa settimana della Torà, la parashà di Vayekhì, possiamo trarre uno strepitoso insegnamento di vita nella insolita benedizione che il patriarca Ya’akòv dà a suo figlio Dan:
“NELLA TUA SALVEZZA IO PONGO LA MIA SPERANZA, O DIO” (Genesi 49, 18)
Ci si potrebbe chiedere come mai proprio Dan riceve la benedizione di sperare solo nella salvezza divina? Tra l’altro, più che una benedizione questa frase sembra essere una preghiera! Ya’akòv non avrebbe potuto benedire Dan dicendogli, ad esempio: tu avrai successo e prospererai, oppure sconfiggerai tutti i tuoi nemici… o frasi simili. Perché, invece, il grande patriarca sembra quasi che cerchi di impartire una lezione di vita o una lezione di fede in Dio, a uno dei suoi figli?
Come ogni insegnamento della Torà, anche questa benedizione ha un’applicazione pratica nella nostra vita quotidiana. Tuttavia, un “piccolo mistero rimane”, poiché, anche se tutti possono capire l’importanza concreta di una frase simile, qui la Torà ci sta dicendo qualcosa di più, del semplice significato! Quindi la scelta di Ya’akov, oltre a non essere casuale, ha un significato celato molto importante.
Per capire meglio occorre fare un breve excursus sul contesto di come nascono le benedizione di Ya’akov ai suoi figli.
Dopo essere sceso in Egitto, assieme a tutta la sua famiglia, il grande patriarca Ya’akov sente che la sua vita sta volgendo al termine e prima di lasciare i suoi figli vuole dare loro un grande messaggio, una grande rivelazione! Quindi li chiama e gli dice: “Radunatevi e vi dirò quel che vi accadrà alla fine dei giorni” (Genesi 49, 1).
Ya’akov desiderava rivelare il “segreto dei segreti”, ossia il momento in cui avverrà la Redenzione Finale, ma Dio gli impedisce di fare una simile rivelazione, quindi “blocca” lo spirito profetico di Ya’akov, momentaneamente e solo in relazione alla redenzione finale. Tuttavia, in una sorta di “risarcimento” a questo episodio, Dio permette a Ya’akov di benedire i suoi figli dando loro una forza che li accompagnerà in tutte le generazioni seguenti. Addirittura, il Talmùd arriva ad affermare: “Anche se è stato impedito a Ya’akov di rivelare il segreto della fine dell’esilio, le benedizioni che ha dato in cambio racchiudono tanti segreti e la storia del popolo di Israèl”. Come spiega Rashì i segreti celati da queste benedizioni dovrebbero essere studiati attentamente.
Il Segreto della Speranza
Qui cercheremo di focalizzaci su una di esse, quella che Ya’akov dà a suo figlio Dan: “LISHUATEKHA KIVITI HASHÈM – Nella Tua salvezza io pongo la mia speranza, o Dio”. Questa dichiarazione è così importante, al punto che riflette uno dei fondamenti dell’ebraismo. Essa viene ripetuta più volte al giorno nell’ordine della preghiera: prima di coricarsi, si usa dire questo verso per tre volte e molti la pronunciano prima di partire per un viaggio come protezione.
Come mai è così fondamentale questa frase?
Dice il midràsh a tal proposito: “Tutto dipende dalla SPERANZA! Il successo tramite la speranza, il perdono tramite la speranza, poiché tutto arriva grazie alla speranza”.
Un grande maestro Chassidico, il Rebbe di Slonim spiega nel suo libro, ‘Netivot Shalom’, come il midràsh ci vuole insegnare che il passe-partout, LA CHIAVE, per aprire tutte le porte è la FEDE e la SPERANZA. Ovvero quando una persona soffre amaramente con tanti problemi materiali e non vede davanti a sé una via d’uscita; oppure quando cerca di raggiungere un’elevazione spirituale ed essere più vicino a Dio, cercando di staccarsi dalla materialità; in entrambi i casi occorre possedere tanta fede e fiducia in Dio: “la chiave che apre tutte le porte”.
Nel Midràsh (Yalkut Shimoni, Salmi 40), si dipana meglio questo tema: “E se obiettassimo che c’è un limite alla speranza e alla fede?” Domanda il midràsh… che poi risponde: “È scritto, spera Israèl in Hashèm da ora fino all’eternità” (Salmo 131).
Non vi è dubbio che la fiducia e la speranza sono “gli ingredienti base” per nutrire l’anima umana, per renderla splendente, così da riportarla alla sua vera natura.
Tuttavia, non facciamo l’errore di pensare che la fiducia è una medicina per la psiche umana per sentirsi meglio e per avere più cose… Non è così! A volte infatti la “speranza” in Dio può essere trasformata dalla mente e dalla psiche umana, nella “fiducia” in se stessi, nei propri beni materiali, nelle proprie qualità o presunte tali. In questo modo non facciamo altro che alimentare il nostro ego e quando questo accade spesso rimaniamo delusi. Invece, possedere “fede e fiducia” in Dio, significa indirizzare questo sentimento in modo che diventi come una fiamma che accende la nostra anima, che alle volte è spenta proprio dal dominio del corpo e dall’eccesso di materia che ci circonda.
Una Speranza Prolifica
Ma perché Ya’akov decide di dare questa “medicina” proprio a Dan? In altre parole, cosa aveva di speciale Dan, per ricevere proprio lui la benedizione di non perdere la speranza?
Il libro di Be’er Moshe, dà la risposta: perché la tribù di Dan è la più povera tra tutte!
Questa frase perentoria può essere spiegata anche dal ruolo che la tribù di Dan svolge durante gli spostamenti del santuario del deserto: nell’ordine di marcia, Dan, è l’ultima tribù, il “fanalino di coda” delle altre. I suoi appartenenti svolgono l’essenziale, ma umilissimo compito di recuperare gli oggetti smarriti dalle altre tribù. Ma quale è il significato di questo? Quando tutte le tribù entrano al cospetto del loro saggio padre, per ricevere la loro benedizione, ognuna di esse entra con i propri figli e nipoti, ovviamente perché tutti fossero benedetti. Binyamìn, l’ultimo in ordine di nascita, ha ben dieci figli maschi e tanti altri nipoti ed è molto onorato di avere una gran bella famiglia.
E così, chi più chi meno, tutte le tribù hanno famiglie numerose, sane e forti. Poi, arriva Dan che invece ha solo un figlio e per di più questo figlio è sordo (Talmud Sotà 13).
Perciò quando Dan entra per ottenere la sua benedizione, Ya’akov vedendo la sua tristezza lo consola dicendo: “Dan! Non disperare! Sperando nel meglio vincerai sempre! Abbi fiducia che le strade dell’Onnipotente sono infinite”.
Sicuramente il figlio ha obbedito e applicato il GRANDE insegnamento del padre…
E le conseguenze del suo successo saranno evidenti, qualche secolo dopo, sotto gli occhi di tutti: quando i figli di Isral, dopo l’uscita dall’Egitto, sono contati nel deserto, della tribù di Binyamìn – che aveva dieci figli ai tempi di Ya’akov – ora arriva al numero di trentacinquemila persone; mentre quella di Dan, che aveva un solo figlio, si contano sessantaduemila persone, quasi il doppio di Binyamìn.
Questo è ciò che la benedizione di Dan ci insegna: “Nella Tua salvezza io pongo la mia speranza, o Dio!”
Proprio come dice il midràsh: TUTTO DIPENDE DALLA SPERANZA!
Oppure come recita un famoso detto italiano? La SPERANZA è l’ultima a morire!
TUTTO DIPENDE DALLA SPERANZA
Uno strepitoso insegnamento di vita possiamo trarre fra le righe della nostra porzione settimanale di Torà nella parashà di Vaykhì. Nella insolita benedizione che il patriarca Ya’akòv dà a suo figlio Dan impariamo un grande insegnamento di vita: NELLA TUA SALVEZZA IO PONGO LA MIA SPERANZA, O DIO.
Come mai proprio Dan riceve questa benedizione di sperare solo nella salvezza divina? Benedizione che può essere considerata più una preghiera. Ya’akòv avrebbe dovuto benedire Dan dicendogli: tu avrai successo e prospererai invece di impartire una lezione di vita o una lezione di fede in Dio. Sicuramente questa scelta ha un significato importante e come ogni insegnamento della Torà deve avere un’applicazione pratica nel nostro quotidiano. Tutti sappiamo che pensare bene fa sempre bene, ed è una chiave del successo della vita. Ma qui la Torà ci sta dicendo qualcosa di più!
Facciamo un passo indietro per capire cosa succede.
Ya’akòv sente che la sua vita sta volgendo al termine e prima di lasciare i suoi figli vuole dare loro un grande messaggio; perciò chiama i suoi figli e dice loro: “Radunatevi e vi dirò quel che vi accadrà alla fine dei giorni” (Genesi cap.49, 1).
Ya’akòv desiderava rivelare ai suoi figli un segreto, ossia il momento in cui avverrà la Redenzione Finale, ma Dio gli ha impedito questo, e di conseguenza il patriarca ha perso la profezia divina. In compenso, Ya’akòv decide di benedire i suoi figli dando loro una forza che li accompagnerà in tutte le generazioni seguenti. Il Talmùd dice che anche se è stato impedito a Ya’akòv di rivelare il segreto della fine dell’esilio, comunque le benedizioni che ha dato racchiudono tanti segreti e la storia del popolo di Israèl (come spiega Rashì: è bene studiare attentamente il significato delle benedizioni).
Cerchiamo di mettere il “focus” su una benedizione, quella che dà a suo figlio Dan: “LISHUATEKHA KIVITI HASHEM – NELLA TUA SALVEZZA IO PONGO LA MIA SPERANZA, O DIO (Genesi 49, 18).
Questa dichiarazione riflette probabilmente uno dei fondamenti del giudaismo, perché la diciamo più volte al giorno. Prima di coricarsi, si usa dire questo verso per tre volte, molti la pronunciano quando partono in viaggio come protezione per il viaggio stesso (dopo aver detto la preghiera per il viaggio).
Come mai così fondamentale questa frase?
Dice il Midrash a questo proposito: tutto dipende dalla SPERANZA! Il successo tramite la speranza, il perdono tramite la speranza e tutto arriva grazie alla speranza. Un grande maestro Chassidico, il Rebbe di Slonim, scrive nel suo libro ‘Netivot Shalom’ che il Midrash ci vuole insegnare che il PASSPARTOUT per aprire tutte le porte è la FEDE e la SPERANZA.
Sia quando una persona soffre amaramente con tanti problemi materiali e non vede davanti a lui una via d’uscita, oppure quando si cerca di raggiungere una elevazione spirituale ed essere più vicino a Dio, cercando di staccarsi dalla materialità, anche questo necessità la fede e la fiducia, che sono la chiave che apre tutte le porte”.
Nel Midrash (Yalkut Shimoni, Salmi 40), si accentua questo tema.
E se obiettassimo che c’è un limite alla speranza e alla fede?… è scritto, “Spererà Israele in Hashem da adesso fino all’eterno” (Salmo 131).
Non vi è dubbio che la fiducia e la speranza sono “prodotti base” per nutrire l’anima umana e renderla splendente come è nella sua natura. Non facciamo l’errore di pensare che la fiducia è una medicina per la psiche umana per sentirsi meglio… Non è così! Ma esse sono la fiamma che accende la nostra anima, che alle volte è spenta dal dominio del corpo e dall’eccesso di materia che ci circonda.
Ma perché Ya’akòv decide di dare questa “medicina” proprio a Dan???
In altre parole, cosa aveva di speciale Dan, per ricevere proprio lui la benedizione di non perdere la speranza?
Nel suo libro “Be’er Moshe”, dà la risposta. La tribù di Dan era la più povera tra tutte dice il Midrash, infatti Dan, nell’ordine dell’accampamento, era l’ultima tribù, come il fanalino di coda. Erano sempre gli appartenenti alla tribù di Dan coloro che smistavano gli oggetti smarriti, visto che erano gli ultimi.
C’è una ragione molto importante.
Quando sono entrate tutte le tribù dal saggio padre a prendere la benedizione ognuno è entrato con i propri figli e nipoti, ovviamente perché tutti fossero benedetti. Benyamin, che era l’ULTIMO figlio, aveva ben dieci figli maschi e tanti altri nipoti ed era molto onorato di avere una gran bella famiglia.
E così, chi più chi meno, tutti avevano famiglie numerose.
Dan aveva solo un figlio, e già era desolato per la piccola famiglia, e per di più questo figlio era sordo (Talmud Sotà 13).
Perciò quando Dan è entrato per ottenere la sua benedizione da suo padre, Ya’akov vide che era triste. Allora gli disse: Dan! Non disperare! Sperando nel meglio vincerai sempre! Abbi fiducia che le strade dell’Onnipotente sono infinite.
Sicuramente il figlio ha obbedito e applicato il GRANDE insegnamento del padre…
E le conseguenze di successo erano alla luce di tutti.
Quando i figli di Israèl uscirono dall’Egitto e furono contati nel deserto, della tribù di Benyamin – che aveva avuto dieci figli – erano state contate trentacinquemila persone, mentre Dan, che aveva un solo figlio, ne contava sessantaduemila, quasi il doppio di Benyamin.
Questo è ciò che la benedizione di Dan ci insegna: LISHUATEKHA KIVITI HASHEM – NELLA TUA SALVEZZA IO PONGO LA MIA SPERANZA, O DIO!
Proprio come dice il Midrash: TUTTO DIPENDE DALLA SPERANZA!
Come si dice in italiano? LA SPERANZA È L’ULTIMA A MORIRE!
Questa settimana ho pensato di inviare le 14 riflessioni in largo anticipo per aver tempo di studiarle tutte a Dio piacendo.
Una storia mi è molto piaciuta e la condivido con piacere.
*
In un supermercato del New Jersey, negli Stati Uniti, Michael nota una donna anziana di fronte a uno scaffale di marmellate che non riusciva a prendere perche’ posizionate troppo in alto e si offre di aiutarla.
Dopo che le ho consegnato le conserve di lampone, mi ha ringraziato, ha fatto una pausa e mi ha chiesto:
“Sai perché compro questa marca? “.
Ho risposto: “Perché ha un buon sapore? ”
“Sì, ha un buon sapore”.
Ha fatto di nuovo una pausa.
“Sono sopravvissuta alla Shoah. Durante la guerra, la famiglia proprietaria dell’azienda di marmellate ha nascosto la mia famiglia, quindi tutte le volte che vado al supermercato non mi dimentico mai di comprarne almeno una, anche i miei nipoti mi ricordano di farlo”.
L’azienda di marmellate si chiama Bonne Maman. I proprietari hanno nascosto e salvato famiglie ebree nella seconda guerra mondiale.
La città in cui vivevano si chiamava Biars sur Cere, che all’epoca aveva circa 800 abitanti. Nonostante il grande pericolo che correvano e i manifesti affissi per tutta la citta’ da parte dei nazisti e dei collaborazionisti che minacciavano di uccidere chiunque nascondesse gli ebrei, la famiglia ha rischiato la vita per salvare quella di famiglie ebree.
Via: Humans of Judaism
Un buon motivo per comprare prodotti Bonne Maman che sono anche kasher.
Anche oggi vi proponiamo due brani estratti dal libro “Saggezza Quotidiana” che commentano la parashà settimanale attraverso gli insegnamenti cassidici del Rebbe e dei suoi predecessori. La porzione della Torà che leggeremo questo Shabbàt è l’ultima del libro della Genesi.
Il primo insegnamento che possiamo trarre dagli scritti cassidici del Rebbe è come noi tutti siamo diversi. Tale affermazione oltre a poter sembrare un’ovvietà, sembra anche “cozzare” con un assioma della Torà: il fatto che in fondo tutti noi siamo uguali, poiché le nostre anime derivano o sono emanazioni di Hashèm. Come conciliare questi aspetti apparentemente incoerenti?
Anche se l’anima è una creazione o una parte di Hashèm essa si manifesta e agisce nel mondo attraverso un corpo, la parte materiale di una persona, che in qualche modo “nasconde” l’anima e il suo collegamento con Dio. Questo corpo poi cresce e si sviluppa in un certo ambiente, quindi ogni persona vive e cresce in maniera diversa da una altra: famiglie, paesi, filosofie, costumi e idee differenti. Pertanto, ognuno di noi sviluppa tratti di carattere, idee e tendenze differenti.
Questi aspetti sono delle “vesti” che ci permettono di pensare, parlare e agire in maniera unica, rispetto alle altre persone. Ogni uomo o donna, in sintesi, diventa un “mondo” differente con le sue peculiarità, nel bene e nel meno bene.
Nonostante ciò o forse proprio grazie a ciò l’essere umano ha una cosa che l’accomuna. E questa cosa è il “pensiero di Dio”, quando ha creato il mondo. In sostanza Hashèm ha voluto creare questo universo con uno scopo ben preciso. Tale scopo, frutto della Sua volontà, non è una variante indipendente da noi, neanche dalle nostre apparenti diversità. Ogni essere umano, infatti, ha una sua precisa missione che può e deve perseguire impiegando le sue peculiarità uniche. Questa missione è appunto la volontà di Hashèm, come si è manifestata nel suo pensiero della creazione.
Il primo brano del libro “Saggezza Quotidiana”, ci parla proprio di questo, quando, nelle sue benedizioni, Ya’akòv paragona alcune tribù a bestie selvagge (ad esempio, Yehudà a un leone, Binyamìn a un lupo) e altre ad animali domestici (ad esempio, Yissakhàr a un asino, Yossèf a un bue). Nonostante le loro diversità e qualità uniche ogni tribù in fondo si muoveva e si sarebbe mossa per realizzare lo scopo ultimo della creazione: rivelare il divino in questo mondo materiale con l’avvento dell’era messianica. Il secondo insegnamento che ci impartisce “Saggezza quotidiana” è che nonostante le nostre diversità le qualità di ognuno si possono intersecare e canalizzare per arrivare ad un unico obbiettivo. Proprio con il nostro agire differente influenziamo e siamo influenzati dagli altri, l’uomo si relaziona continuamente con il prossimo. Quindi, sebbene ognuno di noi abbia un ruolo unico nella missione divina di rendere questo mondo la casa di Hashèm, siamo tutti coinvolti, in una certa misura, anche nei ruoli svolti da altri.
Il secondo Brano del libro “Saggezza Quotidiana” ci suggerisce tre percorsi che possono aiutarci a realizzare questa “missione Collettiva” assieme al prossimo, o per meglio dire grazie alle qualità del prossimo.
STRADE DIVERSE PER UN’UNICA META
Vaykhi
La Fine dell’Era Patriarcale
Genesi da 47, 28 fino a 50, 26
La dodicesima e ultima porzione del libro della Genesi narra dell’ultimo periodo della vita di Ya’akòv e della successione di suo figlio Yossèf. Ya’akòv vive (vaykhì, “e visse” in ebraico) gli ultimi diciassette anni della sua vita in Egitto. Oltre a dedicarsi permanentemente all’educazione morale dei suoi discendenti, Ya’akòv organizza la sua famiglia in tribù per prepararla al suo destino spirituale, pertanto lascia in eredità a ciascuna di esse le sue caratteristiche spirituali uniche. Dopo la sua morte, i figli di Ya’akòv lo seppelliscono nella tomba di famiglia a Khevròn. Questa porzione si chiude con la morte di Yossèf e la sua rassicurazione che Hashèm, alla fine, li riporterà nella Terra Promessa.
*
Bereshìt 49, 19–26
Nella sua benedizione a suo figlio Naftalì, Ya’akòv predice che la sua porzione della Terra Promessa sarà veloce a maturare i suoi frutti, paragonando questa rapidità con quella di un cervo.
Distacco e Devozione
Naftalì è una gazzella spedita. (49, 21)
Nelle sue benedizioni, Ya’akòv paragona alcune tribù a bestie selvagge (ad esempio, Yehudà a un leone, Binyamìn a un lupo) e altre ad animali domestici (ad esempio, Yissakhàr a un asino, Yossèf a un bue).
Le tribù, paragonate agli animali selvatici, sono caratterizzate da un amore appassionato per Hashèm e da un desiderio di sfuggire all’esistenza materiale, per unirsi a Lui. Le tribù paragonate agli animali domestici – la cui natura è di obbedire e accettare il lavoro affidatogli – sono caratterizzate dalla sottomissione al compito di rivelare la santità all’interno dell’esistenza materiale.
Ya’akòv conclude benedicendo tutte le tribù con le caratteristiche uniche e individuali di ognuna di loro. Pertanto, sebbene ogni tribù conservi la sua particolare enfasi sulla missione divina di Israèl,
essa può e deve incorporare i percorsi delle altre tribù all’interno del proprio. Pertanto, tutti noi incarniamo questi due modi di relazionarci con il mondo: da un lato siamo desiderosi di trascenderlo e allo stesso tempo vogliamo lavorare per perfezionarlo.
*
Bereshìt 49, 27 – 50, 20
Ya’akòv conclude le benedizioni ai suoi figli benedicendoli tutti con le caratteristiche uniche di ciascuna tribù.
Unità nella Comunità
[Ya’akòv] li benedisse ciascuno, secondo la sua benedizione. (49, 28)
Sebbene ognuno di noi abbia un ruolo unico nella missione divina di rendere questo mondo la casa di Hashèm, siamo tutti coinvolti, in una certa misura, anche nei ruoli svolti da altri. Ci sono tre modi, sempre più efficaci, per realizzare questo:
• Ci concentriamo tutti, esclusivamente, sui nostri compiti personali, ma – dal momento che stiamo lavorando per lo stesso obiettivo – condividiamo tutti i risultati delle nostre realizzazioni separate.
• Invitiamo e incoraggiamo altre persone a partecipare, occasionalmente, all’attività personale a cui siamo più legati.
• Quando periodicamente svolgiamo compiti diversi, da quello che ci contraddistingue, ci immergiamo in essi allo stesso modo di quando svolgiamo il nostro compito personale.
Partecipare ai reciproci sforzi favorisce l’unità di Israèl, rendendoci degni delle benedizioni di Hashèm, inclusa – e soprattutto – la benedizione definitiva, la Redenzione Messianica.
In memoria del mio carissimo amico Rav Haim Moshe Mordechai ben Dovber Shaikevitz
LA CHIAVE PER L’ETERNITÀ
Un ottimista è seduto con un pessimista, mentre aspettano l’autobus.
Il pessimista sospirando afferma: “purtroppo le cose non potrebbero andare peggio”.
“Non perdere la speranza! Sicuramente andranno molto peggio!”, gli risponde l’ottimista.
Fra le righe della porzione di questa settimana della Torà, la parashà di Vayekhì, possiamo trarre uno strepitoso insegnamento di vita nella insolita benedizione che il patriarca Ya’akòv dà a suo figlio Dan:
“NELLA TUA SALVEZZA IO PONGO LA MIA SPERANZA, O DIO” (Genesi 49, 18)
Ci si potrebbe chiedere come mai proprio Dan riceve la benedizione di sperare solo nella salvezza divina? Tra l’altro, più che una benedizione questa frase sembra essere una preghiera! Ya’akòv non avrebbe potuto benedire Dan dicendogli, ad esempio: tu avrai successo e prospererai, oppure sconfiggerai tutti i tuoi nemici… o frasi simili. Perché, invece, il grande patriarca sembra quasi che cerchi di impartire una lezione di vita o una lezione di fede in Dio, a uno dei suoi figli?
Come ogni insegnamento della Torà, anche questa benedizione ha un’applicazione pratica nella nostra vita quotidiana. Tuttavia, un “piccolo mistero rimane”, poiché, anche se tutti possono capire l’importanza concreta di una frase simile, qui la Torà ci sta dicendo qualcosa di più, del semplice significato! Quindi la scelta di Ya’akov, oltre a non essere casuale, ha un significato celato molto importante.
Per capire meglio occorre fare un breve excursus sul contesto di come nascono le benedizione di Ya’akov ai suoi figli.
Una Profezia Frammentata
Dopo essere sceso in Egitto, assieme a tutta la sua famiglia, il grande patriarca Ya’akov sente che la sua vita sta volgendo al termine e prima di lasciare i suoi figli vuole dare loro un grande messaggio, una grande rivelazione! Quindi li chiama e gli dice: “Radunatevi e vi dirò quel che vi accadrà alla fine dei giorni” (Genesi 49, 1).
Ya’akov desiderava rivelare il “segreto dei segreti”, ossia il momento in cui avverrà la Redenzione Finale, ma Dio gli impedisce di fare una simile rivelazione, quindi “blocca” lo spirito profetico di Ya’akov, momentaneamente e solo in relazione alla redenzione finale. Tuttavia, in una sorta di “risarcimento” a questo episodio, Dio permette a Ya’akov di benedire i suoi figli dando loro una forza che li accompagnerà in tutte le generazioni seguenti. Addirittura, il Talmùd arriva ad affermare: “Anche se è stato impedito a Ya’akov di rivelare il segreto della fine dell’esilio, le benedizioni che ha dato in cambio racchiudono tanti segreti e la storia del popolo di Israèl”. Come spiega Rashì i segreti celati da queste benedizioni dovrebbero essere studiati attentamente.
Il Segreto della Speranza
Qui cercheremo di focalizzaci su una di esse, quella che Ya’akov dà a suo figlio Dan: “LISHUATEKHA KIVITI HASHÈM – Nella Tua salvezza io pongo la mia speranza, o Dio”. Questa dichiarazione è così importante, al punto che riflette uno dei fondamenti dell’ebraismo. Essa viene ripetuta più volte al giorno nell’ordine della preghiera: prima di coricarsi, si usa dire questo verso per tre volte e molti la pronunciano prima di partire per un viaggio come protezione.
Come mai è così fondamentale questa frase?
Dice il midràsh a tal proposito: “Tutto dipende dalla SPERANZA! Il successo tramite la speranza, il perdono tramite la speranza, poiché tutto arriva grazie alla speranza”.
Un grande maestro Chassidico, il Rebbe di Slonim spiega nel suo libro, ‘Netivot Shalom’, come il midràsh ci vuole insegnare che il passe-partout, LA CHIAVE, per aprire tutte le porte è la FEDE e la SPERANZA. Ovvero quando una persona soffre amaramente con tanti problemi materiali e non vede davanti a sé una via d’uscita; oppure quando cerca di raggiungere un’elevazione spirituale ed essere più vicino a Dio, cercando di staccarsi dalla materialità; in entrambi i casi occorre possedere tanta fede e fiducia in Dio: “la chiave che apre tutte le porte”.
Nel Midràsh (Yalkut Shimoni, Salmi 40), si dipana meglio questo tema: “E se obiettassimo che c’è un limite alla speranza e alla fede?” Domanda il midràsh… che poi risponde: “È scritto, spera Israèl in Hashèm da ora fino all’eternità” (Salmo 131).
Non vi è dubbio che la fiducia e la speranza sono “gli ingredienti base” per nutrire l’anima umana, per renderla splendente, così da riportarla alla sua vera natura.
Tuttavia, non facciamo l’errore di pensare che la fiducia è una medicina per la psiche umana per sentirsi meglio e per avere più cose… Non è così! A volte infatti la “speranza” in Dio può essere trasformata dalla mente e dalla psiche umana, nella “fiducia” in se stessi, nei propri beni materiali, nelle proprie qualità o presunte tali. In questo modo non facciamo altro che alimentare il nostro ego e quando questo accade spesso rimaniamo delusi. Invece, possedere “fede e fiducia” in Dio, significa indirizzare questo sentimento in modo che diventi come una fiamma che accende la nostra anima, che alle volte è spenta proprio dal dominio del corpo e dall’eccesso di materia che ci circonda.
Una Speranza Prolifica
Ma perché Ya’akov decide di dare questa “medicina” proprio a Dan? In altre parole, cosa aveva di speciale Dan, per ricevere proprio lui la benedizione di non perdere la speranza?
Il libro di Be’er Moshe, dà la risposta: perché la tribù di Dan è la più povera tra tutte!
Questa frase perentoria può essere spiegata anche dal ruolo che la tribù di Dan svolge durante gli spostamenti del santuario del deserto: nell’ordine di marcia, Dan, è l’ultima tribù, il “fanalino di coda” delle altre. I suoi appartenenti svolgono l’essenziale, ma umilissimo compito di recuperare gli oggetti smarriti dalle altre tribù. Ma quale è il significato di questo? Quando tutte le tribù entrano al cospetto del loro saggio padre, per ricevere la loro benedizione, ognuna di esse entra con i propri figli e nipoti, ovviamente perché tutti fossero benedetti. Binyamìn, l’ultimo in ordine di nascita, ha ben dieci figli maschi e tanti altri nipoti ed è molto onorato di avere una gran bella famiglia.
E così, chi più chi meno, tutte le tribù hanno famiglie numerose, sane e forti. Poi, arriva Dan che invece ha solo un figlio e per di più questo figlio è sordo (Talmud Sotà 13).
Perciò quando Dan entra per ottenere la sua benedizione, Ya’akov vedendo la sua tristezza lo consola dicendo: “Dan! Non disperare! Sperando nel meglio vincerai sempre! Abbi fiducia che le strade dellOnnipotente sono infinite”.
Sicuramente il figlio ha obbedito e applicato il GRANDE insegnamento del padre…
E le conseguenze del suo successo saranno evidenti, qualche secolo dopo, sotto gli occhi di tutti: quando i figli di Israèl, dopo l’uscita dall’Egitto, sono contati nel deserto, della tribù di Binyamìn – che aveva dieci figli ai tempi di Ya’akov – ora arriva al numero di trentacinquemila persone; mentre quella di Dan, che aveva un solo figlio, si contano sessantaduemila persone, quasi il doppio di Binyamìn.
Questo è ciò che la benedizione di Dan ci insegna: “Nella Tua salvezza io pongo la mia speranza, o Dio!”
Proprio come dice il midràsh: TUTTO DIPENDE DALLA SPERANZA!
Oppure come recita un famoso detto italiano? La SPERANZA è l’ultima a morire!
un caro Shabbàt Shalom
Rav Shlomo Bekhor
La Parashà Vayekhì di tratta in sintesi i seguenti argomenti:
Ya’akòv, sentendo prossima la morte, fa giurare a Yossèf di non seppellirlo in Egitto, bensì nel luogo in cui giacciono i suoi padri. Yossèf giura di fare secondo la volontà del padre.
Yossèf conduce i figli, Menashé ed Efràyim dal padre malato. Ya’akòv benedice prima Efràyim e poi Menashé, ponendo in maniera inconsueta la mano destra sul capo del secondogenito. Yossèf tenta di correggere il padre, il quale gli spiega il motivo del suo gesto.
Ya’akòv raduna tutti i suoi figli e benedice ciascuna tribù. In seguito dà disposizioni per la sua sepoltura, che dovrà avvenire nella grotta grande di Makhpelà, dove giacciono i suoi padri. Ya’akòv esala l’ultimo respiro.
Yossèf ordina che suo padre sia imbalsamato, rituale che richiede quaranta giorni. L’Egitto piange Ya’akòv per settanta giorni. Ottenuta l’autorizzazione del faraone, Yossèf parte con tutta la famiglia e i numerosi dignitari d’Egitto a seppellire il padre. Grandi esequie e lutto di una settimana.
Sepolto Ya’akòv, Yossèf e i fratelli ritornano in Egitto. I fratelli vedono ora la scomparsa del padre come l’opportunità per Yossèf di vendicarsi per il torto da loro subito in passato. Yossèf li rassicura e dice loro che il male da loro compiuto in passato è stato volto in bene da HaShèm.
Yossèf vive in tutto centodieci anni. Prima di morire ricorda ai fratelli che torneranno nella terra promessa da HaShèm ad Avrahàm e Yitzkhàk; li fa giurare che porteranno via le sue spoglie dall’Egitto. Viene imbalsamato e sepolto in Egitto.
EBRAISMO E FEMMINISMO SONO INCOMPATIBILI?
Nella benedizione di Yaakòv ai figli è celato un grande insegnamento per saper vivere l’esilio. Menashè e Efràyim: due modi per affrontare il nuovo mondo, con la nostalgia del passato o con la trasformazione del negativo in positivo.
In memoria di Yaakov ben Shelomo
לעילוי נשמת יעקב בן שלמה ורחל
LA LUCE DI UN MURO DI FUOCO
Cosa c’è per cena?
A una cena organizzata all’aperto per una festività non ebraica, il piatto principale era il prosciutto cotto con patate dolci. Il rabbino Cohen, mentre passava di lì, uscendo dalla sinagoga, scosse con rammarico la testa quando qualcuno provò a offrirgli quel piatto.
Lo rimproverò scherzosamente padre Kelly, l’organizzatore di quell’evento: “Quando dimenticherai quella tua sciocca regola e mangerai prosciutto come tutti noi?”.
Senza scomporsi neanche un capello, il rabbino Cohen rispose: “Al tuo ricevimento di nozze, padre Kelly”.
Infiniti Strati Di Profondità
Uno degli elementi più affascinanti dello studio della Torà è come alcune parole criptiche e apparentemente irrilevanti contengono in sé una profondità straordinaria. Un vero e proprio specchio che riflette idee profonde del regno della filosofia e della psicologia.
Un esempio di queste verità lo troviamo nella porzione della Torà di questa settimana. Quando la parashà Vayekhì, descrive l’addio di Giacobbe ai suoi figli, prima della sua dipartita da questo mondo: “E Giacobbe chiamò i suoi figli dicendo: radunatevi e vi dirò quel che vi accadrà alla fine dei giorni” (Genesi 49, 1). Giacobbe poi continua a rivolgersi a ciascuno dei suoi figli, descrivendo il loro carattere, i loro difetti e punti di forza e il loro destino.
Quando viene il turno di Giuseppe, queste sono le parole di Giacobbe: “Giuseppe è un figlio grazioso, un figlio grazioso allo sguardo; le ragazze scavalcano (i muri) per guardarlo. Lo amareggiarono e si fecero suoi nemici (i suoi fratelli); lo detestarono gli arcieri…”.
Cosa sta cercando di comunicare Giacobbe con queste parole? È credibile pensare che voglia semplicemente parlare della bellezza abbagliante di Giuseppe, sottolineando come è affascinante, soprattutto per le donne egiziane che addirittura scavalcano i muri per osservarlo? La domanda sorge spontanea! Questi sono concetti così rilevanti sul letto di morte di Giacobbe?
I Limiti Della Santità
C’è una legge interessante nell’ebraismo, riguardante le offerte sacre nel Sacro Tempio di Gerusalemme. La maggior parte delle offerte di grano o di animali, sarebbe stata mangiata dai sacerdoti del servizio (Cohanìm) o dalle persone che hanno portato l’offerta, o da entrambi. Alcune offerte dovevano rimanere all’interno dei confini del Santo Tempio stesso, mentre altre potevano essere consumate all’interno delle mura della Città Vecchia di Gerusalemme. Ma a nessuna offerta fu mai permesso di uscire dalle mura di Gerusalemme, poiché ciò avrebbe profanato la sua santità e sarebbe diventata inutilizzabile.
Ora, il Primo Tempio fu eretto dal re Salomone nell’anno 2928 dalla Creazione (832 e.v.), esattamente 440 anni dopo che gli ebrei entrarono in terra di Israèl. Esso si trovava, parzialmente, nel territorio della tribù di Giuda (poiché l’intera Terra era divisa tra le dodici tribù di Israèl). Tuttavia, nei primi quattro secoli i sacrifici venivano offerti nel Mishkàn, il Tabernacolo: il Santuario portatile che serviva al popolo di Israèl nei suoi viaggi nel deserto. Dopo l’entrata del popolo di Israèl nella Terra Promessa, ai tempi di Giosuè, il Mishkàn fu eretto a Shilò, nel territorio di Giuseppe. Il Santuario di Shilò fu l’epicentro spirituale del popolo ebraico per 369 anni, fino alla sua distruzione da parte dei Filistei nel 2872 circa (888 e.v.).
Ora, c’era un affascinante contrasto tra il Mishkàn (Tabernacolo) di Shilò e il Tempio di Gerusalemme, per quanto riguarda le leggi sul consumo delle offerte. Mentre le offerte del Tempio potevano essere consumate solo all’interno delle mura di Gerusalemme, quelle del Tabernacolo di Shilò potevano essere consumate in qualsiasi luogo da cui si poteva vedere il Mishkàn. Un luogo era adatto per il consumo dei santi sacrifici, anche se si trattava di una montagna a decine di miglia di distanza, purché si poteva vedere anche solo una parte del Tabernacolo di Shilò. È come se la santità di Shilò si estendesse a perdita d’occhio. Al contrario la santità del Tempio – una struttura in pietra concepita sin dall’inizio per essere una dimora per Hashèm più grande, imponente e stabile – si estendeva solo alle mura dell’antica città di Gerusalemme. Strano no?
L’Occhio Santo
Ma allora, quale è il vero significato di questa differenza, tra i due edifici? I Saggi del Talmud, spiegano il significato della parola “grazioso” nel versetto sopra citato, dove Giacobbe dice di Giuseppe: “… un figlio grazioso, un figlio grazioso allo sguardo…”.
La parola ebraica per “GRAZIOSO”, Poràt, può anche essere tradotta come “fecondo o abbondante”. Le parole ebraiche per SGUARDO (ossia occhio), Alè Ayin, possono anche essere tradotte “a causa dello sguardo o occhio”. In questo modo possiamo meglio decifrare le parole di Giacobbe a suo figlio: “Giuseppe è un figlio FECONDO; un figlio fecondo, per via DELLO SGUARDO”.
Sempre nel Talmud è scritto che il rabbino Abbàhu afferma: la Torà dice che Giuseppe è un figlio fecondo a causa dell’occhio, ossia che ha un occhio che si rifiuta di nutrirsi o di godere di ciò che non gli appartiene e per questo merita di mangiare dai sacrifici tanto lontano quanto la vista lo permette.
Inoltre sia il versetto, sia il Talmùd si riferiscono all’episodio in cui Giuseppe si rifiutò di permettere ai suoi occhi di trarre spunto dalla bellezza e dalla seduzione della principessa egiziana, la moglie di Potifàr, che cercava disperatamente di tentarlo in comportamenti promiscui. Lei non apparteneva a lui, quindi Giuseppe distolse lo SGUARDO da lei. Qual è la ricompensa per questo tipo di autocontrollo? La ricompensa è che otteniamo più di quello che dovevamo avere! Quando proteggiamo i nostri occhi da ciò che non ci appartiene, permettiamo ad essi di espandersi e conquistare tutto ciò che ci appartiene, ossia fino a dove arriva il nostro sguardo. Quindi, nel Tabernacolo di Shilò, stanziato appunto nel territorio di Giuseppe, si può godere dei sacrifici in tutto il territorio da cui l’occhio può vedere il Tabernacolo. Questo è stato un privilegio concesso solo per il tabernacolo di Shilò, un privilegio che non poteva vantare neanche il Tempio di Gerusalemme.
Basta Uno Sguardo Per Evitare Un Conflitto?
Il rabbino Yossef Ròsen, il grande genio del 20° secolo, conosciuto come il Rogatchòver Gaon, spiega brillantemente la continuazione delle parole di Giacobbe: “le ragazze scavalcano (i muri) per guardarlo”. Dal momento che in Shilò, territorio di Giuseppe, ciò che conta per il consumo dei sacrifici non è la posizione del Tempio o della città di Shilò, ma il fatto di poter vedere o meno il Tabernacolo, perciò le donne cercavano in tutti i modo di guardare Giuseppe. Questo simboleggia il fatto che un giorno le persone semplicemente guardando il Tabernacolo di Shilò, in rappresentanza di Giuseppe, avrebbero potuto mangiare i sacrifici anche se molto lontano.
Eppure c’è ancora qualcosa che non va! Qual è il legame tra Giuseppe che non guarda la moglie di Potifàr e il Tabernacolo di Shilò che ha il privilegio di conferire santità a grandi distanze in modo da poter mangiare le sue offerte sacre ovunque gli occhi vedano il Tabernacolo?
È una strana correlazione! Come ricompensa per aver custodito i suoi occhi in Egitto, centinaia di anni dopo, le persone potranno mangiare sacrifici dal Tabernacolo di Shilò in un territorio più vasto? Cosa c’entra questo con l’astenersi dalla moglie di Potifàr?
Per comprendere meglio, dobbiamo continuare a esplorare le parole di Giacobbe a Giuseppe: “…Lo amareggiarono e si fecero suoi nemici (i suoi fratelli); lo detestarono gli arcieri”.
Ciò indica che la ricompensa di Giuseppe a Shilò, grazie al suo sguardo, è in qualche modo collegata al conflitto tra lui e i suoi fratelli. Cosa c’era alla base del conflitto nella prima famiglia di Israele? Potrebbe essere che un cappotto multicolore o l’aperto e manifesto affetto di suo padre possono generare conflitti e animosità così profondi? Perché i fratelli di Giuseppe hanno complottato per ucciderlo e lo detestavano così profondamente? Perché gettarlo in una fossa e poi venderlo come schiavo solo perché aveva fatto un sogno in cui si sarebbero inchinati a lui? È stato o no un piccolo conflitto tra fratelli?
Hashèm Sovrano Di Pochi O Di Tutti?
Giuseppe e Giuda (il quale rappresenta anche gli altri fratelli) incarnavano due divergenti visioni del mondo. Possedevano approcci diversi al significato dell’ebraismo, appena iniziato a germogliare, e sul posto del popolo ebraico nella società e nella storia. Questo conflitto, in una certa misura, persiste anche oggi nel mondo ebraico.
Giuda credeva che la santità potesse prosperare in solitudine. La famiglia ebrea deve rimanere isolata dietro un muro fisico o concettuale che lo separi dalle influenze esterne. I fratelli di Giuseppe erano pastori e non a caso, quando arrivarono in Egitto dissero al Faraone che questa era stata la loro occupazione per tutta la vita (Genesi 46, 32). Hanno scelto questa vocazione perché hanno trovato la vita del pastore – una vita di solitudine, in comunione con la natura distante dal tumulto e dalle vanità della società – più favorevole alle loro ricerca di spiritualità. Potevano voltare le spalle agli affari mondani dell’uomo, contemplare la maestosità del Creatore e servirlo con una mente chiara e un cuore tranquillo.
Giuseppe, invece, credeva che l’ebraismo dovesse essere “universalista”, ossia che si dovesse fare carico della responsabilità di trasformare tutta la società umana. La santità non doveva essere relegata all’interno del mondo ebraico, ma doveva essere portata allo scoperto. Secondo Giuseppe non è sufficiente mantenere la propria fede e coscienza spirituale, ben salda e potente, in una sorta di “un bozzolo celeste”. Secondo Giuseppe occorre entrare nella società tradizionale e diventare “il grande distributore” di grano spirituale per la società.
Ora, il fatto che Giuseppe, nella sua qualità di viceré dell’Egitto, fosse stato il sovrano del paese e fu lui che vendette il grano a tutta la popolazione della terra, non era solo una descrizione del suo ruolo di Primo Ministro. Esso è l’essenza stessa della missione spirituale, come concepita e intesa da Giuseppe: una persona può nutrire, sostenere e ispirare il mondo intero. Giuseppe sottolineava la missione del popolo ebraico come “luce per le nazioni”.
Quanto sopra è intimamente legato a questo passaggio, apparentemente sorprendente, sempre in Genesi (44, 9), quando Giuseppe finalmente, una volta rivelata la sua identità ai fratelli, manda questo messaggio a suo padre Giacobbe: “Dio mi ha fatto diventare il signore in tutto l’Egitto”. Pensava davvero che questo potesse impressionare il suo vecchio santo padre? Come a dire: “Adesso dico a mio padre che sono diventato il primario dell’ospedale! Ma come! Giacobbe, l’uomo pio che abitava nelle tende, dedito a studiare la Torà, giorno e notte per elevarsi spiritualmente, non avrebbe forse apprezzato di più un messaggio sul progresso spirituale di suo figlio?!
Infatti c’è molto di più! I maestri chassidici presentano un’interpretazione profondamente commovente delle sue parole. Le quali dovrebbero essere tradotte in modo leggermente diverso: “Ho fatto di Dio il Signore in tutto l’Egitto!”. Grande differenza…no? Questa era la vera dichiarazione di Giuseppe. Una sintesi della sua missione nel mondo: non è sufficiente che Dio governi il cielo e la “piccola” enclave ebraica; la missione è quella di trasformare Hashèm in un sovrano di tutto l’Egitto!
La Prova Di Giuseppe
I fratelli avevano una visione diversa e per questo vedevano Giuseppe come una minaccia. Loro temevano che sotto il suo comando il popolo ebraico sarebbe stato corrotto e assimilato, anche prima che avesse avuto la possibilità di svilupparsi come nazione. Potevano tollerare Giuseppe come individuo, ma quando scoprirono che si vedeva come il re di Israèl e tutti si sarebbero prostrati dinnanzi a lui, per loro questo scenario significava la fine del popolo ebraico e dell’ebraismo. Quindi, Giuda temeva che la filosofia di Giuseppe avrebbe messo in pericolo il futuro del popolo ebraico. Ma come neutralizzare in modo sicuro questa minaccia?
Simone e Levi, che avevano già combattuto contro l’assimilazione e la cultura dell’immoralità – quando decimarono la città di Shekhèm dopo il rapimento e lo stupro della sorella Dina – progettarono semplicemente di uccidere Giuseppe. Tuttavia, Giuda obiettò dicendo: “Che guadagno avremmo se uccidessimo nostro fratello?” (Genesi 37, 26). O per meglio dire, per Giuda, il vero pericolo non era Giuseppe, ma la sua mentalità. Quindi è come se avesse detto ai fratelli: “Anche se lo uccidiamo, la sua ideologia rimarrà”. Quindi Giuda pensò bene di mettere alla prova le idee di Giuseppe, vendendolo ai mercanti non ebrei. In questo modo Giuda pensava che sentendosi assimilato Giuseppe avrebbe cambiato idea e abbandonato la sua ideologia “rivoluzionaria”. E alla fine sarebbe ritornato pentito dai suoi fratelli e al loro stile di vita.
Una Grande Lezione Sulle Tentazioni
Non solo i fratelli hanno errato nel loro giudizio su Giuseppe e sulla santità della sua missione, ma due brani della Torà mettono in risalto, con una tremenda ironia, una sostanziale differenza nell’approccio tra la mondanità dei fratelli e quella di Giuseppe. Nella Torà infatti ci sono due storie contrappone nei capitoli 38 e 39 di Genesi:
a) Nella prima, Giuda, il “campione della solitudine ebraica”, incontra e intrattiene una fugace relazione con una donna che hai suoi occhi appare come una prostituta.
b) Mentre, nella seconda storia, Giuseppe, l’ebreo “universalista”, che serve come schiavo nella società egiziana, rifiuta la seduzione della moglie del suo padrone. Pagando questo rifiuto con la sua stessa libertà, finisce per trascorrere 12 anni in prigione perché non era pronto a vendere la sua anima e a compromettere la sua lealtà a Dio e al suo padrone.
Wow! Giuseppe la “pecora nera” della famiglia – quella accusata di tendenze “assimilazioniste” – emerge, invece come il più puro degli spiriti! Lui, più dei suoi fratelli, porta la fiamma della santità e della purezza anche nel luogo più moralmente depravato. Lui, più di chiunque altro, è permeato della coscienza di Hashèm, con la quale ha influenzato profondamente tutto il suo ambiente, il posto più impuro del mondo di allora l’Egitto!
Questo perché quando ci si allena per essere santi solo in un ambiente di santità, nel momento in cui si è esposti alle tentazioni “della strada”, si può perdere tutto in un istante. Invece, solo quando impariamo a rivelare e vedere Hashèm all’interno di ogni aspetto del mondo materiale, possiamo essere sicuri che, anche quando incontreremo delle tentazioni, queste non ci faranno vacillare.
Il Tabernacolo Di Shilò E Il Tempio
In che modo questa distinzione è rappresentata nella storia ebraica? Le differenze ideologiche tra Giuseppe e Giuda si riflettono, infatti nel Tempio di Gerusalemme, situato nel territorio di Giuda, e il Tabernacolo di Shilò, situato nel territorio di Giuseppe.
Come scritto sopra, solo a Shilò le offerte potevano essere consumate fuori dalle mura della città, fintanto che il Tabernacolo era visibile. Invece, le offerte del Tempio a Gerusalemme potevano essere mangiate solo all’interno delle mura della città santa.
I due luoghi, i due santuari e i due fratelli simboleggiano due fondamentali orientamenti diversi:
a) Per Giuda, la nostra funzione principale è quella di creare un’oasi di santità e trascendenza. La santità deve essere protetta e isolata in modo da non essere corrotta e distorta. Come nel Tempio di Gerusalemme, e come pretendeva l’ideologia di Giuda, occorre avere un muro per separare il santo dal mondano. Analogamente, infatti non si potevano mai portare i santi sacrifici fuori dalle mura di Gerusalemme, perché solo all’interno dei confini delle mura può prosperare la santità. Se porti i santi sacrifici fuori dalle sue mura, li contamini distruggendo la loro santità. Stessa cosa se porti l’ebraismo “fuori dal muro”, dal recinto di santità, lo contamini e lo distruggi.
b) Per Giuseppe, invece la missione primaria dell’ebraismo è diffondere la santità del Divino diffondendo il monoteismo nel mondo. Pertanto, la santità del Tabernacolo di Shilò – nella porzione di Giuseppe in Terra Santa – si diffondeva ben oltre ogni muro. Dovunque ci si trovi, finché si può aprire gli occhi e “vedere” Giuseppe, ossia finché si può osservare la santità del Tabernacolo di Shilò, si è in un luogo santo, dove si possono consumare i santi sacrifici.
Questo è il significato delle parole del Talmùd. Giuseppe potrebbe trovarsi in un abisso spirituale, nella casa di Potifàr, tentato dalla promiscuità. Tuttavia, questo non importa! La sua abilità unica era quella di “aprire gli occhi” e di percepire il Divino proprio lì con lui, rifiutando così la seduzione della moglie di Potifàr. Per questo dicono i saggi che Giuseppe, in quel frangente: “Ha visto l’immagine di suo padre Giacobbe nella finestra”. Nel dubbio della depravazione, è risuscito a percepire il volto del suo santo padre. Quindi, nel territorio di Giuseppe non è necessario trovarsi nell’ambiente del Tabernacolo per sperimentare la santità. Anche se si è lontani, finché si possono alzare gli occhi e “vedere la santità” (il Tabernacolo), finché si può trovare la presenza del Divino ovunque ci si trovi si è nella santità.
Aprire Gli Occhi
Ora possiamo davvero apprezzare le parole pronunciate da Giacobbe: “Giuseppe è un figlio grazioso, un figlio grazioso allo sguardo; le ragazze scavalcano (i muri) per guardarlo. Lo amareggiarono e si fecero suoi nemici (i suoi fratelli); lo detestarono gli arcieri”.
Il potere di Giuseppe era di rivelare la santità in ogni realtà, ogni esperienza e ogni cultura. Ovunque si fosse, anche al di fuori delle mura, quando si “vedeva” quello che Giuseppe rappresenta, automaticamente ci si infondeva di santità. Per questo fu frainteso, disprezzato e ferito. La parola in ebraico per “arcieri” è “baalèi khitzìm”, che può anche essere tradotto come “padroni delle pareti” (mekhitzòt). Giuseppe fu disprezzato da coloro che credevano che la santità dovesse rimanere all’interno della “mekhitzà”, all’interno delle mura di Gerusalemme e non essere esternata.
Tutte Strade “Del Dio Vivente”
Quindi, chi aveva ragione in questa diatriba epocale? “Queste e quelle sono le parole del Dio vivente”, come il Talmud afferma descrivendo le varie opinioni dei saggi sull’interpretazione della Torà. Giuda aveva ragione quando si trattava di se stesso e dei suoi fratelli; ma anche Giuseppe aveva ragione quando si trattava della sua stessa vita.
A Giuseppe venne donato da suo padre un cappotto multicolore, che simboleggia la sua capacità unica di esporsi ai molti colori e sfumature della società umana e rivelare in essa l’unicità di Dio, che ha creato tutta l’umanità. Questo significa come Giuseppe può rivelare l’unità nella diversità. Tuttavia, il pericolo è che se non si possiede quel “dono multicolore” si rischia l’assimilazione o comunque il subire le influenze negative della società mondana.
Nel corso della nostra storia, seguiamo sia Giuda, sia Giuseppe: dobbiamo proteggere noi stessi e i nostri bambini dall’influenze dannose, senza rinunciare ai nostri sforzi per migliorare la società; non vogliamo essere assorbiti dalla cultura delle nazioni, ma anzi influenzarle invece che esserne influenzati. Non si deve andare nel mondo impreparati, quindi occorre dare la giusta educazione religiosa ai nostri figli donandogli una forte identità in modo che possano non solo resistere alle tentazioni, ma trasformale in occasioni di bene. E anche le persone mature o anziane hanno comunque il bisogno di luoghi santi e protetti per rigenerarsi spiritualmente ogni giorno. Ecco perché quando ci svegliamo la mattina trascorriamo del tempo in preghiera, meditazione, studio della Torà e solo dopo ci impegniamo nelle attività mondane.
Essere Un Giuseppe Grazie A Giuda
Pertanto cosa serve per essere un “buon Giuseppe?” Avere le basi di Giuda!
Le prime parole che recitiamo al mattino sono “Modé Anì”, “TI RINGRAZIO, Re vivente ed esistente…”. Questo perché la parola Modé ha la stessa radice di Yehudà (Giuda). E non solo! Le parole di apertura della preghiera del mattino sono “Hodù LaHashèm”, RINGRAZIARE HASHÈM e appunto Yehudà, Giuda, significa grazie. Ogni mattina occorre quindi trascorrere del tempo dentro le “mura di Gerusalemme”, simbolicamente parlando: un’isola sacra e protetta di trascendenza, in modo da poter fortificare l’anima, rafforzare la coscienza e connettersi con Dio.
Tuttavia siamo anche allievi di Giuseppe! Quindi siamo responsabili non solo delle persone nella nostra comunità protetta, “dentro le mura”, ma anche di tutte quelle fuori. Anche di quelle che sono fisicamente e ideologicamente lontani dalle nostre mura protettive. Inoltre, siamo responsabili di portare la saggezza, la profondità e la maestosità morale della Torà nel mondo, così da permettere a tutte le nazioni di conoscere e osservare le sette leggi di Noè, in modo da creare una società più giusta e morale. Ma per riuscire in questo occorre indossare il “mantello colorato” di Giuseppe e uscire nel variegato mondo per ispirarlo a migliorare diffondendo il monoteismo.
Questo è vero anche nelle nostre vite personali. Non è sufficiente servire Dio entro le mura isolate di luoghi santi, poiché la santità deve diffondersi oltre le mura. Anche quando stiamo in ufficio, in viaggio d’affari o in vacanza, occorre essere in grado di aprire gli occhi e osservare la presenza di Dio — simboleggiato dalla casa di Dio a Shilò — proprio lì dove siamo per riuscire a trasformare la dura realtà in una cosa santa.
Dobbiamo vivere le parole di Giacobbe: “Giuseppe è un figlio grazioso, un figlio grazioso allo sguardo; le ragazze scavalcano (i muri) per guardarlo”. Giuseppe rappresenta quella qualità dentro di noi che permette a chiunque ci guardi di essere in grado di percepire la bellezza e la centralità di Dio nel mondo. Il modo in cui facciamo affari, il modo in cui camminiamo per strada, il modo in cui interagiamo con le persone, il modo in cui trattiamo i nostri venditori, il modo in cui viviamo le nostre vite quotidiane, può essere fonte di ispirazione per le persone a comportarsi in maniera più amorevole e avere condotte di vita più morali.
La Fusione Di Giuda E Giuseppe
La verità ultima è che Giuseppe e Giuda, nel loro nucleo più profondo, sono uno – e i due un giorno convergeranno, poiché nello schema ultimo delle cose, l’esterno e l’interno possono unirsi per rivelare l’armonia dell’intero cosmo, che riflette l’unicità del suo singolare Creatore.
Ecco perché il profeta Zaccaria profetizza (2, 8-9) che un giorno: “Gerusalemme diventerà una città aperta (PRAZOT teshev Yerushalayim)”. Quando non sarà più necessario proteggere la santità di Gerusalemme perché il male sarà eliminato per sempre e allora la sua luce si diffonderà e pervaderà il mondo intero, con l’avvento di Mashìakh presto ai nostri giorni Amen.
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VAYEKHI:
questo è il shiur video della lezione di giovedì sera di questa settimana della parashà di VAYEKHI fresca appena sfornata:
INSEGNAMENTI ATOMICI SUL VALORE DELLA PAROLA
www.virtualyeshiva.it/files/seminar/vayekhi5780_33anni_inchino.mp4
Al seguente link troverai la lezione sulla nostra parashà in formato mp3:
EBRAISMO E FEMMINISMO SONO INCOMPATIBILI?
Al seguente link potrai scaricare la lezione della Parashà di questa settimana sul tuo mobile:
Per il video:
Per ascoltare le altre lezioni sulla parashà:
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Per vedere il video:
MIDRASHIM
Ya’akòv Benedice Efràyim e Menashé (Bereshìt 48,8-14)
Midràsh Bereshìt Rabbà 96-97; Midràsh Tankhumà Vayekhì 8-9; Talmùd Berakhòt 20
(a pagina 677 del volume Bereshìt edizioni Mamash).
Gli Ultimi Giorni di Yossèf (Bereshìt 50,22-26)
Midràsh Bereshìt Rabbà 85-100,6; Midràsh Aggadà 50; Pirké Derabbì Eli’èzer 11-29; Talmùd Sotà 13; Talmùd Shabbàt 55
(a pagina 681 del volume Bereshìt edizioni Mamash).
SIKOT
La Fine dei Tempi
(a pagina 752 del volume Bereshìt edizioni Mamash).
VAYEKHI 5772: BERESHIT: PERCHE’ CONCLUDERE IN NEGATIVO?
Approfondendo il collegamento tra l’inizio della Genesi e la fine emerge il significato profondo e interiore del primo libro della Torà e il collegamento con Shemot.
VAYEKHI 5771 – EBRAISMO E FEMMINISMO SONO INCOMPATIBILI?
Nella benedizione di Yaakòv ai figli è celato un grande insegnamento per saper vivere l’esilio. Menashè e Efràyim: due modi per affrontare il nuovo mondo, con la nostalgia del passato o con la trasformazione del negativo in positivo.
VAYEKHI 5770 – SEME DELL’ETERNITA’
Il seme è l’elemento più speciale che l’uomo abbia, in quanto lo avvicina a D-o, essendo associato alla forza della creazione. Il seme è la parte più potente e più profonda: ne è l’essenza stessa dell’uomo. Pertanto non deve essere sprecato, e occorre saper riconoscerne il suo grande valore.
VAYEKHI 5769 – YAAKOV, IL PRIMO MALATO: UN BENE PER L’UMANITA’
L’importanza del tempo, il saperlo valorizzare. L’esempio degli Tzadikkim ci insegna come cercare di dare pieno compimento alle nostre vite. Il merito di essere seppelliti, quando si fa del bene ad un morto si fa un vero e profondo atto di bontà. Davanti ad una persona morta, è possibile vedere la realtà con maggiore veridicità, dare maggior valore alla vita, superando gli schermi di falsità e materialità che ci costruiamo nella vita quotidiana.
VAYEKHI 5768 – IL VALORE DI ESSERE SEPPELLITO IN TERRA SANTA
La missione di ogni persona nel mondo è legata al posto in cui è possibile fare qualcosa, poter apportare un miglioramento. Ognuno di noi che vive in un posto impuro ha il dovere di trasformarlo in un luogo di santità, tramite l’esempio di Yaakòv. La morte non deve spaventare. La Torà ci insegna come la nostra vita in questo mondo sia solo un passaggio, che deve insegnarci come poter valorizzare il posto impuro in cui viviamo, sapendolo trasformare in un luogo di santità.
VAYEKHI 5767 – LA FORZA SPIRITUALE DI YAAKOV
Yaakòv fa giurare a suo figlio Yossèf di essere seppellito in Israele. Il giuramento, non costituisce un atto di sfiducia, quanto un modo per rafforzare, con assoluta certezza, l’azione richiesta al figlio. La sua volontà di non restare legato all’Egitto, ma di riconoscere la propria funzione spirituale di essere al di sopra dell’esilio, per poter salvare i figli, riscattandoli dall’esilio. Viene analizzata la differenza spirituale di Yaakòv e Yossèf, in relazione all’esilio. Ogni anima, in funzione della propria specifica natura, ha un diverso livello spirituale di servizio verso D-o.
VAYEKHI 5766 – IL PRIMO PASSO PER LA SCHIAVITU’ IN EGITTO
Il disegno divino costruito per Yaakòv inizia con il dolore del distacco da Yossèf, in apparenza opposto alle richieste di Yaakòv di vivere serenamente, ma si rivela in seguito necessario per portare a compimento la sua missione di elevare l’Egitto e poter vivere felicemente gli ultimi sui 17 anni di vita. A sua volta la morte di Yaakòv rappresenta la prima tappa per la successiva schiavitù, in uno schema divino che prevede sin dall’inizio il riscatto del popolo ebraico. Quando si è in esilio dobbiamo stare uniti alle nostre origini e trovare la forza per elevare la materia impura che ci circonda.
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