Questo Shabbàt 2 Marzo 2024, 22 del mese di Adàr 5784 leggeremo la Parashà di Kì Tissà
PARASHÀ
Es 30:11-34: 35
HAFTARÀ
ASH: I Re 18, 1-39
IT.-SEF.: I Re 18, 20-39
La Parashà di Kì Tissà è composta da 139 versetti.
La Parashà di Kì Tissà contiene 4 comandi e 5 divieti.
CENSIMENTO DEGLI EBREI = AUTOSTIMA
I versi con i quali inizia la porzione della Torà di questa settimana, parashà Ki Tissà, espongono le istruzioni che Hashèm dà a Moshè relativamente al censimento degli ebrei. Quando è necessario fare un censimento, gli ebrei non devono essere contati normalmente, una persona per volta, ma ogni membro della comunità deve contribuire con una moneta per la tzedakà: ogni moneta corrisponde a una persona.
Qual è il motivo di questa istruzione? Perché contare il popolo in modo così inusuale e non con il conteggio diretto del popolo? Possiamo trovare due spiegazioni.
Quanto Vali?
Per prima cosa, la Torà ci dice che tu vieni contato non in base a chi sei ma per quello che dai. Il tuo vero valore si esprime grazie al tuo contributo per un’altra anima, all’amore e alla bontà che tu dispensi a un altro cuore.
A Sir Moses Montefiore, grande filantropo e politico vissuto nel XIX secolo, un giorno venne chiesto quanto valesse. Il ricco uomo pensò un attimo poi disse una cifra. Il suo interlocutore replicò: “Non è possibile. Secondo i miei calcoli voi possedete molto più di questa cifra”.
Moses Montefiore rispose: “Lei non mi ha chiesto quanto possiedo, ma quanto valgo. Allora ho calcolato quanto avessi dato in tzedakà quest’anno e questa è la cifra che le ho fornito. Come può vedere io valgo SOLO quanto sono disposto a condividere con gli altri”. Perciò il conteggio del popolo era valorizzato in base alla beneficenza che avevano dato del mezzo Shèkel.
Come Valutare Un Popolo
Sembra esserci anche un altro messaggio nell’istruzione data da Moshè, che traspare dal racconto. La Torà ci suggerisce che per capire il valore e la grandezza di un popolo occorre studiare non il numero dei suoi appartenenti, ma la grandezza dei suoi contributi. La cosa più importante non è la quantità dei suoi appartenenti: la differenza la fanno l’impegno e la sollecitudine a fare sacrifici per i propri valori e ideali. I numeri possono ingannare. Molti gruppi di persone a malapena lasciano una traccia. Di contro, a volte ci sono piccoli gruppi che impegnano il loro cuore e la loro anima per la loro missione, lasciando una grande impronta, sproporzionata rispetto al loro numero.
La Torà ci dice che per capire il significato della vita ebraica non dobbiamo studiare i numeri: gli ebrei non rappresentano nemmeno l’1% della società. Piuttosto, è importante esaminare il grande impatto che questo piccolo gruppo monoteista ha sul mondo. Le altre nazioni, culture e civiltà godono di grandi numeri, ampi territori e armi potenti. Ma nessun’altra persona o nazione ha lasciato l’impressione di essere una grande fucina di civiltà come i pochi e spesso perseguitati discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Lo studioso cattolico Thomas Cahill ha scritto nel suo best-seller “I DONI DEGLI EBREI: COME UNA TRIBÙ DI NOMADI DEL DESERTO HA CAMBIATO IL MODO DI PENSARE E DI SENTIRE”:
“In effetti, la maggior parte delle nostre parole migliori – nuovo, avventura, sorpresa, unico, persona, vocazione, tempo, storia, futuro, libertà, progresso, spirito, fede, speranza e giustizia – sono doni degli ebrei. Noi possiamo alzarci la mattina o attraversare la strada senza essere ebrei. Noi sogniamo sogni ebraici e speriamo speranze ebraiche”.
Scrive lo storico contemporaneo Paul Johnson nel suo libro “STORIA DEGLI EBREI”:
“Ogni grande scoperta dell’intelletto sembra ovvia una volta che è stata rivelata, ma richiede un’intelligenza speciale per essere formulata per la prima volta. L’ebreo ha questo dono. In essi troviamo l’idea di uguaglianza di fronte alla legge, sia divina che umana; della santità della vita e della dignità della persona umana; della coscienza e della redenzione personale; della coscienza collettiva e della responsabilità sociale; della pace come un ideale astratto e dell’amore come fondamento della giustizia, e molte altre cose che costituiscono le basi morali della mente umana. SENZA GLI EBREI CI SAREBBE STATO UN GRANDE VUOTO”.
Questo è il secondo insegnamento del conteggio tramite un valore e non solo tramite un numero perché ciò che caratterizza l’essenza di Israèl è il suo valore che porta nel mondo, ovvero la sua qualità e non la sua quantità.
Il Potere Dell’amore
Così come ciò è vero riguardo alla nostra identità nazionale, allo stesso modo è vero per quello che riguarda ogni singolo individuo. A volte tu pensi di te stesso: “Io sono inutile, io non valgo niente”.
La Torà dice che tu, da solo, rinchiuso nella tua vanità e nel tuo egoismo, distaccato dal tuo vero nucleo di dignità e maestà assoluta, puoi sicuramente diventare una piccola e insignificante creatura indegna di essere contata. (“Se sono solo per me, allora chi sono (cosa valgo)?” dice Hillel nei Pirké Avòt, Le massime dei Padri). Tuttavia, ciascuno di noi, nella sua essenza è una “scintilla divina”, un “frammento” della Sua luce, uno spirito libero, puro, fiducioso e gioioso. In quanto tale abbiamo il potere di dare il nostro contributo al mondo, di dare una mano per le esigenze degli altri. Ciascuno di noi può toccare il cuore, sollevare lo spirito, risvegliare un’anima, guardare una persona negli occhi e dire: “Ti voglio bene”. Possiamo sembrare di essere piccoli, ma l’amore e la luce che possiamo mandare agli altri attraverso un semplice gesto, un sincero “Buongiorno” o un atto di bontà e gentilezza, sono incommensurabili e hanno una forza infinita.
E quando si raggiunge gli altri, si scopre la PROFONDITÀ DELL’AMORE che Hashem ha per ogni singolo. Tu sei parte della Sua luce, quindi tu puoi diffondere la Sua luce agli altri.
Quando leggiamo questa settimana il conteggio tramite una moneta di CARITÀ, ricordiamoci che il nostro valore è misurato in base a quello che diamo agli altri e che la grandezza di Israèl è nella qualità non nella quantità; e che dobbiamo essere dei luminari per l’umanità e abbiamo una luce infinita da Dio per illuminare la società che ci circonda e cambiare questo mondo in positivo e renderlo una dimora per Dio.
Ma non dimentichiamo che questo è grazie al lavoro di ogni singolo perché ognuno fa parte del conteggio e ogni singolo ha la forza di fare pendere la bilancia del mondo verso il lato positivo (Maimonide).
Questo concetto mi ricorda una riflessione che mi piace molto ed è molto ebraica anche se viene riportata a nome di Confucio filosofo cinese, ma che probabilmente l’ha ereditata da Abramo che è il padre (Talmud Berakhòt) di tutta la cultura cinese e orientale:
Quando ero giovane, ho voluto cambiare il mondo. Ma ho scoperto che era difficile cambiare il mondo, così quando sono cresciuto ho cercato di cambiare il mio paese. Quando avevo cinquanta anni ho notato che non ho potuto cambiare il mio paese, ho cominciato a concentrarmi sulla mia città.
Tuttavia, ho scoperto che non potevo cambiare la città, e così quando sono diventato settantenne ho provato a cambiare la mia famiglia.
Ora, dopo gli ottanta anni, mi rendo conto che l’unica cosa che posso cambiare è me stesso, ma ho capito che se tempo fa avessi iniziato lavorando su me stesso, poi avrei potuto dare un impatto sulla mia famiglia. E la mia famiglia avrebbe influenzato la nostra città, che, a sua volta, avrebbe potuto cambiare il paese che forse avrebbe cambiato il mondo.
IL PRIMO EBREO È ABRAMO, CHE HA CAMBIATO PRIMA SE STESSO E POI HA CAMBIATO IL MONDO DAL PAGANESIMO AL MONOTEISMO.
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I PERICOLI NEL PENSARE DI CAPIRE TROPPO
Mani, Piedi e Viso…
I discepoli del Bà’al Shem Tov gli chiedevano continuamente di mostrar loro il profeta Eliyahu, finché, infine, egli acconsentì.
Una volta si recarono tutti insieme nei campi, come era loro usanza ogni venerdì a metà del pomeriggio, per ascoltare parole di Torà pronunciate dal Bà’al Shem Tov, il loro Rebbe, e per accogliere l’imminente Shabbàt.
Improvvisamente, il Bà’al Shem Tov disse: «Vorrei fumare la pipa».
I suoi discepoli si sparsero in ogni direzione sperando di trovare qualcuno che fosse disposto a prestare la propria pipa, ma non videro nessuno e tornarono a mani vuote.
Lo tzaddìk si alzò e disse: «Ecco, vedo un gentiluomo polacco che passeggia. Forse potete andare da lui a chiedergli se ha una pipa da prestare».
Andarono a chiederglielo e questi non solo acconsentì a prestarla, ma li seguì fino dal Rebbe per dargliela personalmente. La riempì di tabacco e la accese. Il Bà’al Shem Tov, mentre fumava, chiese all’estraneo se il raccolto di quell’anno stesse crescendo bene in tutta la campagna, se la trebbiatura avesse reso cereali in grande quantità e così via.
I discepoli non fecero caso all’estraneo e trascorsero il tempo a ripetere e a memorizzare gli insegnamenti più recenti del loro Rebbe.
Dopo che l’estraneo si fu congedato, il Bà’al Shem Tov disse: «Molto bene, ho mantenuto la mia promessa: vi ho fatto vedere il profeta Eliyahu».
I suoi discepoli ne furono stupefatti e protestarono: «Rebbe, perché non ci hai detto che quell’uomo era in realtà Eliyahu?».
Il Bà’al Shem Tov rispose: «Se aveste chiesto chi fosse, ve lo avrei rivelato, ma se no, non avrei avuto il permesso di farlo. Posso tuttavia dirvi che cosa gli ho detto. Quando gli ho chiesto se il nuovo raccolto stesse germogliando in modo soddisfacente, intendevo chiedere: “C’è stata una diffusa hitarùta diletàta (ispirazione dal basso)? I nostri fratelli hanno preso l’iniziativa di rivolgere la loro anima verso il loro Padre in cielo?”.
E quando gli ho chiesto se il raccolto rendesse cereali in abbondanza, intendevo domandare: “Da questo risveglio spontaneo dei nostri fratelli è risultata una hitarùta dila’èla, un risveglio di grazia divina dall’alto, che porta su di noi ogni tipo di benedizioni?”.
E ciò che mi ha risposto, mi ha risposto. Dato che non avete capito e non avete fatto domande non posso più rivelarvi i segreti che mi ha svelato».
La parashà di Ki Tissà riporta il comandamento per cui Aharòn e i suoi figli dovevano lavarsi mani e piedi nel lavabo del Tabernacolo prima di entrare nella Tenda dell’Adunanza (30, 19). Questo lavaggio aveva due scopi. Il primo era la pulizia e la purezza come prerequisito per il culto sacerdotale, il secondo la santità, poiché con l’abluzione i sacerdoti si sarebbero elevati spiritualmente. La Mishnà chiama questo processo “santificazione delle mani e dei piedi” (Talmùd Yomà 28a).
A livello pratico, dalla distruzione del Santuario ci è impossibile servire Dio in maniera totale in quanto molti dei precetti che vigevano allora, oggi non sono più validi. Tuttavia, il messaggio e il significato spirituale del culto divino sono ancora attuali. Ogni ebreo è infatti un sacerdote, come è scritto: “voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” e anche oggi come allora occorre prepararsi al servizio quotidiano con l’abluzione. Ràmbam scrive nelle sue Leggi della Preghiera: «Prima di iniziare la preghiera mattutina, bisogna lavarsi il viso, le mani e i piedi…». Questa norma si basa sul detto talmudico per cui le preghiere quotidiane sono recitate in relazione alle offerte del Santuario. La nostra abluzione delle mani ha quindi la stessa purezza e santità di quella effettuata dai sacerdoti nel Tempio (Oggi non si usa più lavarsi i piedi in quanto sono coperti dalle scarpe).
Perché anche il Viso?
Si noti però che Ràmbam aggiunge nella sua halakhà un particolare non in vigore all’epoca del Tempio: il lavaggio del viso. Esso ha infatti acquisito un significato particolare solo da quando ci troviamo in esilio. Il Rebbe spiega che le mani e i piedi, le parti del corpo che ci permettono di camminare e di creare un contatto fisico con il mondo, rappresentano la facoltà umana dell’agire. D’altro canto, il volto connota le nostre forze più profonde e complesse, l’intelletto, la vista, l’udito, la parola e così via.
In linea generale, l’uomo affronta il mondo con le mani e i piedi, come afferma il versetto: “mangerai il pane con il sudore delle tue mani” (Tehillìm 128, 2). Non si tratta di un’affermazione futile né superficiale. Il messaggio è profondo molto più di quanto non sembri a prima vista: per vivere nel mondo bisognerebbe impiegare SOLO le mani. Le altre forze, quelle più profonde, devono essere preservate e impiegate per servire Dio.
Da questo punto di vista si può capire la differenza tra l’epoca attuale e quella dei due Santuari. Allora il popolo ebraico si trovava a un livello spirituale più alto, infatti il volto, il capo, era naturalmente distinto dal mondo fisico.
A quell’epoca quindi, era molto più semplice e spontaneo mantenere il distacco della mente e delle sue facoltà da ciò che era mondano e secolare. Per questo motivo non era necessaria una santificazione significativa del volto. Oggi però questo non è più vero, in quanto è compito arduo rimanere al disopra del mondo in maniera spontanea. Le nostre facoltà più eccelse sono continuamente minacciate dalle difficoltà morali e spirituali che esso presenta. Risulta quindi necessaria una difesa ulteriore, in forma di purezza e di santità, ossia il lavaggio del viso aggiunto di proposito da Ràmbam. A volte, infatti, anche il “migliore di noi” rischia di vedere un semplice gentiluomo invece del profeta Eliyahu…
Proteggere il Pensiero
C’è chi si domanda però, se è davvero lavandoci il volto che ci difendiamo da questo mondo tanto aggressivo. Alcune autorità in materia di halakhà sostengono che tale gesto quotidiano è superfluo in quanto ogni persona ha la forza innata necessaria per non essere trascinato dalla corrente del mondo e dalle mode estemporanee. Altri maestri ritengono che anche il più piccolo sforzo all’inizio della giornata, come quello di recitare la breve preghiera del Modè Anì al risveglio, è sufficiente per farci prendere in mano le redini della vita fin dal mattino e connetterci alla nostra fonte spirituale, ossia a Dio. Non sono necessarie ulteriori azioni – così affermano – poiché la dimensione interiore di ciascuno non è esposta alle minacce del mondo e ai suoi tentacoli ed è sempre pronta a servire Dio.
Ma, pensandoci bene, la protezione spirituale con cui ci muniamo lavandoci il viso, oltre che le mani, non è poi tanto superflua. Una difesa in più oggi come oggi non fa di certo male e questo Ràmbam, che probabilmente conosceva bene la natura umana, doveva averlo intuito… Soprattutto oggigiorno, quando il nostro “intelletto, il volto” è sottoposto a continue e pesanti proposte che sono contrarie o distorsive dai valori della Torà.
Inoltre oggi, più che mai, il nostro pensiero è sottoposto alle minacce del nostro “Io”, l’ego, che porta a illuderci di comprendere e capire molto, a volte troppo, anche più della Torà.
La Torà come la Mozzarella?
Uno dei campi moderni dove si è sviluppata la fragilità del nostro pensiero, influenzato dal nostro “Io”, è quello della “Torà facile”, dell’ebraismo “consumistico”, dove invece di “avvicinare le persone alla Torà” (Massime dei Padri cap 1) si tende a fare il contrario: si abbassare la Torà alle persone. Discesa che svilisce e mortifica la saggezza millenaria della Torà fino a farla diventare alla pari delle altre filosofie e sapienze umane.
In particolare questa concezione si evidenzia in molti gruppi che predicano e praticano una sorta di “manuale del fai da te”; un last minute per diventare ebreo. Sono ormai numerosi i siti che propongono conversioni via Internet con carta di credito online e negli ultimi anni questo è possibile anche in Italia. Bastano solo 300 euro (anche a rate, dice chi propone l’investimento religioso/modaiolo) e un piccolo “catechismo ebraico” di qualche lezione. Ed ecco che la differenza fra essere ebreo e candidarsi a “nuovo ebreo” diventa sostanzialmente circoscritta in dieci bollettini postali da 30 euro al mese. In poco tempo, potrete mettere i tefillìn al braccio e credere che la vostra fede sia totalmente cambiata e la vostra vita si sia trasformata pagando dieci bollettini!!! Bastano solo 30 euro al mese per entrare nell’élite dell’esercito spirituale del nostro “grande Architetto” che deve trasformare la materia in una dimora per Lui. Ma, ne siamo proprio sicuri?
Questa tendenza ovviamente si accompagna con il rendere lo “stile” dell’ebraismo, ossia i precetti, più alla moda… Non bisogna più preoccuparsi con chi intratteniamo rapporti “sentimentali”.
Proprio come diceva Einstein: tutto è relativo! È vero queste “regole” sono rétro, sono passate… dunque ecco si scopre : la Torà ha una scadenza, come lo yogurt!
Quando “Scade” la Torà?
I vari movimenti riformati hanno come scopo l’apportare modifiche al corpo dottrinale o istituzionale della religione. Cambiamenti che sono fondati solo sulle logiche del loro intelletto. Essi cercano di accentuare le tendenze individuali, adottano nella liturgia la lingua nazionale e trasformano le Leggi “scomode” al servizio del progresso tecnologico e alle comodità personali. Il loro obbiettivo è quello di facilitare l’approccio alla pratica religiosa senza interferire nelle varie e quasi infinite esigenze personali delle persone.
Il vero problema è che, in questo modo, fissano una scadenza alle Leggi della Torà. Essi affermano implicitamente che essa, così com’è stata data, non può più essere valida nel terzo millennio. Quindi, secondo loro, la Torà era adatta ai nostri Padri privi di qualsiasi innovazione tecnologica, ma per essere valida oggi dovrebbe subire una serie di mutamenti che si prefiggono di apportare. Se è vero che la Torà è dettata da Dio, di conseguenza dotata di un carattere eterno, come potrebbe subire modifiche umane nel corso del tempo?
Passato, Presente e Futuro
Il paradosso è chiaro. Si vuole conferire un limite di tempo a qualcosa di eterno, quindi, in quest’ottica assurda, si “potrebbe” anche modificare umanamente il divino. Allora perché non inventarsi una “nuova” Torà, invece di modificare in modo ridicolo quella considerata “obsoleta”?
Il riformista cerca di mantenere il legame con l’ebraismo per paura di assimilarsi, cercando di cambiarne la forma e tentando di trasformare la Torà a suo piacimento, secondo la sua logica, la sua mente, piuttosto che elevare se stesso verso di essa. Così facendo non si rende conto che il suo modo di professare la fede si avvicina molto di più alle altre religioni e inevitabilmente perde di vista le principali caratteristiche di quella ebraica che, da legge divina, diventa “spavaldamente umana”.
Questo non rappresenta solo un inganno verso se stessi, ma anche verso gli altri poiché, dando una pseudo-tranquillità alla propria coscienza, non ci si rende conto di usurpare la Torà e perdere tutte le grandi e stupende cose che può regalare.
Anime che Scendono
L’incompatibilità dell’ebraismo con i vari movimenti riformisti, o comunque con chi si rifà a un’ideologia simile, diventa ancor più stridente se riflettiamo sul fatto che siamo agli albori dell’Era Messianica. Uno dei “segni” di questo cambiamento epocale è il crescente fenomeno dei giovani che fanno Teshuvà, cioè ritornano alla pratica religiosa dei dettami della Torà. Evidentemente hanno un “risveglio” dell’anima che spinge il corpo, vincendo “l’istinto animalesco”, a ritornare a Dio. Tuttavia, l’anima scende dalla sua originaria e spirituale dimora in un mondo pieno di mezze-verità e complete bugie, in cui spesso dominano valori contrastanti con quelli insegnati nell’ebraismo. A dispetto di tutto questo, l’anima viene qui. Perché? Una delle spiegazione di questo straordinario fenomeno la troviamo nella Torà stessa e soprattutto nella sua “eternità”. In questo mondo l’anima valorizza la sua grandezza perché può trasformare il mondo e renderlo una dimora per Hashèm. Nei mondi spirituali questo non è possibile, lì le anime sono come di robot.
La sempre crescente diffusione dell’ebraismo e, in particolare, del pensiero chassidico richiamano e permettono a molti giovani e meno giovani, sempre di più, nonostante il buio che sembra circondarci, di ritornare a Dio, alla Torà e alla mitzvòt. Le anime anelano a fare la volontà di Dio e sanno che solo in un corpo fisico potranno costruire il terzo e definitivo Tempio, sia fisico che spirituale, in questo mondo.
Questo concetto è collegato alla porzione della Torà di questa settimana in particolare nella vicenda del Vitello d’Oro e nella volontà di Hashèm di dimorare e risiedere “dentro di noi”, comunque nonostante i nostri peccati.
(Riportiamo questo brano tratto dal “Midràsh Racconta”, Mamash Edizioni Ebraiche)
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PILLOLE DI MIDRÀSH LA CURA PRIMA DELLA MALATTIA
Dopo il peccato del Vitello d’Oro, Moshè implorò incessantemente Dio di perdonare il popolo d’Israele finché Dio non acconsentì. Nonostante tutto, Moshè non era soddisfatto e interrogò Dio: «Come sarà evidente alle altre nazioni che Tu hai effettivamente perdonato il popolo di Israele?».
«Fai costruire al popolo d’Israele un Mishkàn, un Tabernacolo. Là essi offriranno i sacrifici che Io accetterò. Questo sarà la prova manifesta del mio amore rinnovato per il Mio popolo!», rispose Dio.
Sebbene la mitzvà di costruire il Mishkàn fu emanata dopo il peccato del Vitello d’Oro, la Torà la registra come se fosse avvenuta prima di esso (le parashòt di Terumà e Tetzavè che trattano del Mishkàn precedono il racconto del peccato del Vitello d’Oro, di cui si parla nella parashà Ki Tissà). La Torà capovolge l’ordine cronologico per insegnarci che Dio prepara l’antidoto al peccato addirittura prima che esso sia stato commesso. Dio previde il peccato del Vitello d’Oro. Egli perciò ordinò di costruire il Mishkàn. Peccando, il popolo d’Israele costrinse la Shekhinà (presenza divina) a ritirarsi nei Cieli. Attraverso il Mishkàn, tuttavia, la Shekhinà è tornata in Terra.
Quando Moshè ascoltò le parole di Dio: “Fai loro fare per Me un Santuario, cosicché Io possa dimorare tra loro” (Shemòt 25, 8), egli fu colto alla sprovvista. «Come puoi Tu, la cui Gloria riempie il cielo e la terra, risiedere in un’umile dimora che noi abbiamo eretto per Te?», chiese Moshè.
Dio rispose: «Io non ho neanche bisogno dell’intero Mishkàn come luogo per risiedere. Infatti, confinerò la Mia Shekhinà in un’area limitata di un cubito quadrato, lo spazio tra i bastoni dell’aròn» (la Shekhinà risiedeva nella parte più santa del Mishkàn, che era l’Arca Santa). Dio, nel Suo grande amore per il popolo d’Israele, restrinse la Sua Shekhinà nel Mishkàn, come un padre che desidera dimorare assieme ai suoi figli.
Il Mishkàn e il Corpo Umano
La reale struttura del Mishkàn corrisponde al corpo umano, e i suoi annessi corrispondono ai vari organi e parti del corpo.
• L’Aròn corrisponde al cuore. Proprio come la vita di una persona dipende dalla vitalità del suo cuore, il ruolo dell’aròn, che contiene le tavole della legge, è fondamentale per l’intero Mishkàn.
• I Cherubini, che distendevano le loro ali sull’aròn, corrispondono ai polmoni sopra il cuore.
• Lo Shulkhàn (tavolo dei pani) rappresenta lo stomaco.
• La Menorà rappresenta la mente umana.
• Il ketòret trova il suo parallelo nel senso dell’olfatto.
• Il kiyòr (lavabo) suggerisce gli elementi liquidi presenti nel corpo umano.
• I tendaggi di pelle di capra corrispondono alla pelle di una persona.
• Le aste simbolizzano le costole.
Il Mishkàn venne costruito per rappresentare il corpo umano al fine di insegnarci che ogni ebreo che si santifica, adempiendo alle mitzvòt della Torà, diviene un Mishkàn (luogo di dimora) per la presenza divina.
Costruire il Terzo Tempio
Da ciò apprendiamo come Dio stesso vuole dimorare dentro di noi e più rivelato in questo mondo, ossia nel terzo Santuario di Yerushalàyim presto nell’era messianica. Questo Tempio viene ricostruito, giorno dopo giorno, adempiendo e rispettando i comandamenti, le mitzvòt, della Torà in questo mondo dove la divinità apparentemente non esiste. Luogo che ci spinge spesso a comportarci nel modo opposto agli insegnamenti, a volte illogici e poco comprensibili, contenuti nella Torà. In questo mondo buio è assai facile perdersi e vedere la luce anche dove non vi è. Per questo nella sua infinita bontà Hashèm ci sta permettendo ora, più che mai, di compiere la nostra missione, di “darci la cura” prima della malattia. Lui sa che siamo facilmente influenzabili dal “peccato”, che siamo spesso volubili e insicuri, ma Lui ci viene comunque in aiuto.
Grazie alla nostra teshuvà e al rispetto e diffusione dell’ebraismo e dei suoi precetti noi possiamo costruiamo il terzo e definitivo Tempio, sia fisico che spirituale, in questo mondo, presto ai nostri giorni, amen.
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B’H’
i discepoli del Bà’al Shem Tov gli chiedevano continuamente di mostrar loro il profeta Eliyahu, finché, infine, egli acconsentì.
Una volta si recarono tutti insieme nei campi, come era loro usanza ogni venerdì a metà del pomeriggio, per ascoltare parole di Torà pronunciate dal Bà’al Shem Tov, il loro Rebbe, e per accogliere l’imminente Shabbàt.
Improvvisamente, il Bà’al Shem Tov disse: «Vorrei fumare la pipa».
I suoi discepoli si sparsero in ogni direzione sperando di trovare qualcuno che fosse disposto a prestare la propria pipa, ma non videro nessuno e tornarono a mani vuote.
Lo tzaddìk si alzò e disse: «Ecco, vedo un gentiluomo polacco che passeggia. Forse potete andare da lui a chiedergli se ha una pipa da prestare».
Andarono a chiederglielo e questi non solo acconsentì a prestarla, ma li seguì fino dal Rebbe per dargliela personalmente. La riempì di tabacco e la accese. Il Bà’al Shem Tov, mentre fumava, chiese all’estraneo se il raccolto di quell’anno stesse crescendo bene in tutta la campagna, se la trebbiatura avesse reso cereali in grande quantità e così via.
I discepoli non fecero caso all’estraneo e trascorsero il tempo a ripetere e a memorizzare gli insegnamenti più recenti del loro Rebbe.
Dopo che l’estraneo si fu congedato, il Bà’al Shem Tov disse: «Molto bene, ho mantenuto la mia promessa: vi ho fatto vedere il profeta Eliyahu».
I suoi discepoli ne furono stupefatti e protestarono: «Rebbe, perché non ci hai detto che quell’uomo era in realtà Eliyahu?».
Il Bà’al Shem Tov rispose: «Se aveste chiesto chi fosse, ve lo avrei rivelato, ma se no, non avrei avuto il permesso di farlo. Posso tuttavia dirvi che cosa gli ho detto. Quando gli ho chiesto se il nuovo raccolto stesse germogliando in modo soddisfacente, intendevo chiedere: “C’è stata una diffusa hitarùta diletàta (ispirazione dal basso)? I nostri fratelli hanno preso l’iniziativa di rivolgere la loro anima verso il loro Padre in cielo?”.
E quando gli ho chiesto se il raccolto rendesse cereali in abbondanza, intendevo domandare: “Da questo risveglio spontaneo dei nostri fratelli è risultata una hitarùta dila’èla, un risveglio di grazia divina dall’alto, che porta su di noi ogni tipo di benedizioni?”.
E ciò che mi ha risposto, mi ha risposto. Dato che non avete capito e non avete fatto domande non posso più rivelarvi i segreti che mi ha svelato».
I PERICOLI NEL PENSARE DI CAPIRE TROPPO
Mani, Piedi e Viso…
La parashà di Ki Tissà riporta il comandamento per cui Aharòn e i suoi figli dovevano lavarsi mani e piedi nel lavabo del Tabernacolo prima di entrare nella Tenda dell’Adunanza (30, 19). Questo lavaggio aveva due scopi. Il primo era la pulizia e la purezza come prerequisito per il culto sacerdotale, il secondo la santità, poiché con l’abluzione i sacerdoti si sarebbero elevati spiritualmente. La Mishnà chiama questo processo “santificazione delle mani e dei piedi” (Talmùd Yomà 28a).
A livello pratico, dalla distruzione del Santuario ci è impossibile servire Dio in maniera totale in quanto molti dei precetti che vigevano allora, oggi non sono più validi. Tuttavia, il messaggio e il significato spirituale del culto divino sono ancora attuali. Ogni ebreo è infatti un sacerdote, come è scritto: “voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” e anche oggi come allora occorre prepararsi al servizio quotidiano con l’abluzione. Ràmbam scrive nelle sue Leggi della Preghiera: «Prima di iniziare la preghiera mattutina, bisogna lavarsi il viso, le mani e i piedi…». Questa norma si basa sul detto talmudico per cui le preghiere quotidiane sono recitate in relazione alle offerte del Santuario. La nostra abluzione delle mani ha quindi la stessa purezza e santità di quella effettuata dai sacerdoti nel Tempio (Oggi non si usa più lavarsi i piedi in quanto sono coperti dalle scarpe).
Perché anche il Viso?
Si noti però che Ràmbam aggiunge nella sua halakhà un particolare non in vigore all’epoca del Tempio: il lavaggio del viso. Esso ha infatti acquisito un significato particolare solo da quando ci troviamo in esilio. Il Rebbe spiega che le mani e i piedi, le parti del corpo che ci permettono di camminare e di creare un contatto fisico con il mondo, rappresentano la facoltà umana dell’agire. D’altro canto, il volto connota le nostre forze più profonde e complesse, l’intelletto, la vista, l’udito, la parola e così via.
In linea generale, l’uomo affronta il mondo con le mani e i piedi, come afferma il versetto: “mangerai il pane con il sudore delle tue mani” (Tehillìm 128, 2). Non si tratta di un’affermazione futile né superficiale. Il messaggio è profondo molto più di quanto non sembri a prima vista: per vivere nel mondo bisognerebbe impiegare SOLO le mani. Le altre forze, quelle più profonde, devono essere preservate e impiegate per servire Dio.
Da questo punto di vista si può capire la differenza tra l’epoca attuale e quella dei due Santuari. Allora il popolo ebraico si trovava a un livello spirituale più alto, infatti il volto, il capo, era naturalmente distinto dal mondo fisico.
A quell’epoca quindi, era molto più semplice e spontaneo mantenere il distacco della mente e delle sue facoltà da ciò che era mondano e secolare. Per questo motivo non era necessaria una santificazione significativa del volto. Oggi però questo non è più vero, in quanto è compito arduo rimanere al disopra del mondo in maniera spontanea. Le nostre facoltà più eccelse sono continuamente minacciate dalle difficoltà morali e spirituali che esso presenta. Risulta quindi necessaria una difesa ulteriore, in forma di purezza e di santità, ossia il lavaggio del viso aggiunto di proposito da Ràmbam. A volte, infatti, anche il “migliore di noi” rischia di vedere un semplice gentiluomo invece del profeta Eliyahu…
Proteggere il Pensiero
C’è chi si domanda però, se è davvero lavandoci il volto che ci difendiamo da questo mondo tanto aggressivo. Alcune autorità in materia di halakhà sostengono che tale gesto quotidiano è superfluo in quanto ogni persona ha la forza innata necessaria per non essere trascinato dalla corrente del mondo e dalle mode estemporanee. Altri maestri ritengono che anche il più piccolo sforzo all’inizio della giornata, come quello di recitare la breve preghiera del Modè Anì al risveglio, è sufficiente per farci prendere in mano le redini della vita fin dal mattino e connetterci alla nostra fonte spirituale, ossia a Dio. Non sono necessarie ulteriori azioni – così affermano – poiché la dimensione interiore di ciascuno non è esposta alle minacce del mondo e ai suoi tentacoli ed è sempre pronta a servire Dio.
Ma, pensandoci bene, la protezione spirituale con cui ci muniamo lavandoci il viso, oltre che le mani, non è poi tanto superflua. Una difesa in più oggi come oggi non fa di certo male e questo Ràmbam, che probabilmente conosceva bene la natura umana, doveva averlo intuito… Soprattutto oggigiorno, quando il nostro “intelletto, il volto” è sottoposto a continue e pesanti proposte che sono contrarie o distorsive dai valori della Torà.
Inoltre oggi, più che mai, il nostro pensiero è sottoposto alle minacce del nostro “Io”, l’ego, che porta a illuderci di comprendere e capire molto, a volte troppo, anche più della Torà.
La Torà come la Mozzarella?
Uno dei campi moderni dove si è sviluppata la fragilità del nostro pensiero, influenzato dal nostro “Io”, è quello della “Torà facile”, dell’ebraismo “consumistico”, dove invece di “avvicinare le persone alla Torà” (Massime dei Padri cap 1) si tende a fare il contrario: si abbassare la Torà alle persone. Discesa che svilisce e mortifica la saggezza millenaria della Torà fino a farla diventare alla pari delle altre filosofie e sapienze umane.
In particolare questa concezione si evidenzia in molti gruppi che predicano e praticano una sorta di “manuale del fai da te”; un last minute per diventare ebreo. Sono ormai numerosi i siti che propongono conversioni via Internet con carta di credito online e negli ultimi anni questo è possibile anche in Italia. Bastano solo 300 euro (anche a rate, dice chi propone l’investimento religioso/modaiolo) e un piccolo “catechismo ebraico” di qualche lezione. Ed ecco che la differenza fra essere ebreo e candidarsi a “nuovo ebreo” diventa sostanzialmente circoscritta in dieci bollettini postali da 30 euro al mese. In poco tempo, potrete mettere i tefillìn al braccio e credere che la vostra fede sia totalmente cambiata e la vostra vita si sia trasformata pagando dieci bollettini!!! Bastano solo 30 euro al mese per entrare nell’élite dell’esercito spirituale del nostro “grande Architetto” che deve trasformare la materia in una dimora per Lui. Ma, ne siamo proprio sicuri?
Questa tendenza ovviamente si accompagna con il rendere lo “stile” dell’ebraismo, ossia i precetti, più alla moda… Non bisogna più preoccuparsi con chi intratteniamo rapporti “sentimentali”.
Proprio come diceva Einstein: tutto è relativo! È vero queste “regole” sono rétro, sono passate… dunque ecco si scopre : la Torà ha una scadenza, come lo yogurt!
Quando “Scade” la Torà?
I vari movimenti riformati hanno come scopo l’apportare modifiche al corpo dottrinale o istituzionale della religione. Cambiamenti che sono fondati solo sulle logiche del loro intelletto. Essi cercano di accentuare le tendenze individuali, adottano nella liturgia la lingua nazionale e trasformano le Leggi “scomode” al servizio del progresso tecnologico e alle comodità personali. Il loro obbiettivo è quello di facilitare l’approccio alla pratica religiosa senza interferire nelle varie e quasi infinite esigenze personali delle persone.
Il vero problema è che, in questo modo, fissano una scadenza alle Leggi della Torà. Essi affermano implicitamente che essa, così com’è stata data, non può più essere valida nel terzo millennio. Quindi, secondo loro, la Torà era adatta ai nostri Padri privi di qualsiasi innovazione tecnologica, ma per essere valida oggi dovrebbe subire una serie di mutamenti che si prefiggono di apportare. Se è vero che la Torà è dettata da Dio, di conseguenza dotata di un carattere eterno, come potrebbe subire modifiche umane nel corso del tempo?
Passato, Presente e Futuro
Il paradosso è chiaro. Si vuole conferire un limite di tempo a qualcosa di eterno, quindi, in quest’ottica assurda, si “potrebbe” anche modificare umanamente il divino. Allora perché non inventarsi una “nuova” Torà, invece di modificare in modo ridicolo quella considerata “obsoleta”?
Il riformista cerca di mantenere il legame con l’ebraismo per paura di assimilarsi, cercando di cambiarne la forma e tentando di trasformare la Torà a suo piacimento, secondo la sua logica, la sua mente, piuttosto che elevare se stesso verso di essa. Così facendo non si rende conto che il suo modo di professare la fede si avvicina molto di più alle altre religioni e inevitabilmente perde di vista le principali caratteristiche di quella ebraica che, da legge divina, diventa “spavaldamente umana”.
Questo non rappresenta solo un inganno verso se stessi, ma anche verso gli altri poiché, dando una pseudo-tranquillità alla propria coscienza, non ci si rende conto di usurpare la Torà e perdere tutte le grandi e stupende cose che può regalare.
Anime che Scendono
L’incompatibilità dell’ebraismo con i vari movimenti riformisti, o comunque con chi si rifà a un’ideologia simile, diventa ancor più stridente se riflettiamo sul fatto che siamo agli albori dell’Era Messianica. Uno dei “segni” di questo cambiamento epocale è il crescente fenomeno dei giovani che fanno Teshuvà, cioè ritornano alla pratica religiosa dei dettami della Torà. Evidentemente hanno un “risveglio” dell’anima che spinge il corpo, vincendo “l’istinto animalesco”, a ritornare a Dio. Tuttavia, l’anima scende dalla sua originaria e spirituale dimora in un mondo pieno di mezze-verità e complete bugie, in cui spesso dominano valori contrastanti con quelli insegnati nell’ebraismo. A dispetto di tutto questo, l’anima viene qui. Perché? Una delle spiegazione di questo straordinario fenomeno la troviamo nella Torà stessa e soprattutto nella sua “eternità”. In questo mondo l’anima valorizza la sua grandezza perché può trasformare il mondo e renderlo una dimora per Hashèm. Nei mondi spirituali questo non è possibile, lì le anime sono come di robot.
La sempre crescente diffusione dell’ebraismo e, in particolare, del pensiero chassidico richiamano e permettono a molti giovani e meno giovani, sempre di più, nonostante il buio che sembra circondarci, di ritornare a Dio, alla Torà e alla mitzvòt. Le anime anelano a fare la volontà di Dio e sanno che solo in un corpo fisico potranno costruire il terzo e definitivo Tempio, sia fisico che spirituale, in questo mondo.
Questo concetto è collegato alla porzione della Torà di questa settimana in particolare nella vicenda del Vitello d’Oro e nella volontà di Hashèm di dimorare e risiedere “dentro di noi”, comunque nonostante i nostri peccati.
(Riportiamo questo brano tratto dal “Midràsh Racconta”, Mamash Edizioni Ebraiche)
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PILLOLE DI MIDRÀSH LA CURA PRIMA DELLA MALATTIA
Dopo il peccato del Vitello d’Oro, Moshè implorò incessantemente Dio di perdonare il popolo d’Israele finché Dio non acconsentì. Nonostante tutto, Moshè non era soddisfatto e interrogò Dio: «Come sarà evidente alle altre nazioni che Tu hai effettivamente perdonato il popolo di Israele?».
«Fai costruire al popolo d’Israele un Mishkàn, un Tabernacolo. Là essi offriranno i sacrifici che Io accetterò. Questo sarà la prova manifesta del mio amore rinnovato per il Mio popolo!», rispose Dio.
Sebbene la mitzvà di costruire il Mishkàn fu emanata dopo il peccato del Vitello d’Oro, la Torà la registra come se fosse avvenuta prima di esso (le parashòt di Terumà e Tetzavè che trattano del Mishkàn precedono il racconto del peccato del Vitello d’Oro, di cui si parla nella parashà Ki Tissà). La Torà capovolge l’ordine cronologico per insegnarci che Dio prepara l’antidoto al peccato addirittura prima che esso sia stato commesso. Dio previde il peccato del Vitello d’Oro. Egli perciò ordinò di costruire il Mishkàn. Peccando, il popolo d’Israele costrinse la Shekhinà (presenza divina) a ritirarsi nei Cieli. Attraverso il Mishkàn, tuttavia, la Shekhinà è tornata in Terra.
Quando Moshè ascoltò le parole di Dio: “Fai loro fare per Me un Santuario, cosicché Io possa dimorare tra loro” (Shemòt 25, 8), egli fu colto alla sprovvista. «Come puoi Tu, la cui Gloria riempie il cielo e la terra, risiedere in un’umile dimora che noi abbiamo eretto per Te?», chiese Moshè.
Dio rispose: «Io non ho neanche bisogno dell’intero Mishkàn come luogo per risiedere. Infatti, confinerò la Mia Shekhinà in un’area limitata di un cubito quadrato, lo spazio tra i bastoni dell’aròn» (la Shekhinà risiedeva nella parte più santa del Mishkàn, che era l’Arca Santa). Dio, nel Suo grande amore per il popolo d’Israele, restrinse la Sua Shekhinà nel Mishkàn, come un padre che desidera dimorare assieme ai suoi figli.
Il Mishkàn e il Corpo Umano
La reale struttura del Mishkàn corrisponde al corpo umano, e i suoi annessi corrispondono ai vari organi e parti del corpo.
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L’Aròn corrisponde al cuore. Proprio come la vita di una persona dipende dalla vitalità del suo cuore, il ruolo dell’aròn, che contiene le tavole della legge, è fondamentale per l’intero Mishkàn.
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I Cherubini, che distendevano le loro ali sull’aròn, corrispondono ai polmoni sopra il cuore.
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Lo Shulkhàn (tavolo dei pani) rappresenta lo stomaco.
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La Menorà rappresenta la mente umana.
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Il ketòret trova il suo parallelo nel senso dell’olfatto.
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Il kiyòr (lavabo) suggerisce gli elementi liquidi presenti nel corpo umano.
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I tendaggi di pelle di capra corrispondono alla pelle di una persona.
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Le aste simbolizzano le costole.
Il Mishkàn venne costruito per rappresentare il corpo umano al fine di insegnarci che ogni ebreo che si santifica, adempiendo alle mitzvòt della Torà, diviene un Mishkàn (luogo di dimora) per la presenza divina.
Costruire il Terzo Tempio
Da ciò apprendiamo come Dio stesso vuole dimorare dentro di noi e più rivelato in questo mondo, ossia nel terzo Santuario di Yerushalàyim presto nell’era messianica. Questo Tempio viene ricostruito, giorno dopo giorno, adempiendo e rispettando i comandamenti, le mitzvòt, della Torà in questo mondo dove la divinità apparentemente non esiste. Luogo che ci spinge spesso a comportarci nel modo opposto agli insegnamenti, a volte illogici e poco comprensibili, contenuti nella Torà. In questo mondo buio è assai facile perdersi e vedere la luce anche dove non vi è. Per questo nella sua infinita bontà Hashèm ci sta permettendo ora, più che mai, di compiere la nostra missione, di “darci la cura” prima della malattia. Lui sa che siamo facilmente influenzabili dal “peccato”, che siamo spesso volubili e insicuri, ma Lui ci viene comunque in aiuto.
Grazie alla nostra teshuvà e al rispetto e diffusione dell’ebraismo e dei suoi precetti noi possiamo costruiamo il terzo e definitivo Tempio, sia fisico che spirituale, in questo mondo, presto ai nostri giorni, amen.
IMPEGNO ILLUMINANTE
Anche questa settimana vi proponiamo un estratto del libro “Saggezza Quotidiana” basato sugli
insegnamenti chassidici del Rebbe e dei suoi predecessori.
Il Potere del Desiderio
Il primo brano tratta un argomento fondamentale per la nostra crescita spirituale. Un insegnamento
del Rabbino Israèl Bà’al Shem Tov, il fondatore dello Chassidismo. Egli ci spiega un grande segreto
mistico, ossia la vera natura del male contenuta nei cosiddetti “peccati”. L’essere umano è in grado
di compiere qualcosa di sbagliato solo perché nel “male” vi è una scintilla di santità che può e deve
essere elevata. Quando una persona si pente, Hashèm eleva la scintilla divina del suo misfatto e la
restituisce alla sua fonte divina.
Il rabbino Shneur Zalman di Liadi, il fondatore del ramo chassidico di Chabad, aggiunge un concetto
che chiarisce l’insegnamento del Bà’al Shem Tov. In realtà quando si è compiuta una azione malvagia,
l’unica cosa che una persona può fare è quella di astenersi dall’atto. Il motivo è che il peccato già
compiuto non può essere più elevato alla sua origine, la fonte divina. Un sincero pentimento, invece,
consente a una persona di rimuove il desiderio. Il quale, a differenza dell’atto malvagio, non è
intrinsecamente “male” dato che ogni desiderio può spingere l’essere umano verso il bene o verso il
male. Pertanto, attraverso il pentimento, una persona riesce a privare il potere del desiderio della sua
“patina malvagia”. In questo modo è possibile elevare e restituire alla sua santa fonte il “peccato o i
peccati” commessi.
Il Valore dell’Impegno Santo
Il secondo brano scelto per voi spiega quale dovrebbe essere il migliore comportamento da tenere
nelle nostre vite. Nella vicenda delle due serie di Tavole dei comandamenti, ricevute da Moshè,
possiamo imparare l’importanza del nostro impegno e del nostro sforzo nell’adempiere i
comandamenti e nello studio della Torà. Hashèm stesso scolpisce la prima serie di Tavole dalle rocce,
sul monte Sinày, mentre le seconde Tavole sono state scolpite da Moshè.
Tuttavia, è solo dopo aver ricevuto le seconde Tavole, e non le prime, che il volto di Moshè brilla
perché ha faticato per scolpirle. Allo stesso modo, lo sforzo che spendiamo nello studio della Torà e
nell’adempiere ai comandamenti di Hashèm raffina anche i nostri corpi fisici. Se ci sforziamo di
studiare la Torà, essa verrà “assorbita” dal nostro corpo fino al punto di illuminare i nostri volti.
Da questi due brani impariamo quanto sia importante non solo astenerci dal male ma, soprattutto, di
impegnarci a compiere il bene in questo mondo con i nostri sforzi in maniera naturale, senza
pretendere sempre un aiuto miracoloso dall’alto.
Buona lettura a tutti.
*
Ki Tissà
Il Vitello d’Oro
Esodo da 30, 11 fino a 34, 35
La nona sezione del libro dell’Esodo inizia con le istruzioni finali di Hashèm riguardanti il
Tabernacolo. Egli dice a Moshè di “prendere” (ki tissà, in ebraico) per il censimento da ogni israelita,
maschio e adulto, un mezzo shèkel (una moneta d’argento). L’argento, così raccolto, è usato per
acquistare quei sacrifici offerti a nome dell’intero popolo. Poi Hashèm procede a istruire Moshè
rispetto a come costruire il Lavabo, usato dai sacerdoti per lavarsi mani e piedi prima di officiare nel
Tabernacolo, a come preparare e usare l’olio e l’incenso dell’unzione. Infine, Hashèm indica chi
doveva essere nominato per sorvegliare la costruzione del Tabernacolo e fabbricare i suoi arredi e
utensili. Tutto questo è seguito dal resoconto dell’incidente del Vitello d’Oro e dalle sue conseguenze.
*
Shemòt 34, 1–9
Hashèm, quindi, convoca Moshè sul monte Sinày, per un terzo soggiorno di quaranta giorni. Durante
questo periodo, Egli rivela i suoi tredici attributi di misericordia a Moshè. Invocando questi attributi
è sempre possibile ottenere il perdono di Hashèm.
Elevare il Potere del Peccato
[Il 10°, l′ 11° e il 12° degli attributi della Divina Misericordia, affermano che Hashèm] Perdona i
misfatti volontari, quelli di ribellione e i misfatti involontari. (34, 7)
La parola ebraica per “perdonare”, usata in questo versetto, significa letteralmente “trasportare” o
“sollevare”. Sulla base di ciò, il rabbino Israèl Bà’al Shem Tov, il fondatore del chassidismo, insegna
che Hashèm innalza la scintilla della santità dal misfatto. Nulla, nemmeno un peccato, può esistere
se non contiene una scintilla di santità.
Quando una persona si pente, Hashèm eleva la scintilla divina del suo misfatto e la restituisce alla
sua fonte divina. Il rabbino Shneur Zalman di Liadi, il fondatore del ramo chassidico di Chabad,
spiega questo concetto così: “È davvero impossibile elevare un atto peccaminoso; per una simile
azione malvagia, l’unico rimedio adeguato è rinunciarvi. Al contrario, il potere del desiderio,
conferito dall’atto, non è malvagio, poiché è possibile utilizzare questo potere per desiderare il bene
o il male. Quando ci pentiamo adeguatamente, priviamo il nostro potere del desiderio della sua patina
malvagia e lo restituiamo alla sua santa fonte”.
*
Shemòt 34, 27–35
Dopo il suo terzo soggiorno di quaranta giorni sul monte Sinày, Moshè scende il 10 di Tishrè 2449,
portando la seconda serie di Tavole che sostituivano le precedenti, rotte da Moshè quando aveva visto
gli israeliti adorare il Vitello d’Oro. La lunga permanenza di Moshè in presenza di Hashèm ha lasciato
un’impressione duratura sul suo corpo: il suo volto irradia luce.
Un Volto Splendente
Moshè non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante. (34, 29)
Hashèm stesso scolpisce la prima serie di Tavole dalle rocce, sul monte Sinày, mentre le seconde
Tavole sono state scolpite da Moshè. Tuttavia, è solo dopo aver ricevuto le seconde Tavole, e non le
prime, che il volto di Moshè brilla. Questo perché quando qualcosa ci viene donata da Hashèm, senza
aver lavorato per guadagnarla, non penetra nel nostro stesso essere. Pertanto, non a caso le prime
Tavole sono state rotte, mentre le seconde no. Quando lavoriamo per qualcosa, essa rimane con noi
in modo permanente; qualcosa che è ricevuta gratuitamente, può essere più facilmente persa.
Visto che è stato Moshè a scolpire le seconde Tavole, perciò la loro santità poteva essere contenuta
nel suo corpo fisico e quindi il suo viso ha iniziato a brillare. Allo stesso modo, lo sforzo che
spendiamo nello studio della Torà e nell’adempiere ai comandamenti di Hashèm raffina anche i nostri
corpi fisici. Se ci sforziamo di studiare la Torà, la potremo assorbire nel nostro corpo e i nostri volti
s’illumineranno.
Un caro Shabbàt Shalom
Rav Shlomo Bekhor
Virtual Yeshiva
se il talmid non va dal rabbi, il rabbi va dal talmid!600 Shiurim online divisi per argomenti.
Non perdere l’appuntamento con la parashà mistica e psicologia nella Torà
Per informazioni: www.virtualyeshiva.it
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Nuovo Video della lezione di questa settimana sulla Haftarà di Ki Tissà:
FINO A QUANDO SALTERETE SU DUE RAMI?
Eliyahu: Meglio Sbagliare che Tentennare!
www.virtualyeshiva.it/files/seminar/kitissa_haftara_eliyahu.mp4
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INCHIOSTRO RIMASTO NELLA PENNA!
Perché Michelangelo ha scolpito Moshè con due corna?
Al seguente link la pagina web della lezione della nostra parashà in formato mp3:
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Per ascoltare le altre lezioni sulla parashà:
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Virtual Yeshiva non fa pagare nessuna iscrizione al sito perché la Torà sia accessibile a TUTTI e SEMPRE.
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CENSIMENTO DEGLI EBREI = AUTOSTIMA
Un accusato di furto con scasso davanti al giudice.
“Ammetti di essere entrato nel negozio di abbigliamento quattro volte?” chiese il giudice.
“Sì”, rispose David, il sospettato.
“E cosa hai rubato?”.
“Un vestito, vostro onore”, rispose David.
“Un vestito?” ha fatto eco il giudice. “Ma ammetti di aver fatto irruzione ben quattro volte!”.
“Sì, vostro onore” sospirò il sospettato. “Ma tre di quelle volte sono state per restituire i vestiti che avevo rubato prima.”
“Hai restituito i vestiti…?” ha fatto eco il giudice. “Perché?!”
“A mia moglie non piaceva il colore.”Mezza Moneta Per Cambiare Il MondoI versi con i quali inizia la porzione della Torà di questa settimana, Ki Tissà, espongono le istruzioni che Hashèm dà a Moshè sul censimento del popolo ebraico. Quando è necessario fare un censimento, Israèl non può essere contato una persona per volta, come avviene normalmente, ma ogni membro della comunità deve contribuire con una moneta per la tzedakà: ogni moneta corrisponde a una persona, quindi dal numero delle monete si risale al numero delle persone.
Qual è il motivo di questa strana istruzione? Perché effettuare un censimento in modo così inusuale invece di contare direttamente il popolo? Per rispondere a questo quesito, possiamo trovare due spiegazioni.Quanto Vali?
Per prima cosa, la Torà ci dice che noi possiamo essere contati non in base a chi siamo ma per quello che diamo. Ovvero, il nostro vero valore si esprime grazie al nostro contributo per un’altra anima, all’amore e alla bontà che dispensiamo a un “altro cuore”.
Un esempio di vita può farci comprendere meglio questo concetto.
A Sir Moses Montefiore, grande filantropo e politico vissuto nel XIX secolo, un giorno venne chiesto quanto valesse. Il ricco uomo pensò un attimo poi disse una cifra. Il suo interlocutore replicò: “Non è possibile. Secondo i miei calcoli voi possedete molto più di questa cifra”.
Moses Montefiore rispose: “Lei non mi ha chiesto quanto possiedo, ma quanto valgo. Allora ho calcolato quanto ho dato in tzedakà quest’anno e questa è la cifra che le ho fornito. Come può vedere io valgo SOLO quanto sono disposto a condividere con gli altri”. Perciò il conteggio del popolo era valorizzato in base alla beneficenza che avevano dato del mezzo Shèkel.Come Valutare Un Popolo
Sembra esserci anche un altro messaggio nell’istruzione data da Moshè, che traspare dal racconto. La Torà ci suggerisce che per comprendere il valore e la grandezza di un popolo occorre studiare non il numero dei suoi appartenenti, ma la grandezza dei suoi contributi. La cosa più importante non è la quantità dei suoi componenti, poiché la differenza la fa l’impegno e la sollecitudine a offrire sacrifici per i propri valori e ideali. I numeri possono ingannare. Molti gruppi di persone a malapena lasciano una traccia. Di contro, a volte ci sono piccoli gruppi che impegnano il loro cuore e la loro anima per la loro missione, lasciando una grande impronta sproporzionata rispetto al loro numero.La Torà ci dice che per capire il significato della vita ebraica non dobbiamo studiare i numeri: gli ebrei non rappresentano nemmeno l’1% della società. Piuttosto, è importante esaminare il grande impatto che questo piccolo gruppo monoteista ha sul mondo. Le altre nazioni, culture e civiltà godono di grandi numeri, ampi territori e armi potenti. Ma nessun’altra persona o nazione ha lasciato l’impressione di essere una grande fucina di civiltà, come i pochi e spesso perseguitati discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Lo studioso cattolico Thomas Cahill ha scritto nel suo best-seller “I DONI DEGLI EBREI: COME UNA TRIBÙ DI NOMADI DEL DESERTO HA CAMBIATO IL MODO DI PENSARE E DI SENTIRE”:
“In effetti, la maggior parte delle nostre parole migliori – nuovo, avventura, sorpresa, unico, persona, vocazione, tempo, storia, futuro, libertà, progresso, spirito, fede, speranza e giustizia – sono doni degli ebrei. Noi possiamo alzarci la mattina o attraversare la strada senza essere ebrei. Noi sogniamo sogni ebraici e speriamo speranze ebraiche”.
Scrive lo storico contemporaneo Paul Johnson nel suo libro “STORIA DEGLI EBREI”:
“Ogni grande scoperta dell’intelletto sembra ovvia una volta che è stata rivelata, ma richiede un’intelligenza speciale per essere formulata per la prima volta. L’ebreo ha questo dono. In essi troviamo l’idea di uguaglianza di fronte alla legge, sia divina che umana; della santità della vita e della dignità della persona umana; della coscienza e della redenzione personale; della coscienza collettiva e della responsabilità sociale; della pace come un ideale astratto e dell’amore come fondamento della giustizia, e molte altre cose che costituiscono le basi morali della mente umana. SENZA GLI EBREI CI SAREBBE STATO UN GRANDE VUOTO”.
Questo è il secondo insegnamento del conteggio tramite un valore e non solo tramite la quantità numerica. Ciò che caratterizza l’essenza di Israèl è il suo valore che porta nel mondo, ovvero la sua qualità e non la sua quantità.
Il Potere Dell’amore
Così come ciò è vero riguardo alla nostra identità nazionale, allo stesso modo è vero per quello che riguarda ogni singolo individuo. A volte noi pensiamo a noi stessi: “Io sono inutile, io non valgo niente”.
La Torà ci insegna invece che solo un “IO ISOLATO”, rinchiuso nella sua vanità e nel suo egoismo, distaccato dal vero nucleo di dignità e maestà assoluta, può sicuramente diventare una piccola e insignificante creatura indegna di essere contata. “Se sono solo per me, allora chi sono (cosa valgo)?”, dice Hillel nei Pirké Avòt, Le massime dei Padri.
Tuttavia, ciascuno di noi, nella sua essenza è una “scintilla divina”, un “frammento” della luce di Hashèm, uno spirito libero, puro, fiducioso e gioioso. In quanto tale abbiamo il potere di dare il nostro contributo al mondo, di dare una mano per le esigenze degli altri. Ciascuno di noi può toccare il cuore, sollevare lo spirito, risvegliare un’anima, guardare una persona negli occhi e dire: “Ti voglio bene”. Possiamo sembrare di essere piccoli, ma l’amore e la luce che possiamo mandare agli altri attraverso un semplice gesto, un sincero “Buongiorno” o un atto di bontà e gentilezza, sono incommensurabili e hanno una forza infinita.
E quando si raggiunge gli altri, si scopre la PROFONDITÀ DELL’AMORE che Hashèm ha per ogni singolo. Tu sei parte della Sua luce, quindi tu puoi diffondere la Sua luce agli altri.
Quando leggiamo questa settimana il conteggio tramite una moneta di CARITÀ, ricordiamoci che il nostro valore è misurato in base a quello che diamo agli altri e che la grandezza di ognuno di noi è nella qualità non nella quantità. Inoltre dobbiamo essere dei luminari per l’umanità, poiché abbiamo una luce infinita da Dio per illuminare la società che ci circonda e cambiare questo mondo in positivo e renderlo una dimora per Dio.
Ma non dimentichiamo che questo è grazie al lavoro di ogni singolo perché ognuno fa parte del conteggio e ogni singolo ha la forza di fare pendere la bilancia del mondo verso il lato positivo (Maimonide).
Questo concetto mi ricorda una riflessione che mi piace molto ed è molto ebraica anche se viene attribuito alla tradizione confuciana, appartenente alla cultura cinese, ma che probabilmente è stata ereditata da Abramo che è il padre (Talmud Berakhòt) di tutta la cultura cinese e orientale:
“Quando ero giovane, ho voluto cambiare il mondo. Ma ho scoperto che era difficile cambiare il mondo, così quando sono cresciuto ho cercato di cambiare il mio paese. Quando avevo cinquanta anni ho notato che non ho potuto cambiare il mio paese, quindi ho cominciato a concentrarmi sulla mia città.
Tuttavia, ho scoperto che non potevo cambiare la città, e così quando sono diventato settantenne ho provato a cambiare la mia famiglia.
Ora, dopo gli ottanta anni, mi rendo conto che l’unica cosa che posso cambiare è me stesso, ma ho capito che se tempo fa avessi iniziato lavorando su me stesso, poi avrei potuto dare un impatto sulla mia famiglia. E la mia famiglia avrebbe influenzato la nostra città, che, a sua volta, avrebbe potuto cambiare il paese che forse avrebbe cambiato il mondo”.
Proprio come ha fatto IL PRIMO EBREO È ABRAMO, CHE HA CAMBIATO PRIMA SE STESSO E POI HA CAMBIATO IL MONDO INTERO PORTANDOLO DAL PAGANESIMO AL MONOTEISMO.
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(continua da sopra: CORONA)
Quindi il primo insegnamento è quello di riportare l’uomo alla sua vera dimensione limitata. La storia ci insegna che ogni volta che l’uomo si è illuso di essere Dio o di competere con Lui arriva subito il “promemoria dall’alto”, che a partire dall’episodio della Torre di Babele in poi, fino ai recenti eventi, ci ricorda che l’uomo non può modellare tutto come pensa debba essere o come crede sia giusto o conveniente. A volte, purtroppo, occorre prendere atto di non poter controllare un fenomeno, poiché non siamo Dio.
Il Rebbe, il mio maestro, ricorda sempre come lo scopo della vita e della stessa Torà è quello di trasformare “Il buio in luce”. Questo suo insegnamento, ci dovrebbe spingere anche ora, in questi momenti difficili non solo a non lasciarci sopraffare dall’”oscurità”, ma a dare, secondo le nostre possibilità, il meglio di noi. Non serve pretendere di diventare una sorta si supermen che salvano l’umanità, ma dovremmo applicarci maggiormente nelle “piccole cose”: passare più tempo con i nostri figli, cercare di aiutare un amico o un vicino in difficoltà, offrire qualche parola di conforto, anche un sorriso a volte basta. Certo questa situazione può essere molto dura: problemi economici, come e dove passare del tempo con i nostri figli ecc.
Proprio in un momento come questo dove sembra che il male sia enormemente superiore al bene, proprio in un simile frangente si può trasformare di colpo il mondo in bene con un pensiero, una azione o una parola pronunciata sulla base di importanti valori spirituali e etici.
Ovviamente occorre essere prudenti, cercare di salvaguardare la salute nostra o dei nostri amici o parenti, tuttavia non bisogna farsi travolgere e emotivamente e psicologicamente, poiché non solo non serva a nulla, ma è addirittura controproducente.
Ovviamente, quando accadono simili momenti di inquietudine e difficoltà questo è sempre un messaggio che ci arriva dall’alto e che dovrebbe portarci a riflettere e migliorare come singoli e come collettività. Occorre non abbattersi e cercare di avere fede e fiducia, di fare e dare il nostro meglio al fine di rettificare noi stessi e il mondo per agevolare l’arrivo di Mashiakh, presto ai mostri giorni, Amen.
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Nella porzione di questa settimana Ki Tissà del libro di Shemòt/Esodo (30, 13 -15) è scritto: “Questo è ciò che daranno tutti coloro che verranno sottoposti a censimento: un mezzo shèkel in base allo shèkel sacro. Lo shèkel è di venti gherà: la metà dello shèkel sarà come contributo ad Hashèm… per ottenere l’espiazione delle vostre anime…”.
Il Talmud di Gerusalemme e il Midràsh commentano che Hashèm tirò fuori una moneta di fuoco da sotto il Suo trono di gloria e mostrata a Moshè, gli disse: “Questo è ciò che [tutti] dovrete dare”.
Per quale ragione Dio avrebbe dovuto mostrare a Moshè una moneta, lo shèkel? Era forse così rara che Moshè non sapeva come era fatta? Certo che no! La ragione vera era che Moshè non si capacitava del fatto che dando una semplice moneta una persona potesse raggiungere “l’espiazione per le anime!”
Tuttavia, in apparenza, il concetto non avrebbe dovuto essere così difficile da comprendere, poiché era già stato stabilito che i sacrifici potevano servire come espiazione per i peccati. Subito dopo il conferimento della Torà, prima di questo comando, è scritto in Esodo (20, 21): “Fate per Me un altare di terra, sul quale sacrificherete le vostre offerte bruciate e le vostre offerte di pace”. Infatti, a quel tempo, Moshè non sollevò alcuna domanda.
Mentre, qui nella parashà di Ki Tissà vi è una differenza fondamentale: il mezzo shèkel serviva per espiare uno dei peccati più gravi mai commessi, quello del VITELLO D’ORO. Il peccato di idolatria – avodà zarà. Per questo Moshè era perplesso e dubbioso. Tuttavia l’idolatria è una gravissima mancanza, ma Hashèm il Creatore assoluto, può comunque stabilire un modo, come i sacrifici o una moneta, per espiare i peccati…
(continua sotto)
Ti riporto i link delle lezioni on line su
virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.
Shabbat ShalomRav Shlomo Bekhor
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IDOLATRIA: INGANNEVOLE RIEMPIMENTO
Perché ogni impulso e ogni vizio che ci domina è una forma sottile di idolatria?
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Per sentire le altre lezioni sulla parashà:
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FUOCO CHE SCOPRE L’ESSENZA
(continua da sopra)
Quale è allora la vera questione in gioco? È la Natura dell’anima Stessa!
Per spiegare meglio: le mitzvòt possono essere paragonate agli arti e agli organi del corpo umano: ogni arto e organo sono di una natura particolare, ma ognuno riceve la propria energia vitale dall’anima. Alcuni non sono arti o organi vitali per la vita di ognuno, come un piede o un orecchio; altri sono di natura generale, come il cervello e il cuore, dove al loro interno riposa la nostra vitalità essenziale: l’energia vitale necessaria per far funzionare tutto il corpo (Tikkuné Zohar; Tanya cap. 23 e 9)
Visto che le mitzvòt sono paragonate agli organi troviamo queste due categorie generali anche nelle mitzvòt: ci sono mitzvòt che sono di natura particolare e altre che sono di importanza generale “vitale essenza”. Ad esempio, le mitzvòt “I o sono il Signore tuo Dio, e non avrai altre divinità” (divieto idolatria) includono l’intera Torà. Esse sono di fondamentale importanza per l’anima, perché la connessione con Dio dipende dalla loro osservanza, nel fare o nel non fare.
Pertanto, quando Dio disse a Moshè che mezza moneta sarebbe servita come espiazione per il peccato del vitello d’oro, egli si chiese come un semplice mezzo shèkel potesse essere di espiazione per un’anima contaminata dall’adorazione degli idoli. La violazione di una delle mitzvòt “generale” è così lesiva della connessione/legame tra un uomo – o addirittura di un intero gruppo – con Dio che anche i capi della generazione ne risentono, a prescindere dalle loro mancanze individuali. Questo è proprio quello che è accaduto con il peccato del Vitello d’oro che ha causato una discesa spirituale dello stesso Moshè: la guida dei figli di Israele e “l’anima collettiva” di quella generazione. Al quale – pur non essendo coinvolto nel peccato in quel momento – Dio dice (Esodo 32, 7): “Va, scendi, poiché il tuo popolo è corrotto”. Frase che i saggi del Talmud interpretano come: “Scendi dalla tua grandezza” (Berakhòt 32a).
Dare con il fuoco interiore
Per tornare alla moneta di fuoco, la difficoltà di Moshè consisteva nel comprendere come il dono del mezzo shèkel potesse portare all’espiazione. Come è stata risolta questa difficoltà?
Per trovare la risposta, può aiutare questa storia da alcuni attribuita al Ba’àl Shem Tov: Un maestro insegnò al suo apprendista quasi tutto, ma trascurò di menzionare che prima di modellare l’oro o l’argento, il metallo doveva essere riscaldato per renderlo flessibile. Il maestro pensava che questo punto fosse così ovvio da non dover essere insegnato. L’apprendista, tuttavia, non ha mai afferrato questo concetto, quindi non è mai riuscito a diventare un artigiano di successo. Analogamente anche nel nostro servizio divino, le nostre azioni, mitzvòt, studio ecc.. dovrebbero essere pervase dal “calore” dell’anima divina. Su questa base, possiamo capire ‘importanza di mostrare a Moshè una moneta di fuoco.
Tuttavia, se il mezzo shèkel allude al fuoco dell’essenza dell’anima, rimane in piedi la questione del perché è sufficiente solo metà moneta? Dato che Hashèm mostra a Moshè una “moneta di fuoco” intera. E soprattutto, perché il versetto dell’Esodo ci informa che un intero shèkel è di venti gherà, mentre in realtà ogni individuo, donando mezza moneta, avrebbe dato solo dieci gherà? Il fatto che la Torà “sprechi” tante parole per elaborare questo concetto, indica che sono entrambi importanti: una persona deve dare la metà di uno shèkel, come uno intero; e che quando una persona dà dieci gherà, deve rendersi conto che sta dando metà di un’entità del valore di venti gherà.
Questo concetto, tuttavia, richiede una spiegazione. In generale, la Torà chiede che i nostri doni a Dio siano fatti dagli “articoli” migliori e perfetti che possediamo, come suggerito dalla frase: “Tutte le parti predilette [dovrebbero essere date] a Dio” (Vayikrà 3, 16). Ciò è particolarmente vero alla luce delle dichiarazioni fatte in precedenza, secondo cui il mezzo shèkel serviva come espiazione per il peccato del vitello d’oro. Un peccato che implica la negazione dell’unione con Dio. Di conseguenza, sembrerebbe appropriato che la sua espiazione implichi necessariamente il donare “tutto a Dio”: il meglio di noi. Questo, tuttavia, non è il caso trattato qui, poiché la mitzvà di dare mezzo shèkel implica che si debba conservare una parte per se stessi: LA METÀ.
Quindi qui la Torà ci sta dicendo che per esprimere l’unità con Dio, negata dall’idolatria, occorre dare tutto di se stessi ma sapere che è solo la metà. Questo concetto apparentemente anomalo si spiega con il fatto che una persona non é una entità di per sé, autoreferenziale. Mentre in realtà un uomo, da solo, è una NON ENTITÀ; una metà che per diventare completa deve unirsi con l’altra metà che è Hashèm.
Questo approccio al servizio divino evoca un’iniziativa speculare dall’alto. La perfezione di Dio “dipende” dal Suo popolo, per così dire. Per questo motivo Dio, nel Cantico dei cantici (5, 2), si riferisce al popolo ebraico come Tamatì, “colui che completa Me”(come interpretato in Likkutei Torà, 34d). In quanto la connessione dell’uomo con Dio non è un legame tra due entità separate: sono un tutt’uno. Solo quando si incontrano raggiungono – almeno per gli uomini (Dio non ha bisogno di completarsi) la perfezione.
Questa è la lezione del mezzo shèkel: un’entità incompleta che non contiene venti gherà, bensì solo dieci. Numero che allude ai dieci poteri o attributi dell’anima (Sefiròt) che ognuno dovrebbe dedicare a Dio durante il suo percorso in questo mondo. Quando si riesce in questo si ottiene una “risposta dall’alto” dalle dieci sublimi Sefiròt che sono emanazioni divine, i rimanenti dieci gherà.
Dio non è affatto limitato e non può essere definito in alcun modo. Tuttavia, a causa del suo grande amore per l’essere umano, si è “auto confinato”, per così dire, nella struttura delle dieci Sefiròt, da dove derivano i dieci poteri dell’anima che esistono in ognuno di noi: Sapienza, Intelligenza, Conoscenza, Amore, Forza… fino alla Regalità dell’ultima Sefirà di Malkhùt.
In tale ottica, l’uomo è chiamato Adam-simile, in riferimento alla frase Adamà L’Elyon , “Io assomiglio all’altissimo” (Isaia 14,14). Così i dieci poteri spirituali degli uomini e le dieci sublimi Sefiròt costituiscono insieme un’entità completa: dieci gherà + dieci gherà= shekèl completo. Da soli, senza l’altra metà che è Hashèm, ognuno di noi è incompleto.
Questo è il modo in cui la mitzvà della mezza moneta che un ebreo dà può essere una “moneta di FUOCO”: deve risplendere del fuoco dell’essenza dell’anima, come riflesso dell’effettiva donazione del mezzo – shèkel. Solo quando si rivela l’essenza dell’anima (fuoco) ci si sente solo come una metà. In questo modo si dimostra come un uomo e Dio sono una singola entità: l’essenza dell’anima umana collegata all’essenza di Dio. A volte, possono esserci imperfezioni e incongruenze tra il nostro intelletto o emozioni e il nostro rapporto, legame con Dio; al contrario l’essenza delle nostre anime è sempre, potenzialmente, unificata con Dio in un legame essenziale.
Ci sono due tipi di legami:
- due entità che si uniscono per una ragione (come due soci per lavoro), quando non esiste più la ragione che li unisce automaticamente l’unione sparisce, perché non è un unione che viene da dentro dall’essenza, bensì dall’esterno per una ragione razionale.
- due entità che in realtà sono solo una che si è divisa in due (come padre figli, due anime gemelle che si sposano etc.) e si ricongiungono naturalmente, perché la loro essenza è una sola.
Il nostro rapporto con Hashèm è rappresentato dal secondo tipo: un legame nell’essenza; nessuna idolatria, infatti può separare un’anima dal suo Creatore. Tuttavia per arrivare a questo livello bisogna risvegliare l’essenza dell’anima che brucia sempre, poiché è infuocato dal suo amore per l’Infinito, per Hashèm.
Questo spiega come dare un mezzo shèkel possa espiare il peccato del vitello d’oro. Tutti i peccati, anche quelli idolatri, non interrompono veramente la connessione essenziale di un uomo con Dio. Questa connessione rimane intatta in ogni momento, e quando viene rivelata (attraverso il mezzo – shekel), rivitalizza la connessione delle 10 Sefiròt, proprie dell’uomo, con le 10 divine.
Stabilire un’Alleanza
Questo concetto è anche collegato a un altro elemento della Parashà Ki Tissà, dopo che Moshe supplicò Hashèm di perdonare il popolo, Dio accettò e promise: “Ecco che Io stringo un’alleanza: il tuo popolo si distinguerà in maniera mai avvenuta in nessuna parte del mondo” (Esodo 34,10).
Fare un’alleanza stabilisce l’unità tra i principali contraenti. Tuttavia nella Torà un patto è stipulato dividendo una singola entità e facendo passare le persone tra le due metà: nell’alleanza stabilita tra Dio e Abramo, (Genesi 15) il fuoco celeste passò tra le metà degli animali macellati.
Questa pratica solleva una difficoltà, poiché la divisione di un’entità sembra riflettere la separazione, piuttosto che l’unità. Tuttavia, l’intento di un’alleanza è di evidenziare il tipo di unità. La pratica indica che proprio come le due metà dell’animale sono parti di un singolo insieme, così i due contraenti dell’alleanza sono mezze entità, ciascuna complementare all’altra.
Questo era il concetto che Hashèm desiderava condividere con Moshe, in relazione all’espiazione per il peccato del vitello d’oro. Stabilendo un’alleanza, Egli cercò di rivelare l’unità suprema tra Dio e Israèl, mostrando il legame tra l’essenza dell’anima e l’essenza di Dio. Niente può influenzare quella connessione. Come afferma il Talmud (Kiddushìn 36a): vedi “Indipendentemente da ciò, sono miei figli”.
“Le azioni dei Patriarchi sono un segno per i loro discendenti”.
L’alleanza tra Dio e Israèl iniziò con Abramo, il nostro Patriarca; l’alleanza stabilita con Moshè rappresenta, tuttavia un livello superiore. Fu solo dopo aver dato la Torà che il concetto del mezzo Shèkel è stato rivelato completamente: ognuno di noi è una mezza entità e solo insieme ad Hashèm, possiamo rivelare le nostre anime nel loro rapporto indissolubile con Dio. Perché solo MATAN TORÀ ha reso possibile la realizzazione dell’unità fondamentale tra Hashèm e Israèl.
Speriamo, che tutti noi abbiamo un motivo in più, per impegnarci con ardore e amore nello studio della Torà, Talmud, nelle preghiere quotidiane e nelle mitzvòt in genere. Affinché donando una parte di noi con calore, possiamo legarci alla nostra metà Divina, così da ricevere tante benedizioni di salute, benessere e felicità e agevolare l’arrivo di Mashìakh, presto ai nostri giorni Amen.
Il Chafetz Chaim una volta chiese a un visitatore se egli fosse Cohen, Levi o Israel. (Cohanim e Leviim sono discendenti della Tribù di Levi). Il visitatore rispose di essere un Israel – quindi non della Tribù di Levi.
Così il Chafetz Chaim spiegò: “Nel futuro, il Sacro Tempio sarà ricostruito a Gerusalemme. Ognuno vi si recherà per la prima volta, assembrandosi presso le porte per entrare dentro. Una guardia alla porta chiederà a ciascuno se sia Cohen, Levi, o Israel. Solo coloro che provengono dalla Tribù di Levi otterranno di entrare per compiere il servizio del Tempio. E gli Israelim saranno terribilmente sconfortati: Leviim dentro; Israelim fuori”.Il Chafetz Chaim continuò, “Sai perché è così? A causa di ciò che accadde migliaia di anni fa con il Vitello d’Oro. Quando Moshe pronunciò quelle famose parole, “Interrompete l’idolatria e andate con Hashem”, solo la tribù di Levi rispose. Perciò nel futuro, solo i discendenti della tribù di Levi eseguiranno il servizio del Tempio. E tutti gli altri rimarranno all’esterno poiché i loro antenati non risposero con fermezza di essere contro gli idoli”.Il Chafetz Chaim continuò, “questo contiene una lezione profonda. Molte volte nella vita, si sente una piccola voce nella testa che dice, “smetti di commettere idolatria”. Qualcosa ti sfiderà ad alzarti e farti contare dalla parte giusta. Hai la sicurezza e la convinzione di stare sulla retta via? Perché il modo in cui rispondi avrà implicazioni non solo per te, ma per le generazioni dopo di te. Ognuno ha il suo momento. Quando senti quella voce, alzati e fatti contare!”L’idolatria esiste anche nel Ventunesimo secolo in forme più sottili: adorare un giocatore di calcio, venerare un cantante rock, essere schiavi del dio denaro…
L’episodio del Vitello d’Oro ci porta a riflettere su quello che stiamo facendo.
Abbiamo perso di vista le nostre vere priorità? Siamo stati trascinati dalla massa?Questa storia ci svela anche un’altra fondamentale lezione: impegnarsi, non solo come singoli, a servire Hashèm. Con il peccato del vitello d’oro molti ebrei unirono le proprie forze per deviare e far deviare gli altri. E lo fecero con incredibile solerzia e impegno. Un conto è servire un idolo in solitudine, ma è molto peggio se viene adorato in pubblico, tanti persone unite per fare qualcosa di orrendo.Come la prossima storia ci insegnerà, noi tutti dobbiamo imparare ad agire non solo come singoli, ma anche come collettività nell’eseguire la nostra missione in questo mondo.Nella stessa porzione della Torà di questa settimana del racconto del Vitello d’oro troviamo all’inizio l’antidoto di questo peccato che è il conteggio del popolo attraverso l’offerta di mezzo shekel: quando gli uomini di Israèl venivano censiti, veniva richiesto a ognuno di contribuire con una moneta del valore di mezzo shèkel. Le monete venivano poi contate e il totale indicava quanti uomini erano stati annoverati.
Tale procedura fa sorgere diverse domande. Perché gli uomini non venivano contati “per teste”? Perché invece si chiedeva a ognuno di donare una moneta?
I maestri rispondono che il metodo del censimento attraverso le monete simboleggia il fatto che ogni singola persona conteggiata è portatrice di un proprio valore individuale.Tuttavia ciò conduce a diverse domande. Se è così, perché ogni uomo doveva donare solo mezzo shèkel invece che uno intero? Perché ogni individuo non ha dimostrato di essere intero e completo?
Infatti è proprio questo il punto: enfatizzare il concetto che nessun individuo è completo quando è solo. Nessun uomo, e certamente nessun ebreo, è un’isola solitaria in mezzo al mare. Egli può raggiungere le massime altezze della spiritualità ebraica e della fratellanza solo quando si associa e coopera con gli altri. Se diamo il meglio di noi per aiutare gli altri, imparare dagli altri e unirsi ad altri in positivi sforzi collettivi, allora è un vero membro della nazione ebraica. Al contrario, se si rimane lontano dagli altri ci si trova isolati.
Una delle condizioni fondamentali per migliorare è unirsi alla congregazione (Ràmbam Pèrek 4 Hilkhot Teshuvà Halakhà 1).Storia
L’importanza di lavorare insieme agli altri si evince dalla storia di un uomo che aveva perso la strada mentre si trovava in un’immensa e folta foresta e continuava a camminare a vuoto. Alla fine giunse presso una seconda persona, che si aggirava anch’essa per la foresta. “Puoi mostrarmi la via per uscire dai guai?” chiese.
“No, non ancora” disse il secondo uomo. “Tuttavia, nel corso dei miei viaggi ho già scoperto quali strade non prendere. Forse insieme potremo trovare quella giusta”.
E così fu. Ognuno mise a disposizione la propria conoscenza delle strade della foresta e con le loro informazioni messe insieme trovarono presto la giusta via. Se ognuno fosse rimasto solo, avrebbero vagato entrambi molto più a lungo.
Questo ragionamento è la base del fatto che noi preghiamo in Sinagoga con il minyàn, un gruppo di almeno dieci ebrei adulti. L’unione della preghiera ha una forza e un potere ENORME.
Dono Migliore
Questo concetto può essere spiegato tramite una parabola.
Una volta fu chiesto a un re di decidere quale tra due città meritava un determinato privilegio regale.
Entrambe le città mandavano i loro doni singolarmente, in momenti diversi. Non appena ogni dono arrivava, il re lo esaminava e generalmente cercava di trovarne un difetto. La seconda città tuttavia mandò tutti i propri doni con una sola spedizione. Quando arrivò questo pacco di doni, il re fu subito impressionato dall’enorme numero e non si sentì propenso a guardare ogni dono singolarmente. Come si poteva prevedere la seconda città guadagnò il suo favore.
Allo stesso modo, se ognuno di noi pregasse separatamente HaShèm “Lui” ci prenderebbe in considerazione su base individuale e senza dubbio ci troverebbe con delle azioni inadeguate. Al contrario, se preghiamo in gruppo, come parti di un minyàn, la combinazione delle nostre preghiere viene convogliata a HaShèm e, auspicabilmente, i meriti dell’intero gruppo potranno compensare le mancanze dei singoli.
Inoltre grazie agli altri riusciremmo meglio a non farci condizionare dalle mode imperanti nella nostra società, dai “falsi dei”, gli “idoli d’oro” che vorrebbero farci dare valore a cose che non ne hanno nessuno.
Passioni esagerate per il cibo o per una donna, il denaro, la propria macchina, tutte cose che possono farci credere, che sono dei valori assoluti e che da loro dipende la nostra felicità, da loro dipende il nostro destino.
Quando arriviamo alla lettura del Vitello d’Oro ci rendiamo conto che la valorizzazione di ogni tipo di tramite è sempre idolatria. E quando si pensa che il preziosissimo metallo dell’oro possa essere un tramite per unirci a Dio questo diventa idolatria.
Nel Santuario i Cherubini erano d’oro ed erano gli intermediari per parlare con Hashem, ma questo solo perché il Padre Eterno ha scelto come tramite queste due statuette, l’uomo non ha la facoltà di rendere santo un tramite.
Dopo 3.335 anni dal Vitello d’Oro questa malattia di rincorrere i soldi senza tregua non è debellata.
Solo quando arriverà il Mashiakh il mondo vedrà quali sono i veri valori e ci sarà abbondanza materiale, spirituale e capiremo che l’oro è solo un tramite.
Allora potremo occuparci solo delle vere cose, di conoscere Hashem, perché la divinità riempirà il mondo come l’acqua copre il mare, presto nei nostri giorni Amen.
La Parashà di Kì Tissà tratta in sintesi i seguenti argomenti:
HaShèm ordina a Moshè di contare il popolo avvalendosi del mezzo shèkel; la somma ottenuta verrà impiegata per la costruzione del Mishkàn.
HaShèm ordina a Moshè di costruire il lavabo di bronzo in cui i cohanìm eseguiranno l’abluzione di mani e piedi prima di intraprendere il culto del Mishkàn.
Preparazione dell’olio d’unzione con cui saranno unti gli oggetti e gli arredi del Mishkàn, Aharòn e i suoi figli.
Comandamento di osservare lo Shabbat.
Le Tavole della Legge vengono consegnate a Moshè.
Il popolo, constatando che Moshè indugia a scendere dal Monte Sinày, realizza il vitello d’oro. HaShèm ne informa Moshè, comunicandogli l’intenzione di annientare il popolo. Moshè Lo supplica di avere misericordia. Moshè scende dal monte e lascia cadere le tavole. Prende il vitello lo brucia e ne getta le polveri nell’acqua che poi fà bere agli ebrei che hanno peccato. Moshè viene assistito dai membri della tribù di Levì, ai quali comanda di uccidere con la spada tutti i colpevoli.
Moshè chiede a HaShèm di mostrargli il Suo volto e HaShèm gli risponde che gli si rivelerà solo “posteriormente”.
MIDRASHIM
Un aroma divino.
(a pagina 695 del volume Shemòt edizioni Mamash).
APPROFONDIMENTI KHASSIDICI
Mani, piedi e viso.
(a pagina 767 del volume Shemòt edizioni Mamash).
Dall’esilio alla redenzione.
(a pagina 769 del volume Shemòt edizioni Mamash).
Un peccato imperdonabile?.
(a pagina 771 del volume Shemòt edizioni Mamash).
Quaranta giorni di digiuno.
(a pagina 773 del volume Shemòt edizioni Mamash).
HaShem è Dio!
(a pagina 774 del volume Shemòt edizioni Mamash).
KI TISSA 5771 – IDOLATRIA: INGANNEVOLE RIEMPIMENTO
Perché ogni impulso e ogni vizio che ci domina è una forma sottile di idolatria? Una lezione basata sugli insegnamenti del Rebbe di Lubavitch.
KI TISSA 5770 – INCHIOSTRO RIMASTO NELLA PENNA!
Il segreto dell’ebreo apparantemente distante!
KI TISSA 5768 – IL VALORE DELLE SECONDE TAVOLE SULLE PRIME
Perché Hashem ringrazia Moshè per aver rotto le tavole della legge? Qual è il grande merito in questo?
KI TISSA 5767 – LA GUARIGIONE CHE VIENE DAL MALE STESSO
Il peccato del vitello d’oro e la purificazione del peccato. I sacrifici e Shabbat Parà.
KI TISSA 5766 – IL NODO CHE FA RICORDARE!
Che cosa dobbiamo fare affinché Hashem ci perdoni i peccati?
L’insegnamento di Moshè, dopo il vitello d’oro! Il grande valore della Tzedakkà e il nodo dei tefillim!
Lo Shabbat, giorno benedetto, che permette l’elevazione di quanto compiuto nella settimana. 57, il valore numero associato allo Shabbat!
[…] Per sentire le altre lezioni sulla parashà:http://www.virtualyeshiva.it/2019/02/16/ki-tissa-5774-cinque-lezioni/ […]