MIKKETZ 5784: 6 LEZIONI
Questo Shabbàt 16 Dicembre 2023, 4 del mese di TEVÈT 5784 leggeremo la Parashà di Mikkètz
PARASHÀ
Gen 41: 1-44: 17
HAFTARÀ
1 RE 3,15-4,1
MIRACOLI MIRACOLOSI O SOLO MIRACOLI?
Mikètz
Yossèf il Viceré
Continuando con il nostro appuntamento settimanale, anche oggi vi proponiamo due brani tratti dal
libro “Saggezza Quotidiana”. Questa settimana è una settimana speciale in quanto si celebra la
festività di Khanukkà, ma questo Shabbàt sarà ancora più speciale, poiché non solo si dovranno
accendere ben sei candele di Khanukkà, ma sarà anche il primo giorno di Rosh Kòdesh, il “primo
del mese” che inaugura il nuovo mese del calendario ebraico, Tevèt.
I brani scelti per voi oggi, sono collegati con i due aspetti principali della festa di Khanukkà:
miracoli e assimilazione.
Come è noto i greci non volevano uccidere o distruggere il popolo ebraico o l’ebraismo. Il loro
obbiettivo era invece quello di far diventare il popolo ebraico e l’ebraismo “normale” simile alle
filosofie e religioni del mondo. Al fine di raggiungere questo obbiettivo utilizzavano premi e
punizioni. I greci erano ovviamente generosi e accoglienti con gli ebrei che si assimilavano, quanto
severi e duri con quelli che invece continuavano ad essere fedeli alla Torà.
Apparentemente i greci avrebbero dovuto avere “gioco facile”… vogliamo mettere una comoda vita
contro il rispetto di ben 613 precetti/mitzvòt? Invece così, grazie a Dio, non fu! E grazie agli
insegnamenti cassidici del Rebbe possiamo trovare utili insegnamenti e considerazioni anche su
questo aspetto.
Il secondo brano del libro “Saggezza Quotidiana”, invece, ci parla dei miracoli “scontati”, ossia di
quelle cose che noi essere umani tendiamo a dare come “dovute”, senza pensare che in fondo anche
loro sono un evento miracoloso, anche se non rivelato. Khanukkà infatti, si basa su due miracoli che
trascendono l’ordine della creazione e, quindi, la razionalità: una boccetta d’olio che invece di un
giorno dura ben otto giorni e la miracolosa vittoria di un gruppo di sacerdoti, male armati e
addestrati, contro uno dei più forti, numerosi e preparati eserciti di allora. Tuttavia, questi due
aspetti non solo non cozzano tra loro, ma si completano. Hashèm, ovviamente, essendo infinito, può
fare tutto ciò che vuole e desidera. Quindi non esiste un aspetto di Dio che può essere limitato.
Come Hashèm può rivelarsi al di là e al di fuori delle regole da Lui poste nella creazione, come nei
miracoli di Khanukkà, il suo infinito potere si manifesta altrettanto anche nella “finitudine”, ossia
nella Sua capacità di “autolimitarsi” e occultarsi nel mondo. Entrambi questi aspetti manifestano
l’infinito di Hashèm e sono in qualche modo “miracolosi”, sia che ce ne accorgiamo sia che non ce
ne accorgiamo.
Non rimane che augurarvi un caro Shabbàt Shalom, e buona lettura.
*
SUNTO DELLA PARASHÀ
Con la decima porzione del libro della Genesi, continua la cronaca di Yossèf. Comincia due anni
dopo (mikètz, significa “alla fine di” in ebraico) rispetto a quando Yossèf chiede al coppiere del
faraone di intercedere per lui. Questa volta è il faraone che cerca un interprete qualificato per i due
sogni che ha fatto. Yossèf interpreta in modo convincente i sogni del faraone, avvertendolo che
dopo sette anni di abbondanza vi saranno sette anni di carestia. Questo fatto porta il faraone a
nominare Yossèf come viceré d’Egitto. L’inizio della carestia, fa scendere i fratelli di Yossèf in
Egitto, per comprare il cibo che Yossèf ha immagazzinato, durante gli anni di abbondanza. Quando
Yossèf li vede, escogita un modo per stabilire se loro hanno abbandonato il precedente odio verso
di lui e se sono pronti a unirsi a lui nel far progredire la famiglia nella sua missione divina.
Il faraone rimane così colpito dall’abile interpretazione di Yossèf del suo sogno che lo nomina
viceré d’Egitto, per consentirgli di attuare il suo piano. Dopo essere stato nominato viceré, Potifàr
l’ex padrone di Yossèf, gli dà sua figlia in moglie. Durante i sette anni di abbondanza, Yossèf ebbe
due figli: Menashè ed Efràyim.
Ricordando per Progredire
Yossèf, chiamò il primogenito Menashè . . . e chiamò il secondo figlio Efràyim. (41, 51–52)
Vivere in esilio ci impone di usare due approcci, apparentemente contraddittori, verso il mondo in
generale: da un lato, dobbiamo stare costantemente in guardia contro le influenze dannose;
dall’altro, dobbiamo affrontare il mondo esterno per influenzarlo positivamente.
Chiaramente, influenzare l’ambiente circostante è un risultato più grande del semplice
mantenimento dei nostri valori. Tuttavia, per mantenere i nostri valori dobbiamo prendercene cura,
perché se dimentichiamo le nostre radici non avremo più nessun contributo da offrire al mondo.
I due figli di Yossèf, nati e cresciuti in Egitto, personificano questi due aspetti della vita in esilio.
Yossèf, non a caso, chiama il suo primogenito Menashè (che significa “[l’esilio] induce a
dimenticare”), per non scordare la sua famiglia e le sue origini, e il secondo figlio Efràyim (“darà
frutti”), per enfatizzare che il nostro scopo è quello di influenzare positivamente il mondo.
*
Ya’akòv manda i suoi figli – tranne Binyamìn – in Egitto per comprare il grano. Yossèf li riconosce,
ma loro no. Yossèf escogita un piano per vedere se sono pentiti del loro comportamento passato:
minaccia di non riceverli la prossima volta, a meno che non portino Binyamìn con loro. Una volta
che Binyamìn arriverà in Egitto, Yossèf potrà inventare una scusa per tenerlo lì. Se i fratelli
combatteranno per Binyamìn, dimostreranno di essersi pentiti della loro gelosia per i figli di Rakhèl.
Ya’akòv è riluttante a mandare Binyamìn in Egitto, ma gli altri figli lo convincono che non c’è
scelta. Così, Ya’akòv acconsente, ma prima di rimandarli in Egitto con Binyamìn prega per il loro
successo.
Miracoli Naturali
[Dopo aver preparato un dono da inviare a Yossèf, tramite i suoi figli, Ya’akòv pregò] «Che Hashèm
Onnipotente (Shaddày) vi conceda misericordia dinanzi a quell’uomo». (43, 14)
La saggezza convenzionale afferma che la preghiera è necessaria in situazioni disperate. I figli di
Ya’akòv presumono che Yossèf trattiene il fratello, poiché sospetta che siano dei ladri o spie, così
pensano che basti un dono per placarlo.
Dalle parole di Ya’akòv ai suoi figli, tuttavia, impariamo che anche quando il risultato favorevole
sembra perfettamente naturale, non dovremmo mai presumere di poterlo raggiungere senza
l’assistenza divina. Dobbiamo sempre pregare non come rimedio secondario, ma come misura
principale.
Sebbene occorra creare canali naturali per facilitare le benedizioni di Hashèm, dovremmo renderci
conto he in realtà Egli controlla ogni aspetto della nostra vita, sia materiale, sia spirituale. Solo
quando ci rendiamo conto di questo, possiamo veramente percepire che gli eventi “naturali”, nelle
nostre vite, sono in realtà miracoli celati nella natura.
Uno spunto dalla parashà di questa settimana: (tratto da Chumash Genesi Edizione Avishay Namdar edito da Mamash)
Nella parashà è scritto che Yosèf vicefaraone d’Egitto riconobbe i propri fratelli quando vennero a comprare del grano per sopravvivere alla carestia: “Li riconobbe, ma si comportò da estraneo” Yossèf riconobbe i fratelli immediatamente, sia perché li aspettava, sia perché li stava cercando. Egli, però, quando era stato venduto, era ancora sbarbato e quindi per loro sarebbe stato molto più difficile riconoscerlo, anche perché ora indossava abiti regali e i suoi fratelli non avrebbero mai potuto immaginare che quell’uomo fosse il fratello venduto come schiavo. Per assicurarsi che non lo riconoscessero, Yossèf fece di tutto agire da straniero. Rambàn aggiunge che, probabilmente, egli abbassò il copricapo per coprirsi parzialmente il viso. Per natura una persona sconfitta prova grande pena. Se, dopo essersi inchinati a Yossef, avessero saputo che era lui lo stesso ragazzo che avevano deriso per i suoi sogni in cui essi gli si inchinavano, i fratelli avrebbero provato grande dolore e frustrazione e si sarebbero sentiti profondamente umiliati. Per questo motivo Yossef non rivelò la sua identità. La Torà così ci dimostra quanto grandioso fosse Yossef: una persona comune sarebbe stata ben contenta di sfruttare un’occasione del genere per vendicarsi e per imporre al suo nemico tutto il dispiacere dell’umiliazione e della sconfitta. Yossef, invece, fece proprio il contrario: quando gli si prostrarono nascose la sua vera identità e si comportò da estraneo per risparmiare loro l’amaro sapore della sconfitta (Kedushàt Levi)
LA TROTTOLA DI MASHIAKH
Sevivòn è un oggetto ludico tipico della festa di Khanukkà. Si tratta di una sorta di trottola a quattro facce: su ciascuna delle facce è impressa una lettera dell’alfabeto ebraico: Nun ;נ Ghimmel ג; Hey ה; Shin ש che, nella diaspora, ossia fuori da Israele, formano l’acronimo della frase “Nes Gadol Hayà Sham”: “Un grande miracolo accadde là” (נס גדול היה שם).
Da questo già si comprende come il Sevivòn sia un oggetto di grande importanza simbolica, intimamente legato al miracolo di Khanukkà e alla lotta del popolo d’Israele contro l’impero ellenistico e soprattutto contro l’ideologia greca, allora dominante nel mondo occidentale. Tuttavia, questa trottola, oltre al significato immediato, nasconde un profondo insegnamento valido anche oggi, per ogni singola persona e per tutta l’umanità.
Quindi, per comprendere meglio il significato SOD/SEGRETO di questa “trottola” dobbiamo far ricorso alla ghematria: tecnica che attraverso l’equivalenza numerica tra due o più parole o frasi, permette di comprendere anche i significati nascosti che le legano assieme.
La somma delle quattro lettere, incise nello Sevivòn, è di 358: NUN 50 + GHIMMEL 3 + HEY 5 + SHIN 300. Il numero 358 ha profondi significati, infatti è lo stesso della parola nakhàsh/serpente formata dalle lettere ebraiche Nun 50, Khet 8 e Shin 300.
Quale animale può rappresentare meglio la lotta tra il bene e il male se non l’”onnipresente” serpente che in qualche modo, fin dai tempi di Adamo ed Eva, tormenta l’umanità? Inoltre esso simboleggia proprio la situazione in cui il popolo ebraico si trovava ai tempi della dominazione greca.
“Quando i re greci regnavano in Siria, al crudele re Antiochus venne in mente di far abbandonare agli Ebrei la loro religione, la Torà e le Miztvòt. Alcuni Ebrei ebbero paura di disobbedire, non volevano morire, altri cercarono addirittura di ingraziarsi il re per ottenere regali e favori. Ma c’erano tanti Ebrei per i quali le ricchezze e il potere non avevano importanza, se il loro prezzo era abbandonare la Torà ed il loro modo di vivere che tramandavano dal tempo di Moshè.
Durante l’occupazione di Israele da parte dei greci, questi entrarono nel Tempio e contaminarono tutti gli olii che servivano per accendere la Menorà. Questa contaminazione fu voluta e sistematica, poiché i greci non erano contrari all’accensione della Menorà, ma la sua luce doveva provenire da un olio che avesse il tocco greco, il tocco di un pagano. I greci non avversavano i valori morali ed etici che la Torà racchiude, ma si opponevano all’osservanza dei precetti divini che distinguono il modo di vivere degli ebrei. La Menorà, accesa con olio puro e consacrato, è il simbolo palese del perpetuarsi del modo di vita ebraico e i greci erano decisi a cambiare tutto questo”.
Come è evidente la storia Il SERPENTE/MALE/NAKHASH e la dominazione greca hanno molti punti in comune. Tuttavia è solo questo l’insegnamento del Sevivòn? L’ebraismo non ci insegna forse che tutto viene da Hashèm e che le cose non possono essere così “semplici e lineari”? Quindi andiamo a “svelare” il secondo e fondamentale messaggio della “trottola di Khanukkà”.
La ghematria delle 4 lettere del Sevivòn e della parola Nakhàsh/Serpente, equivale ad un’altra parola dal significato opposto: MASHÌAKH che vale sempre 358.
Qui le cose si complicano… no? Come è possibile che il REDENTORE dell’umanità, Mashiàkh possa in qualche modo essere paragonato al simbolo del male, il serpente? Il proseguimento della storia di Khanukkà ci può essere di aiuto:
“La situazione peggiorava sempre più e ormai erano pochi gli Ebrei rimasti, la maggior parte erano fuggiti o erano stati uccisi. Un giorno, nel villaggio di Modiìn dove vivevano Matityahu, il sommo Sacerdote, con i suoi cinque figli, arrivarono i soldati del re che eressero un altare nella piazza del paese ed ordinarono alla gente di sacrificare degli idoli.
Furioso, Matityahu attaccò i soldati, li mise in fuga e proclamò l’inizio della rivolta. Sotto la guida dei Khashmonaim (Asmonei, nome della famiglia di Matityahu) si formò un piccolo ma coraggioso esercito di valorosi Ebrei decisi a difendere l’onore di Hashèm.
E Hashèm fece loro dei grandi miracoli: i pochi conquistarono i molti, i deboli sconfissero i forti, poiché essi erano forti nello spirito e combattevano per Hashèm e la Torà. Quando finalmente l’usurpatore fu cacciato, Gerusalemme fu riconquistata e il Santuario – Bet Hamikdàsh fu ripulito e risantificato. Khanukkà infatti significa inaugurazione.
Una volta liberato il Tempio, gli Asmonei insistettero nella ricerca di olio puro, che recasse intatto il sigillo del Sommo Sacerdote e furono premiati quando trovarono un’ampolla ancora incontaminata. Purtroppo l’olio che conteneva bastava a tenere accesi i lumi un giorno soltanto.
Ed ecco che avvenne il miracolo: l’olio durò gli altri sette giorni necessari per andare alla terra di Ashèr, preparare l’olio nuovo e portarlo fino a Gerusalemme”.
Quindi adesso tutto è più chiaro. No? Il Sevivòn simboleggia la rettificazione del “male”! Solo grazie a questa opera potrà avvenire la redenzione dell’umanità attraverso l’arrivo di Mashìakh. Tuttavia è importante capire di quale tipo di rettificazione si parla nella storia di Khanukkà. I greci in fondo non erano ostili all’ebraismo. O meglio ancora, non erano ostili alla cultura ebraica, alle sue conoscenze e ai suoi riti. I greci non avrebbero avuto problemi a vedere accesa la Menorà del Tempio con dell’olio, poiché non chiedevano al popolo ebraico di rinunciare allo studio della Torà e dei suoi riti e regole. Quello che i greci volevano distruggere era l’idea che Hashèm domina la materia. Ossia che i precetti di Hashèm prescindono dalla logica razionale della cultura greca. Per i greci l’olio era olio! Non capivano il fatto che servisse il sigillo del Cohen Gadol, Gran Sacerdote per rendere una boccetta d’olio, idonea e pura per l’accensione dei lumi della Menorà.
La verità dell’irrazionale
Quindi è questo il vero significato della storia dei lumi di Khanukkà. Il vittorioso popolo ebraico volle stabilire in maniera esemplare come i precetti di Hashèm, TUTTI, anche quelli più irrazionali secondo i parametri della logica umana, sono veri. Per questo accesero i lumi solo con l’unica boccetta d’olio pura rimasta dotata del sigillo. Incuranti del fatto che “razionalmente” poteva durare solo un giorno, mentre per fare del nuovo olio puro ne sarebbero serviti almeno otto!
Questo fu il grande miracolo di Khanukkà: la dimostrazione che Hashèm è onnipotente nei cieli e nella terra e che Lui domina e, allo stesso tempo, trascende qualsiasi logica materiale umana e terrena di questo mondo. Grazie alla loro fede il popolo ebraico venne premiato con questo evidente miracolo. Un miracolo che era allora, come adesso, una lezione esemplare di chi governa il mondo e di chi regna veramente su di esso.
Khanukkà un assaggio dell’era messianica
E il miracolo di Khanukkà dove la luce illumina il buio dell’esilio, del serpente, della razionalità e materialità greca, rappresenta un assaggio dell’era messianica, la quale presto arriverà nei nostri giorni. Questo concetto lo ritroviamo proprio nelle 4 lettere dello Sevivòn, “la trottola” di Khanukkà. Un altro acronimo formato con queste quattro lettere è la parola Gòshna (גשנה) che troviamo in Genesi 46, 28 proprio nella parashà subito dopo Khanukkà: “Mandò Giuda davanti a lui (Giacobbe) da Giuseppe, verso GOSHNA…”. Questo episodio si riferisce alla terra che è stata abitata dal popolo ebraico durante l’esilio egiziano. Nella Torà essa è definita come “la migliore terra d’Egitto”, la più fertile e ricca. Per Israèl ricchezza vuole dire anche abbondanza di spiritualità, ovvero nella terra impura dell’Egitto, troviamo una oasi di spiritualità che è la terra di Goshen. Non a caso fu proprio QUELLA TERRA donata a Sarà quando fu rapita dal faraone come compenso del disagio a lei causato, sicuro perché è una terra più compatibile con i valori spirituali e monoteistici di cui Sarà è pioniera.
Non a caso in questo contesto viene chiamata questa terra GOSHNA e non Goshen come di solito, come dice il Bal Itùrim per enfatizzare che il luogo dove si accende la luce nel buio dell’esilio è rappresentato dalle lettere GOSHNA che sono la dimensione dell’era messianica 358, quando culminerà la trasformazione del buio in luce.
Ma non solo! Questo versetto parla di come Giuda fu incaricato di stabilire in questa terra una Yeshivà, una scuola per lo studio della Torà. Questo per permettere ai figli di Israèl, anche durante l’esilio di non perdere il proprio legame con Hashèm che viene alimentato solo con lo studio della Torà. Ovvero di non perdersi e assimilarsi anche durante la tremenda schiavitù egiziana, mantenendo acceso “il lume” la luce della Torà.
Questo messaggio è oltremodo attuale. Anche noi ora nel nostro esilio dobbiamo sapere che la Torà e le mitzvòt sono la luce che ci consentirà di illuminare il buio dell’esilio, senza assimilarci, e permettere la rivelazione della redenzione messianica. Proprio come durante la dominazione Greca, nonostante il duro esilio e l’oppressione la luce della Menorà contribuisce, fino ai nostri giorni a indicarci la via su come possiamo e dobbiamo rettificare il Serpente anche durante il buio dell’esilio.
358 Arrivare All’assoluta Rettificazione
Questo è il profondo legame tra NAKHASH e MASHÌAKH, la rettificazione assoluta. Hashèm, ovviamente è il Re del mondo, che lo sappiamo o meno, Egli ricrea tutta l’esistenza in ogni secondo, Egli ha creato questo mondo dal nulla e lo ricrea in ogni istante. Senza la sua volontà di ricreare l’esistenza tutto “sparirebbe” per sempre, come se nulla fosse mai esistito. Tuttavia per noi essere umani questa presenza, il Suo regnare, non è evidente. O perlomeno dobbiamo sforzarci di percepire il suo Regno in molti frangenti delle nostre vite. Non lavorare di Shabbàt, ad esempio, nella convinzione che Dio, comunque, non farà mancare nulla a noi alla nostra famiglia. E oltretutto nella consapevolezza che così facendo rettifichiamo l’intero universo e agevoliamo l’arrivo dell’era Messianica per il bene nostro e di tutta l’umanità. Vi è qualcosa di più irrazionale? Proprio come sperare che una boccetta d’olio possa durare otto giorni invece che uno solo perché realizzando la volontà di Hashèm, siamo sicuri di un suo pronto e miracoloso aiuto.
Quanto sopra e il “segreto di Khanukkà” lo ritroviamo nella preghiera mattutina del rito ebraico. Quando durante la preghiera di Shakhrìt si recita: “Hashèm Mèlekh, Hashèm Malàkh, Hashèm yimlòkh”, ossia “Hashèm Regna, Hashèm ha regnato, Hashèm Regnerà”.
E non a caso il valore numerico di questa frase è proprio di 358 (יהוה מלך יהוה מלך. יהוה ימלך) come Serpente e Mashìakh. Questo brano della preghiera ci dice che quando arriverà Mashìakh, il Serpente verrà rettificato in maniera permanente attraverso la rivelazione che Hashèm non solo “Regna e ha regnato”, ma che Regnerà per sempre d’ora in poi.
Questo concetto lo vediamo alluso nella struttura stessa preghiera “Hashèm Regna, Hashèm ha regnato, Hashèm Regnerà”. I primi due brani “Hashèm Regna … ha regnato” sono tratti dai Salmi di David (10 e 50), mentre l’ultimo brano “Hashèm Regnerà per sempre” è tratto da Esodo dalla “Cantica del mare”, dopo che il Mar Rosso si è diviso momento in cui anche i bambini si sono elevati a profeti e hanno visto il Divino con i loro occhi materiali, proprio come nell’era messianica che l’occhio materiale vedrà l’infinito. Allora la materia rifletterà la sua divina che è in essa, perché sarà completamente rettificato il mondo, e il buio illuminerà più della luce stessa: la luce che viene dalla trasformazione del buio è molto più forte della luce stessa.
L’apertura del Mar Rosso simboleggia l’inizio di questo processo che terminerà con l’arrivo di Mashìakh e il rivelarsi della sovranità di Hashèm come Re Eterno.
Khanukkà è un assaggio dell’era messianica, dove il buio ellenistico ha rivelato una luce infinita di miracolo come nell’era messianica.
Ogni volta che accendiamo i lumi di Khanukkà noi riportiamo nel mondo e nelle nostre case questa luce di trasformazione del buio in luce, e in particolare quando facciamo girare il Sevivòn vicino alle candele con le 4 lettere che manifestano la dimensione imminente messianica 358, che si rivelerà presto nei nostri giorni, amen.
Ho il grande piacere di condividere una storia emozionante che manifesta l’essenza di Khanukkà.
Ci troviamo a metà della ricorrenza dove si festeggia la miracolosa durata della piccola ampolla di olio, sufficiente per illuminare solo un giorno, e che invece ha illuminato la Menorà del sacro Tempio di Gerusalemme per ben otto giorni.
Tuttavia, possiamo ben dire, dopo circa 2.200 anni dal grande miracolo, che la luce di Khanukkà continua a illuminare tante anime con una luce sovrannaturale.
Ci si potrebbe chiedere: molte festività sono celebrate per lunghi periodi simili quindi, cosa rende speciale la festa di Khanukkà?
La risposta è che essa continua a trasmettere ogni anno dei valori antitetici a quelli che dominano la cosiddetta “modernità”. Questa festa è la vittoria della luce sul buio, della spiritualità sulla materia, dei forti suoi deboli, dei pochi contro i tanti…
Per cui qualche millennio fa, Israèl si è ribellato con tanto sacrificio al dominio greco, meritando il miracolo, sopra citato, dell’ampolla d’olio. I greci rappresentavano il simbolo della “ragione e razionalità, la forza del fisico e la sua bellezza come se fosse un culto”. Essi volevano “normalizzare” la Torà e il popolo ebraico rendendo la sua religione come tutte le altre, piena di riti simbolici, spiegabili, logici e utili per le attività umane: commerci, agricoltura, viaggi ecc. I greci non volevano distruggere il tempio, l’olio o la Menorà, essi volevano razionalizzare questi simboli, i loro mistici e spirituali significati e renderli simili a qualsiasi altra “filosofia”.
IL MIRACOLO DI KHANUKKÀ DEL 1939 A KAUNAS
(continua da sopra)
Subito dopo l’invasione nazista della Polonia, diecimila profughi fuggirono dalle persecuzioni naziste verso le regioni confinanti della Lituania. A quel tempo la Lituania era ancora un paese democratico e indipendente, e le comunità ebraiche lituane aprirono le loro case e i loro cuori ai profughi. I profughi ebrei che avevano sperimentato gli orrori nazisti in persona temevano che anche la Lituania non sarebbe stata risparmiata e assediarono tutte le ambasciate straniere nel disperato tentativo di ottenere il visto per espatriare dal paese. Ma il mondo voltò le spalle agli ebrei e pochi visti furono rilasciati. Successivamente, quasi per miracolo, la persona più inaspettata venne in soccorso ai profughi.
Questo miracolo cominciò a prendere forma a casa di Solly Ganor a Kaunas, Lituania, una sera di Khanukkà del 1939. Il testo che segue è un estratto del racconto di Solly Ganor su quel memorabile avvenimento.
Un Viaggio Nel Passato
«Avevo undici anni quando incontrai Chiune Sugihara, il console giapponese di Kaunas. Era il dicembre 1939 e stavamo celebrando Khanukkà, la festa delle luci. Per noi bambini era una festa particolarmente preferita, perché a Khanukkà tutti i membri della famiglia ci davano soldi. Qualche volta ricevevamo persino dei soldi da amici. Ma quell’anno decisi di dare tutti i soldi che avevo raccolto al fondo per i profughi ebrei. In realtà, nessuno mi chiese di fare questo, ma quando le signore della commissione per i profughi vennero a casa nostra, senza ragionare troppo diedi loro i dieci Lit che avevo raccolto. Dieci Lit erano una grossa somma di denaro persino per gli adulti, e immediatamente me ne pentii, perché avevo un sacco di progetti con quella somma di denaro, ma ormai quello che era fatto era fatto. Le signore furono molto colpite dal mio gesto e mi assicurarono che i soldi sarebbero stati usati per comprare i visti per i profughi che volevano lasciare la Lituania. Quella settimana al cinema Metropolitan davano un film di Stanlio e Olio. Morivo dalla voglia di vedere il nuovo film, ma non mi erano rimasti più soldi in tasca: li avevo dati tutti ai profughi.
A mia madre dispiaceva vedermi in quelle condizioni e mi voleva prestare i soldi, ma mio padre s’impose: “Devi rimanere fermo su certi principi. È stato un atto di grande nobiltà da parte tua dare i soldi per i profughi, ma adesso non devi venire a piangere da noi per un rimborso”. Mio padre mi disse tutto quello con un certo tono di voce che conoscevo fin troppo bene. E la cosa che mi rendeva più furioso era il fatto che aveva ragione.
La mia ultima speranza era la zia Agnuska. Lei avrebbe avuto pietà di me. Sapeva che andavo pazzo per Stanlio e Olio. Avevo preso un appuntamento con Vova e Izia, i gemelli Glass, conosciuti come i Glazukes. Dovevamo incontrarci allo sportello dei biglietti per lo spettacolo del pomeriggio. Prima che partissi, mia madre si assicurò che fossi ben vestito e avessi il cappello e i guanti. “Fa’ in modo di essere di ritorno prima di sera”, mi disse. La neve scrocchiava sotto le mie scarpe, scintillando bianca sotto il sole pomeridiano. Era freddo, ma non mi dava fastidio, visto che stavo andando al cinema, tutto il resto non m’interessava. C’era una guerra in corso là fuori, in un posto lontano da noi, e i tedeschi avevano preso la Polonia, ma se non fosse stato per i profughi ebrei che arrivavano a fiumi in Lituania, non ce ne saremmo accorti.
Sulla strada per arrivare al negozio di zia Agnuska vidi delle Menorà con le candele alle finestre delle case ebraiche. Da una certa distanza potei vedere le finestre del negozio di mia zia vivacemente illuminate da lampadine colorate. Aveva una vasta clientela cristiana formata dalle famiglie più ricche di Kaunas, perché faceva venire articoli alimentari da tutto il mondo. Chi voleva caviale belga, champagne francese, o un po’ di elaborata cioccolata svizzera, poteva trovarlo da lei in negozio. Lei riforniva anche le ambasciate straniere che richiedevano particolari prodotti alimentari, che si potevano trovare soltanto nel suo negozio.
Quando entrai lei stava servendo un uomo elegantemente vestito con strani occhi obliqui. Agnuska gli stava parlando in russo. “Ah il mio caro nipote è venuto per i suoi soldi di Khanukkà, scommetto”, mi disse sorridendomi.
O non si ricordava che mi aveva già fatto un prestito, oppure voleva risparmiarmi l’umiliazione di chiederle un’altra elargizione. Oppure doveva essere stata informata della mia generosa donazione ai profughi dalle signore del comitato, e anche quello poteva essere il motivo. In ogni caso, non ho voluto conoscere il motivo.
“Vieni a conoscere sua Eccellenza, il console del Giappone, il signor Sugihara”, disse mia zia, quando mi vide sgranare gli occhi davanti a quell’uomo.
Camminai lentamente e stesi la mano. “Piacere di conoscerla, Signore”, dissi educatamente. Solennemente mi strinse la mano e mi sorrise. C’era humour e gentilezza in quegli occhi strani. Provai un’immediata simpatia per quell’uomo. Mi ricordai di quello che mio nonno una volta mi aveva detto: “Ricorda, gli occhi sono lo specchio dell’anima di una persona. Se li osservi abbastanza da vicino, puoi vedere quello che c’è dietro”. Ho conservato questo detto di mio nonno, come molti altri suoi detti incomprensibili. Ma quando guardai quell’uomo, improvvisamente capii quello che voleva dire. C’era qualcosa in quegli occhi che mi faceva intuire l’uomo che c’era dietro. Percepii un’aura di bontà e gentilezza intorno a lui, non riuscivo a spiegare.
Zia Agnuska, che notò il mio strano comportamento, rise. “Vuoi andare al cinema e hai bisogno dei Lit, vero?”. Scossi la testa velocemente, sempre guardando il signor Sugihara. Mentre Agnuska si dirigeva verso il registratore di cassa, lui tirò fuori dalla sua tasca una scintillante Lit. e me la porse dicendomi: “Poiché adesso è Khanukkà, considerami tuo zio” e mi diede la moneta.
Esitai un momento, poi presi la moneta e dissi qualcosa di totalmente inaspettato: “Dal momento che lei è mio zio, dovrebbe venire sabato alla nostra festa di Khanukkà. Ci sarà tutta la famiglia”. Rimasi stupito della mia audacia e non avevo idea di che cosa mi avesse spinto a dire una tale cosa. Agnuska, che stava ritornando con i soldi, ascoltò la nostra conversazione e mi guardò con incredulità.
“Ora che ci penso, non sono mai stato a una festa di Khanukkà. Ci verrei volentieri. Ma non pensi che dovresti chiedere prima ai tuoi genitori?” disse con un sorriso.
Agnuska ci guardò. “Sono sicura che sua Eccellenza sarà occupato”. Disse un po’ imbarazzata, ma poi aggiunse subito: “Ma se è libero e vuole venire, è cordialmente invitato”, disse un po’ confusa.
“Allora d’accordo. Ci vedremo sabato” disse il console stringendomi la mano.
Si stava facendo tardi, e se volevo andare al cinema dovevo correre.
Quando tornai a casa dal cinema, zia Agnuska era lì, assieme alla mia famiglia. Mi guardavano tutti in modo strano e zia Agnuska mi sorrise. Capii che doveva averli informati del mio strano comportamento con il console Giapponese e del fatto che l’avevo invitato alla festa di Khanukkà. Mi sentivo in colpa, e non sapevo che cosa dire ai miei genitori.
Vedendo il mio dispiacere, mio padre alzò la mano e disse: “Aspetta, prima di parlare lascia che ti dica che quello che hai fatto è buono. Se pensi di invitare uno straniero alla festa, credo che questo vada più che bene. Non devi mai sentirti in colpa per aver offerto ospitalità a degli stranieri e poi le luci del candelabro sono universali e accendono tutte le anime del mondo”.
Quella sera la candela da accendere era la sesta, e molti membri della famiglia arrivarono prima, perché avevano sentito delle voci circa un ospite misterioso e illustre che sarebbe arrivato quella sera. Proprio alle sei Agnuska arrivò con il signor Sugihara e sua moglie Yokiko che indossava un abito nero molto elegante, mentre il signor Sugihara indossava un formale abito a strisce. Non dimenticherò mai quella sera di Khanukkà. Mi rimarrà impressa nella mente finché vivrò. Poiché c’erano distinti ospiti, cantammo le canzoni di Khanukkà con un fervore speciale e le candele di Khanukkà avevano una luce particolare. C’era un’atmosfera di familiarità e calore. Il miracolo cominciò a prendere forma.
Solly Ganor aveva undici anni allora, e quello che vide gli rimarrà impresso nella mente e nel cuore per tutta la vita.
A questa festa di Khanukkà il console Sugihara (nel 1985 decorato del titolo “Giusto tra le nazioni”, unico giapponese a ricevere una tale onorificenza vedi sotto i dettagli) incontra, tra gli altri, il profugo ebreo polacco, Abe Rosental, e la sua giovane figlia Lea che lo informarono sugli orrori commessi dai nazisti contro la popolazione ebrea in Polonia. Fu lì che il console giapponese, rappresentante di un paese che era alleato con i nazisti, prese la decisione di aiutare il popolo ebraico facendo migliaia di visti fasulli che hanno permesso a tanti ebrei locali e profughi dalla Polonia di mettersi in salvo la propria vita.
Cinquantacinque anni più tardi, quando Solly incontrò in Giappone, la signora Yokiko Sugihara gli disse che non si erano mai dimenticati della festa di Khanukkà a Kaunas. Poi fece vedere a Solly che nel suo libro “Visti Per la Vita” scrisse: “La decisione di Chiune Sugihara di concedere i visti può essere stata influenzata da un bambino di undici anni di nome Solly Ganor, che invitò il signor Sugihara a festeggiare Khanukkà per la prima volta nel 1939 con la sua famiglia. Questo è stato il primo contatto di Sugihara, con un ebreo a Kaunas”.
Una cortesia di un ragazzino ebreo a uno sconosciuto durante la “festa della luce” di Khanukkà, la festa dei miracoli, contribuì a salvare migliaia di persone. Mai cosi tanto, per un semplice gesto!
Le luci di Khanukkà sono luci del miracolo che dopo 2.200 anni fanno brillare le anime di luce di amore e di rispetto per ogni persona al mondo, poiché è una creatura che ha l’immagine di Dio e ognuno ha una missione in questo mondo.
Quindi Hashèm ripaga migliaia di volte ogni nostra buona azione e quell’invito ha salvato tante anime come è scritto “Poiché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie”, dice il Signore” (Isaia 55, 8).
Sugihara: un Asiatico tra i Giusti delle Nazioni
In un periodo in cui pochi osavano andare controcorrente, il diplomatico giapponese Chiune Sugihara si affidò al proprio cuore e alla propria coscienza e salvò la vita di più di 6000 ebrei.
Nel 1940 gli era stato assegnato il compito di aprire un consolato giapponese in Lituania. Durante l’incubo della Seconda Guerra Mondiale egli cercava di svolgere il suo lavoro con tranquillità e fedeltà. Accade però che un mattino di fine di luglio, il Console Sugihara e la sua famiglia si svegliarono con una folla di profughi ebrei polacchi radunata davanti al consolato. In disperata fuga dai Nazisti alle porte, i profughi sapevano che l’unica via di salvezza si trovava ad est. Se il Console Sugihara avesse concesso loro il visto di transito giapponese, avrebbero potuto ottenere il visto di uscita sovietico e fuggire verso la libertà.
Sugihara era commosso dalla loro supplica, ma non aveva l’autorità di emettere centinaia di visti senza il permesso del Ministero degli Esteri di Tokio.
Chiune Sugihara telegrafò ben tre volte al suo governo per chiedere l’autorizzazione a rilasciare i visti ma ogni volta gli venne negata. Alla fine, da Tokio pervenne questo telegramma: RIGUARDO VISTI TRANSITO RICHIESTI IN PRECEDENZA STOP CONSIGLIO NON EMETTERE ASSOLUTAMENTE AI VIAGGIATORI NON IN POSSESSO VISTO DESTINAZIONE FISSA FUORI DAL GIAPPONE STOP NESSUNA ECCEZIONE STOP NON ATTENDIAMO ULTERIORI RICHIESTE STOP (FIRMATO) K TANAKA MINISTERO ESTERI TOKIO.
Sugihara però era assediato dalle disperate richieste da parte di ebrei che sentivano sul collo il caldo respiro del mostro tedesco. Concederle significava rischiare la carriera, ma un rifiuto comportava la condanna a morte di migliaia di persone.
Dopo aver ricevuto il telegramma dal quartiere generale di Tokio, Sugihara discusse della situazione con la moglie e i figli. Era una decisione difficile quella che dovevano prendere. Quest’uomo era stato educato secondo la rigida e severa disciplina giapponese. Da una parte, era legato al valore della tradizionale cieca obbedienza insegnata; dall’altra, era un samurai, ovvero un guerriero onorevole. Un samurai si batte per ciò che è giusto, aiuta coloro che hanno bisogno e protegge gli innocenti. Egli sapeva che, contravvenendo agli ordini dei suoi superiori, avrebbe potuto essere licenziato e sarebbe caduto in disgrazia. Era consapevole che probabilmente non avrebbe più potuto lavorare per il suo paese e che sarebbe andato sicuramente incontro a estreme difficoltà finanziarie per sé e per la sua famiglia.
Chiune Sugihara scelse però di sfidare il proprio governo. Compilò centinaia di visti ogni giorno, fino a notte inoltrata, tutti nella elaborata calligrafia giapponese. Con il braccio gonfio e le dita dolenti, Sugihara continuò a scrivere, fermandosi a malapena per mangiare e bere. Erano visti per la vita, ed egli era determinato a salvare tante più vite possibili. Quando si venne a sapere che cosa stava succedendo nel consolato, Chiune Sugihara e la moglie Yukiko temettero per la propria vita e per la vita dei loro figli; ciò nonostante non si ritirarono dal loro impegno e continuarono imperterriti a seguire la propria coscienza.
Nell’avvicinarsi del mostro nazista, famiglie ebree terrorizzate cominciarono ad arrampicarsi sul muro del consolato: Sugihara uscì a calmarle e a rassicurarle che avrebbe fatto di tutto per aiutarle. Le centinaia di richiedenti in breve diventarono migliaia. Obbligato a chiudere il consolato e a lasciare la Lituania, il console fino all’ultimo istante compilò e firmo più visti possibili. Continuò a consegnare i documenti perfino dal finestrino del treno mentre il 1 Settembre del 1940 lasciava Kovno, diretto a Berlino. Quando il treno uscì dalla stazione, il Console Sugihara lasciò il timbro del visto consolare a un profugo che poté usarlo per salvare altri ebrei.
Per gli ebrei che non ricevevano il visto da Sugihara il futuro sarebbe stato la morte quasi sicura: la deportazione al ghetto di Kaunas, la fame, l’uccisione e, infine, il trasporto nelle camere a gas di Auschwitz. Dopo che l’Unione Sovietica si ritirò dalla Lituania, alla fine del 1941, le squadre della morte mobili tedesche entrarono nel paese. In tre giorni, uccisero più di 15.000 ebrei, ovvero quasi un terzo della popolazione ebraica di Kaunas. Alla fine della guerra, il 94% degli ebrei lituani era stato ucciso.
Dopo la guerra, Chiune Sugihara fu sommariamente sollevato dalle sue funzioni per aver disatteso gli ordini «negli eventi di Kaunas, Lituania». In seguito, la sua famiglia andò incontro a gravi disagi. Avevano già perso il figlio minore, Haruki, un bambino che fu vittima delle difficoltà della guerra. In quanto al destino di coloro che ottennero il visto, non ebbero notizie per decenni.
Vero Giusto Tra Le Nazioni
Nel 1968 uno degli “ebrei di Sugihara” ritrovò il suo salvatore, e rese felice tutta la famiglia Sugihara riferendo che migliaia di ebrei gli dovevano la vita essendo i discendenti di quei destinatari del visto sopravvissuta alla guerra grazie al loro aiuto.
A Kaunas, in Lituania, Chiune aveva fatto una scelta scomoda; in questo modo, si era macchiato il nome tra i suoi connazionali e aveva distrutto la propria carriera. Nella visione completa della storia del mondo, tuttavia, egli indossa la corona di un grande nome e si allinea accanto ai veri eroi della Seconda Guerra Mondiale.
Chiune Sugihara è diventato l’unico uomo asiatico che ha ricevuto il prestigioso riconoscimento di “Giusto tra le Nazioni” di Yad Vashem, a cui sono seguiti altri riconoscimenti, tra cui il Premio per la Pace di Nagasaki. Egli scomparso nel 1986; gli sono sopravvissuti sua moglie Yukiko, che lo ha sostenuto e incoraggiato totalmente e i suoi figli Hiroki, Chiaki e Nobuki.
Chiune Sugihara ha salvato 6000 persone da morte sicura. La sua eredità di vera umanità e fede nei diritti umani sarà trasmessa di generazione in generazione.
Sono molti i Chassidìm Lubavitch che devono la vita a Sugihara: infatti, quando rischiò la vita compilando visti, salvò un grande numero di Lubavitch dalle camere a gas. Gli studenti di allora sono diventati genitori, nonni e bisnonni di migliaia di Chassideì Chabàd, che hanno vissuto come rabbanìm, insegnanti, mashpiìm e shluchìm, ispirando un gran numero di ebrei in tutto il mondo. Di tutti gli ebrei collegati con i Chabàd in vita oggi, molte migliaia sono state toccate da un ebreo che deve la propria vita a Chiune Sugihara.
L’appello del Rebbe a compiere atti di bontà e di gentilezza per preparare il mondo all’arrivo di Mashìach è stato personificato dalla nobile opera di Chiune Sugihara in quella fatidica estate.
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MIKETZ:
SOGNI: DUE FACCE OPPOSTE DELLA STESSA MONETA
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La Parashà di Mikkètz tratta in sintesi i seguenti argomenti:
Due anni dopo che il capo del coppiere viene liberato dalla prigione, il faraone fa due sogni, di cui nessuno riesce a interpretare il messaggio.
Il coppiere si ricorda di Yossèf che, chiamato dalla prigione, riesce ad interpretare i sogni del faraone. Secondo Yossèf, sette anni di abbondanza saranno seguiti da sette anni di carestia che consumeranno la ricchezza dei primi. Yossèf, dunque, consiglia di nominare nel paese dei responsabili che conservino il raccolto degli anni abbondanti. Yossèf all’età di trent’anni viene nominato viceré dal faraone. Matrimonio tra Yossèf e Ossenàt; nascono due figli: Menashè ed Efràim. Gli anni d’abbondanza portano benessere e Yossèf immagazzina quantità innumerevoli di grano, ma gli anni di carestia sono molto duri; giungono persone da tutto il mondo in Egitto per acquistare il cibo delle riserve.
Ya’akòv manda i figli in Egitto a comprare il grano, tenendo a casa solo Binjamìn. Yossèf li riconosce, ma essi no; parla loro con durezza accusandoli di essere delle spie. Per ottenere il permesso di tornare in patria devono garantire di portare con sé il fratello minore nel successivo viaggio. I fratelli ricordano la vendita di Yossèf e se ne pentono. Yossèf lascia andare tutti tranne Shim’òn, dando loro cibo e rimettendo nei loro sacchi il denaro portato per acquistare il grano.
La carestia costringe i fratelli di Yossèf a tornare in Egitto. Solo dopo una lunga discussione con i figli e con la garanzia di Yehudà, Ya’akòv acconsente a lasciar partire Binjamìn. I fratelli si presentano a Yossèf per restituirgli il denaro ritrovato nei loro sacchi. Yossèf lo rifiuta, dicendo che si tratta di un dono di HaShèm. Yossèf si commuove alla vista di Binjamìn. I fratelli si fermano per un banchetto, dove Binjamìn gode di un trattamento di favore. Il sacco di ogni fratello viene riempito di cibo e sul fondo viene rimesso il denaro portato per comprare provviste. Per ordine dello stesso Yossèf, nel sacco di Binjamìn viene messa la particolare coppa. I fratelli vengono accusati di furto e Yossèf stabilisce che il proprietario del sacco in cui sarà ritrovata la coppa sarà fatto schiavo. La coppa è nella sacca di Binjamìn. Ritornati tutti da Yossèf, si prostrano a lui e si offrono come schiavi al posto del fratello minore. Yossèf, però, ripete che solo chi è stato trovato in possesso della coppa sarà punito.
MIDRASHIM
Tra Potere Terreno e Progetto Divino (Bereshìt 41,39-44)
Midràsh Haggadòl 50 e Bereshìt Rabbà 90
(a pagina 671 del volume Bereshìt edizioni Mamash).
Sette Anni di Abbondanza, Sette Anni di Carestia (Bereshìt 41,47-49)
Bereshìt Rabbà 90; Midràsh Haggadòl 41; Midràsh Haggadà 41
(a pagina 673 del volume Bereshìt edizioni Mamash).
SIKOT
Tra un Sogno e l’Altro
(a pagina 742 del volume Bereshìt edizioni Mamash).
L’Illusione dell’Esilio
(a pagina 746 del volume Bereshìt edizioni Mamash).
Di Madre in Figlio
(a pagina 747 del volume Bereshìt edizioni Mamash).
MIKKETZ 5772: REUVEN E I FRATELLI: PROCESSO DI COLPE?
Solo Reuvèn inizia il vero significato del pentimento che è valido solo se non è causato da un fattore esterno, bensì dal libero arbitrio, e se viene fatto in maniera convinta senza giustificazioni.
MIKKETZ 5771 – SOGNI: DUE FACCE OPPOSTE DELLA STESSA MONETA
Il sogno è condizionato spesso dalla vita quotidiana e non necessariamente ha un valore reale. Il Talmud nel trattato Berachot dice: “Cosa significa un sogno?”. Il Talmud riporta che i sogni non hanno un riflesso reale nella vita, ne sono spesso una distorsione, ma al contempo certi sogni possono essere un messaggio dal Cielo e avere importanti conseguenze. Dalla vicenda di Yossèf, attraverso gli insegnamenti chassidici, viene approfondita l’ambivalenza dei sogni, arrivando a riconoscerne il lato negativo e quello positivo, l’analogia con l’esilio, con il mondo, e il significato del Tikkun.
MIKKETZ 5770 – SOSTANZA CONTRO BELLEZZA
I dettagli dei sogni di Yossèf. Un percorso ricco di insegnamenti talmudici e halachici, che ci portano ad analizzare il criterio delle priorità nella Torà e nella nostra vita: l’importanza dell’essenza profonda, della sostanza. La prevalenza della consistenza sulla superficialità e la bellezza. Anche i greci come gli egizi davano precedenza alla superficialita esteriore piuttosto che all’essenza, esattamente l’opposto rispetto all’ordine di priorita della Torah. Il valore di khanukkà, come vittoria della spiritualità sul materialismo.
MIKKETZ 5766 – IL MIRACOLO DI KHANUKKA
La grandezza di Yossèf sta nella comprensione che dietro i sogni si nasconde un messaggio da D-o, per poter salvare tutto il mondo! Infatti solo l’Egitto aveva il nutrimento sufficiente per salvare il mondo. Il faraone era così importante, a tal punto che i suoi sogni impattavano su tutto il mondo. I consigli di Yossèf sono il completamento stesso dei sogni. Il rapporto tra il miracolo di Khanukkà e il fare le mitzvot. L’unicità del popolo ebraico. Il legame tra Mikketz e khanukkà, il significato dei lumi e il miracolo di D-o. Il rapporto con D-o è come uno specchio, all’impegno divino per noi, dobbiamo rispondere con saper dare sempre il massimo per Lui!