TZAV Parah 5784: 2 LEZIONI VECCHIE
Questo SHABBAT leggeremo le Parashot di TZAV e di Parah (1°a alià Huccat)
30 MARZO 2024 כ ADÀR Shenì 5784
PARASHÀ
I° Sefer: Levitico 6: 1 – 8: 36;
II° Sefer Num. 19, 1-22
HAFTARÀ
Milano/Torino/Sefarditi: Ez. 36: 16-36 Italiani/Ashkenaziti: Ez. 36: 16-38
QUANDO BRUCIARE IL GRASSO:
DI GIORNO O DI NOTTE?
Sul versetto (Vayikrà 6, 2) è scritto: “Questa è la legge dell’olocausto… [Rimarrà sul] fuoco dell’altare per tutta la notte”; Rashi commenta: “Questo viene a insegnare che bruciare i grassi e gli arti dei sacrifici è permesso durante tutta la notte”.
Tuttavia, secondo la legge scritta, si dovrebbe cercare di bruciare tutte le parti del sacrificio durante il giorno; poiché quello è il momento più opportuno. A posteriori, però, se gli altri servizi connessi al sacrificio venissero comunque compiuti durante il giorno, di notte si possono bruciare grassi e arti.
I nostri Saggi hanno posto delle restrizioni sull’esecuzione di molte mitzvòt durante la notte, sebbene la legge permetta queste attività fino all’alba, i nostri Saggi richiedono che venissero svolte prima di metà della notte per “mettere una distanza tra una persona e il peccato”. Un esempio è la preghiera serale di Arvìt: l’halakhà richiede che venga recitata entro la mezzanotte, anche se in teoria andrebbe bene fino all’alba. Tuttavia i Saggi hanno imposto questo limite come una “siepe” per evitare che la persona si addormenti e si dimentichi di recitare la preghiera di Arvìt.
A ogni modo, riguardo al fatto se il decreto e il suo relativo limite si potesse applicare anche quando si bruciavano i grassi e gli arti dei sacrifici, vi è una differenza di opinione tra Ràmbam e Rashi. Il Ràmbam sostiene di si; mentre Rashi sostiene che i Saggi lasciarono invariata la legge, ossia che non posero restrizioni fino a metà della notte riguardo i grassi e gli arti che si bruciano di notte.
L’opinione di Rashi si spiega sulla base della distinzione tra la combustione dei grassi e degli arti e le altre mitzvòt. Secondo molte autorità, infatti, quando la Torà dice esplicitamente che un’attività è consentita, i nostri Saggi non possono proibirla. Quindi, poiché la Torà dice che i grassi e gli arti possono essere bruciati “per tutta la notte” e, inoltre, afferma (Shemòt 23,18) che “Non [bisogna] permettere che il grasso dell’offerta festiva rimanga fino al mattino”, significa, secondo Rashi, che i Saggi non istituirono una restrizione per la notte a questo riguardo.
Seguendo questa logica la sentenza del Ràmbam diventa difficilmente comprensibile e pertanto rimane da spiegare perché Ràmbam sostiene, a differenza di Rashi, che invece i Saggi limitarono la combustione degli arti e dei grassi sacrificali alle ore prima della metà della notte.
Le Due Dimensioni del Consumo di un Sacrificio
Nel versetto di Vayikrà (7, 18) è scritto: “E se la carne dell’offerta di ringraziamento viene mangiata il terzo giorno”. Il Talmud (Zevakhìm 13b) notando che in questa frase il verbo è stranamente ripetuto, האכל יאכל (come se fosse scritto due volte mangiare), commenta così: “Il versetto parla di due tipi di consumo alimentare da parte di uomo (partecipazione alle porzioni del sacrificio date ai sacerdoti e ai proprietari) e consunzione presso il fuoco dell’altare”. Su questa base, il Talmud sviluppa un parallelo tra il consumo della carne sacrificale e il bruciare parti del sacrificio sull’altare.
Per quanto riguarda il consumo dei sacrifici da parte dell’uomo, esiste anche una mitzvà secondo cui le porzioni dell’offerta dovrebbero essere mangiate nel giorno in cui venivano sacrificate. Pertanto, ci sono due dimensioni nel consumo umano di un sacrificio al momento opportuno: a) la mitzvà positiva della partecipazione al sacrificio; b) mangiare il sacrificio il giorno stesso dell’offerta, cosa che preclude la trasgressione del notar, (lett. “rimasto”), ossia il divieto di lasciare la carne sacrificale oltre l’ora in cui è consentito mangiarla fino al mattino successivo.
Queste due dimensioni, tuttavia, non coincidono del tutto. Per quanto riguarda la partecipazione dei sacerdoti ai sacrifici, punto a), essa deve soddisfare diverse condizioni: ad esempio, i sacrifici devono essere mangiati in un modo che si addice alle persone di “statura”, ossia importanti; quindi non si possono mangiare crudi: mangiare carne sacrificale cruda non è considerato un merito, sebbene sia consentito mangiarla, farlo non è considerato una mitzvà. Pertanto se queste condizioni non sono soddisfatte non si è eseguita la mitzvà. Per quanto riguarda il notar, punto b), invece, non fa alcuna differenza il modo in cui si partecipa al sacrificio; finché non rimane la carne fino al mattino non si è violato il divieto.
Dei paralleli a queste due dimensioni, quella del consumo umano e della carne sacrificale, esistono anche per quanto riguarda il consumo dei grassi e degli arti accanto al fuoco dell’altare. Bruciando i grassi e le membra del sacrificio sull’altare si hanno due effetti: 1) è uno dei servizi coinvolti nell’offerta dei sacrifici, quindi una qualità positiva; 2) così si preclude il peccato del notar.
Sulla base di quanto sopra è possibile spiegare perché inizialmente si dovrebbero bruciare i grassi e gli arti durante il giorno e solo dopo è accettabile bruciarli durante la notte. In effetti, è raro trovare casi in cui la Torà scritta fa una distinzione tra “priori” e “posteriori”, “prima” e “dopo” il fatto. La dimensione positiva di bruciare i grassi e gli arti deve (come tutti gli altri servizi connessi ai sacrifici) essere svolta durante la giornata. L’autorizzazione che la Torà concede di bruciare i grassi e gli arti per tutta la notte è semplicemente quella di prevenire il peccato del notar. Pertanto, all’inizio, il grasso e gli arti devono essere bruciati durante il giorno come parte e durante il tempo riservato al servizio dell’offerta dei sacrifici. Se ciò non avvenisse, il grasso e le membra dovranno essere bruciati di notte, affinché sia osservato il divieto del notar, ossia il divieto di far avanzare la carne sacrificale fino al mattino.
Ciò permette di spiegare la sentenza del Ràmbam menzionata in precedenza. Il Ràmbam sostiene che il principio, secondo cui i Saggi non hanno il potere di proibire qualcosa che la Torà permette, si applica solo per quanto riguarda l’osservanza delle mitzvòt. Quando la Torà afferma esplicitamente che una mitzvà dovrebbe essere eseguita, i nostri Saggi non hanno il potere di stabilire che non dovrebbe essere eseguita. Ma, quando non è coinvolta una mitzvà (e bruciare i grassi e gli arti durante la notte non è considerato una mitzvà), i Saggi hanno il potere di imporre una restrizione. Sebbene la Torà affermi che queste attività possono essere svolte durante la notte, i nostri Saggi limitano le loro prestazioni alle ore prima di metà della notte.
Giorno e Notte nel Servizio Divino
È anche possibile spiegare le analogie tra “giorno e notte” su un piano più profondo, che ci permette di comprendere perché offrire i grassi durante il giorno è una mitzvà positiva, mentre offrirli di notte serve semplicemente a precludere il peccato. Il giorno e la notte, infatti, possono essere visti come analogie per lo stato spirituale di una persona.
“Giorno” si riferisce a un momento in cui si sente la luce divina nella propria anima. Ciò vale non solo quando si è coinvolti nell’osservanza della Torà e delle mitzvòt, della volontà di Dio e della Sua saggezza (Tanya cap. 4.), ma anche quando si è coinvolti in attività materiali. Anche nella sfera mondana, occorre servire Dio, seguendo il detto (Mishlè 3, 6): “ConosciLo in tutte le tue vie”. Per citare un esempio, quando gli tzaddikìm prendono del cibo, il loro mangiare ha uno scopo più elevato rispetto agli sforzi ordinari di altri, poiché “uno tzaddìk mangia per la soddisfazione della sua anima” (Mishlè 13, 25).
“Notte”, al contrario, si riferisce a una condizione in cui una persona non sente la divinità. Pertanto il suo bisogno di impegnarsi in cose materiali genera una lotta costante per servire Dio, piuttosto che soddisfare i suoi desideri. Poiché la legge è racchiusa nell’intelletto mortale e le mitzvòt coinvolgono entità materiali e le potenzialità della nostra anima animale, è quindi è necessario sforzarsi di studiare lishmà, ossia solo per il bene della Torà. Allo stesso modo, la nostra osservanza delle mitzvòt deve essere per il bene di Dio e non per il nostro.
Il concetto di bruciare i grassi sull’altare, dedicando la nostra soddisfazione a Dio, si applica sia di giorno che di notte. Ma c’è una differenza. Quando il servizio divino di una persona è quello del “giorno”, tutta la soddisfazione che prova, non solo quella derivata dall’osservanza della Torà e delle sue mitzvòt, ma anche quella che proviene dalle cose mondane, è un’espressione di santità: “conoscere Dio in tutte le Sue vie”.
Al contrario, coloro il cui servizio divino si svolge sul piano della notte e la cui percezione è oscurata dalle loro anime animalesche, non possono trasformare tutto il piacere che provano in un’espressione di divinità. Invece, il loro servizio divino si concentra nel rompere la loro natura, nel non indulgere in piaceri e desideri superflui. Si sforzano di non impegnarsi mai in un’attività materiale per il bene di quell’attività stessa; invece, cercano che il loro intento sia “per il bene del cielo”. Quindi il loro “bruciare i grassi” è di natura preventiva, trattenendosi così dall’indulgere in cose permesse, perché per loro l’indulgenza in cose permesse porta troppo spesso all’indulgenza in cose proibite. Allo stesso modo, per quanto riguarda lo studio della Torà, poiché non riescono a trovare un impegno genuino nello studio lishmà (solo per il bene della Torà), devono lottare per evitare di fare affidamento sul loro ragionamento di esseri limitati e cercare invece il vero intento della Legge. Trovare una motivazione fondato sul ragionamento umano e quindi limitato, infatti, può portare una persona a distorcere l’intento della Torà. Quindi anche qui e analogamente per quanto riguarda l’osservanza delle mitzvòt gli sforzi mirano solo a evitare conseguenze negative.
Un Catalizzatore per la Redenzione
C’è un vantaggio nel servizio divino dell’itcafia (spezzare il male), la “notte”, ossia di quelli che servendo Dio cercano di evitare di cadere nel male; rispetto al servizio divino dei giusti, “giorno”, spiegato sopra, che servono Dio completamente in ogni loro azione anche materiale. Per citare un parallelo: il servizio divino svolto nel raffinare il corpo e l’anima animale è superiore alla devozione dell’anima prima della sua discesa in questo mondo. Sebbene l’anima avesse una percezione di Dio più raffinata ed elevata sul piano spirituale, i suoi risultati in questo mondo materiale sono molto maggiori rispetto a quelli ottenuti prima della discesa in questo mondo. Allo stesso modo, quando si considera il servizio divino delle anime su questo piano materiale, c’è un vantaggio nel servizio svolto dai Benoni (l’uomo “medio”), rispetto a quello svolto dagli tzaddikìm/Gusti (Tanya cap. 27).
A questo si allude anche nel versetto “Non lasciate che il grasso dell’offerta festiva rimanga fino al mattino”. La frase “Non permettere”, cioè evitare influenze negative raffinando entità materiali, simboleggia “il mattino”, l’alba definitiva, l’era in cui “il sole non ti servirà più per la luce del giorno. Invece, Dio sarà la tua luce eterna” (Yesha’yà 60, 19), quando, non vi sarà più bisogno di lottare contro l’istinto al male.
Questo è l’insegnamento secondo l’opinione del Ràmbam che bruciare i grassi e gli arti durante la notte non è considerato una mitzvà, perciò i Saggi hanno il potere di imporre una restrizione fino metà della notte. Sia il livello spirituale di “giorno” che quello di “notte” è fondato sull’adempimento delle mitzvòt, la differenza consiste solamente nel fatto che, come detto sopra, solo i “giusti/giorno” svolgono queste mitzvòt sempre e solo con il piacere/grasso, di servire Dio. Tuttavia, anche il livello spirituale “notte” adempie alle mitzvòt, e il fatto che l’adempimento delle mitzvòt sia solo per evitare di sbagliare, ma non è considerata una mitzvà a se questo ha un vantaggio perché deve combattere il buio e andare contro la sua natura, e allora diventa superiore al tzaddìk.
Tuttavia solo il livello notte e non quello “giorno”, ossia il raffinamento del corpo e dell’anima animale in questo mondo materiale, sforzandosi di compiere le mitzvòt, anche se non sempre con le giuste intenzioni, porterà alla imminente redenzione guidata dal Mashìakh (Tanya cap. 27.) presto nei nostri giorni.
(Adattato da un discorso del Rebbe del 19 di Kislèv 1951 – 5711)
TRASFORMARE QUARANTENA IN LUCE!
Tratto dalla nuova stampa il Midrash Racconta Vayikrà 1
MAMASH edizioni ebraiche ha il piacere di offrire, durante questo periodo, un midràsh relativo alla parashà della settimana estratto dal libro “Il Midràsh Racconta”.
Come insegnano i saggi della Torà è bene trasformare ogni occasione, anche quella più negativa, in qualcosa di buono. Tutti noi ci troviamo in un momento sicuramente difficile in questa “segregazione forzata”. Tuttavia perché non sfruttare al meglio il maggior tempo che abbiamo a disposizione?
Pertanto, ho deciso di pubblicare i Midrashìm di ogni settimana, iniziando da Tzav, anche per venire incontro alle esigenze di tutti coloro che vorrebbero approfittare di questa situazione per approfondire gli studi sulla Torà.
Hashèm ordinò a Moshè: «Raduna tutto il popolo nel cortile del Mishkàn: che assista alle cerimonie di consacrazione che si svolgeranno durante i sette giorni dell’inaugurazione».
Sentendo questo ordine, Moshè si stupì: «Com’è possibile riunire tutta la comunità di Israèl nel cortile del Mishkàn?» .
Il cortile misurava 50×100 amòt (circa 30×60 metri) e solo il Mishkàn occupava una superficie di duecento metri quadrati. Inoltre, una zona supplementare era occupata dall’altare e dal lavabo. La parte rimanente del cortile era troppo piccola per seicentomila uomini.
Ma Hashèm disse a Moshè: «Non tormentarti per la realizzazione di questa impresa. Io posso fare in modo che una piccola area abbia una capienza superiore alle sue potenzialità» .
L’Onnipotente compì questo miracolo in diverse occasioni:
Quando inviò sull’Egitto la piaga delle ulcere, Hashèm ordinò che Moshè e Aharòn prendessero ciascuno due pugni pieni di fuliggine di fornace; poi, Aharòn diede la sua cenere a Moshè. Quindi, Moshè tenne miracolosamente, in una sola mano, quattro pugni di fuliggine, i suoi e quelli di Aharòn, e li lanciò verso il cielo .
Nel luogo chiamato Me Merivà, Moshè e Aharòn radunarono tutto il popolo di fronte a una roccia, dove l’Onnipotente avrebbe dovuto fare scaturire l’acqua. Sopravvenne un miracolo: ogni ebreo ebbe la possibilità di trovarsi davanti alla roccia. Prima che gli ebrei passassero sulla riva opposta dello Yardèn, Yehoshù’a riunì tutto il popolo nello spazio compreso fra le due stanghe che trasportavano l’arca santa . Egli dichiarò: «Attraverso questo miracolo, che vi rende testimoni di come una superficie così ridotta possa ampliarsi, riconoscerete che il Dio vivente risiede in mezzo a noi» .
Come già detto, durante i sette giorni dell’inaugurazione il cortile del Mishkàn poté contenere tutti i seicentomila uomini della comunità di Israèl.
All’epoca del Bet Hamikdàsh, questo miracolo fu ricorrente. Quando il popolo arrivava nel cortile, formava una folla compatta, tuttavia, quando pregava, ciascun ebreo aveva uno spazio di quattro amòt davanti a sé e un’amà nelle altre direzioni .
Nel tempo a venire, anche noi faremo esperienza del grande miracolo per il quale una superficie può avere una capienza superiore alle sue capacità naturali. L’Onnipotente resusciterà tutti gli tzaddikìm vissuti dopo l’epoca di Adàm e li condurrà in Eretz Israèl. La terra, allora, si estenderà miracolosamente per accogliere tutti coloro che vi ritorneranno. Nessun ebreo soffrirà di mancanza di spazio .
L’Onnipotente non opera miracoli se non in casi di assoluta necessità o qualora desideri impartire una lezione particolarmente importante. Perché in ciascuna delle istanze citate operò un miracolo? Cerchiamo di spiegare caso per caso dove risiedeva tale necessità:
La piaga delle ulcere, con la quale aveva inflitto agli egiziani un dolore fisico acuto, era un castigo “misura per misura” a causa del piacere fisico che avevano provato a spese dei figli di Israèl, costretti a scaldare e raffreddare l’acqua per i loro bagni. Così, questa piaga fu accompagnata da molti dettagli miracolosi, come castigo esemplare per la loro impudenza.
A Me Merivà, ogni ebreo si trovò improvvisamente in piedi di fronte alla roccia. L’Onnipotente voleva che ciascuno di essi fosse testimone oculare del fatto che l’acqua aveva cominciato realmente a zampillare dalla nuda roccia.
Paragonato al numeroso esercito dei trentuno re, quello degli ebrei, lanciato alla conquista di Eretz Israèl sotto la guida di Yeoshù’a, era numericamente debole. Il miracolo che permise al popolo intero di trovare posto all’interno delle due stanghe dell’arca, sopravvenne prima della traversata dello Yardèn: era la dimostrazione dell’amore e dell’affetto che Hashèm nutriva per esso. Sapendo che Egli era fra loro, ognuno raccolse il suo coraggio per affrontare un nemico numericamente superiore.
Durante i giorni dell’inaugurazione del Mishkàn, tutti gli uomini riuniti riuscirono a stare nel cortile. Hashèm voleva che ogni ebreo assistesse alla consacrazione dei cohanìm: avrebbero così provato un profondo rispetto nei confronti del sacerdozio. Inoltre, l’Onnipotente desiderava che ciascun ebreo fosse testimone della rivelazione della Shekhinà, della quale il fuoco Celeste disceso sull’altare era un segno.
Nel Bet Hamikdàsh il miracolo di un’area limitata capace di offrire uno spazio superiore alle sue reali capacità era necessario affinché i presenti potessero sdraiarsi col volto a terra durante la tefillà. Ognuno aveva bisogno di disporre davanti a sé di quattro amòt, la statura media di un uomo, ma Hashèm accordò anche lo spazio di un’amà ai lati e dietro, affinché ciascuno potesse pregare senza lasciarsi distrarre dal suo vicino. Soprattutto, questo spazio libero evitava l’imbarazzo nel momento del viddùy. Moshè agì in conformità all’ordine dell’Onnipotente: riunì Aharòn, i suoi figli e tutto il popolo di Israèl nel cortile del Mishkàn. 31 mar 2023
Un caro Shabbat Shalom Rav Shlomo Bekhor
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Hashem indica a Moshè di comandare ad Aaron e a suo figlio quanto attiene ai doveri e ai diritti dei Kohanim che offrono i korbanot nel Santuario.
Il fuoco sull’altare deve essere tenuto acceso in ogni momento.
TRASFORMARE QUARANTENA IN LUCE!
MAMASH edizioni ebraiche ha il piacere di offrire, durante questo periodo, un midràsh relativo alla parashà della settimana estratto dal libro “Il Midràsh Racconta”.
Come insegnano i saggi della Torà è bene trasformare ogni occasione, anche quella più negativa, in qualcosa di buono. Tutti noi ci troviamo in un momento sicuramente difficile in questa “segregazione forzata”. Tuttavia perché non sfruttare al meglio il maggior tempo che abbiamo a disposizione?
Pertanto, ho deciso di pubblicare i Midrashìm di ogni settimana, iniziando da Tzav, anche per venire incontro alle esigenze di tutti coloro che vorrebbero approfittare di questa situazione per approfondire gli studi sulla Torà.
Una parte del Midràsh si può trovare qui sotto, tra l’altro molto attuale al nostro periodo e il resto al seguente link dove è possibile scaricare tutti i Midrashìm della parashà di Tzav in formato PDF.
www.virtualyeshiva.it/files/midrash_tzav.pdf
shalom uvraha
Rav Bekhor