VAYERÄ 5785: 8 LEZIONI PRECEDENTI

9 Novembre 2024 1 Di HaiimRottas

Questo Shabbàt 16 NOVEMBRE 2024, 15 del mese di MarKheshvàn 5785 leggeremo la Parashà di Vayerà Gen. 18,1-22,24

Si legge l’Haftarà:
Italiani/Askenaziti II Re Melakhìm 4, 1-37
Milano/Torino/Sefarditi II Re Melakhìm 4, 1-23

Il primo di Iyàr del 1956, gli studenti della scuola di artigianato di Kfar Chabad, “Bet Sefer Limlakha” stavano pregando. Nel bel mezzo della preghiera alle 20.00, durante la amidà, tre terroristi arabi all’improvviso irrompono nel complesso, spengono la luce e iniziano a sparare indiscriminatamente e subito dopo scappano. Quando la luce è stata riaccesa, un insegnante e quattro studenti sono stati trovati morti davanti alla porta e altri cinque giacevano gravemente feriti.
Ci è voluta un’intera settimana affinché il Rebbe di Lubàvitch inviasse le sue lettere di incoraggiamento e consolazione e molti si sono chiesti perché il Rebbe ha aspettato così tanto tempo!
Nelle lettere inviate, e successivamente anche in una conversazione pubblica che ha tenuto, il Rebbe ha citato il versetto “Vidom Aharon” Aharon tacque. Nella Torà, queste sono le parole pronunciate dal Sommo Sacerdote Aharon quando ha visto che i suoi due figli, sono morti nel bel mezzo della celebrazione, nel giorno dell’inaugurazione del Tabernacolo. Due parole che dicono tutto! Poiché, l’unica risposta adeguata a una tragedia inimmaginabile è il silenzio.
Molti si aspettavano anche che il Rebbe offrisse una spiegazione teologica per la tragedia. Ma il Rebbe si rifiutò ostinatamente di farlo. Tutte le domande del tipo “Perché è successo?” furono accolte da un fragoroso e totale silenzio.
Il silenzio dice più delle parole. L’istinto naturale di un credente è quello di vedere il programma divino anche nella rottura. Ciò può indurre una persona a fornire spiegazioni e trovare ragioni e giustificazioni per ciò che accade. Aharon il Sacerdote ci ricorda: non è nostro compito giustificare e trovare l’una o l’altra spiegazione filosofica per quanto accaduto. È meglio stare zitti, il Rebbe non ha mai cercato delle giustificazioni o delle spiegazioni per i disastri che ha vissuto il popolo ebraico. Né il terrorismo né l’Olocausto erano agli occhi del Rebbe segni di “vendetta o punizione dall’alto” come risposta ai peccati (a differenza di altri maestri). Il Rebbe si schierò per la completa difesa del popolo d’Israele, non era pronto ad accettare tali interpretazioni e vide sempre il popolo d’Israele con un occhio amorevole e non giudicante.

Prima della guerra in Galilea, il Rebbe di Lubàvitch parlò della necessità di assicurarsi che ogni soldato avesse una lettera nel libro della Torà, e il Rebbe disse all’epoca: “Questa questione agisce anche portando grande paura sulle nazioni del mondo, perché sapendo che ogni soldato è unito a 304.805 soldati (come il numero di lettere nel libro – Torà), e il suo combattimento avviene con la forza di tutti – dopo tutto, non solo i nemici scappano dal combattimento spaventati di questo ma, addirittura, scappano e non iniziano neanche a combattere. Fino a oggi sono già stati scritti nove rotoli della Torà e ora il decimo è in fase di scrittura, allego qui un link per registrarsi al libro della Torà e registrare ogni soldato
https://sefertora.org.il/
Assicuriamoci tutti che ogni soldato che conosciamo e ogni membro delle nostre famiglie abbia una lettera nel libro della Torà e che Hashèm protegga ognuno dei nostri soldati e tutto il popolo di Israele e invii la completa guarigione a tutti i feriti e la libertà a tutti i rapiti, che ci sia una vera vittoria in tutti i sensi e che presto e subito si avveri la vera e completa redenzione, Amen.

O SEI CON ISRAELE O SEI CON IL TERRORISMO!

NON SCAPPARE DAL PASSATO

Due preti di una chiesa locale sono in piedi lungo la strada e stanno piantando nel terreno un cartello con la scritta: “La fine è vicina! Voltatevi ora prima che sia troppo tardi!”. All’improvviso un’auto sfreccia davanti a loro con il conducente che urla: “Lasciateci in pace, pazzoidi religiosi…!”.
Dopo che l’auto gira la curva, sentono stridere le gomme e poi… un gran tonfo.
Un prete si rivolge all’altro e chiede: “Credi che nel cartello dovrebbe essere anche scritto che il ponte è crollato…?”.

Tutti Giorni Buoni
La Torà racconta, nella parashà di questa settimana, Vayerà [Bereshìt 18, 11], che “Avrahàm e Sarà erano anziani, avanzati nei giorni …”. Ad una lettura approfondita sarebbe da chiedersi: che cosa significano queste parole? Se il significato fosse semplicemente che Avrahàm e Sarà erano diventati anziani, nella Torà poteva esserci semplicemente scritto che “Avrahàm e Sarà erano anziani (zekenìm)”! Quindi quale sarebbe la necessità delle parole successive “baim bayamìm, avanzati nei giorni?”.
Infatti, mentre molti, incluso Abramo, ottengono il titolo di “anziano” (zakèn) nella Torà, le parole “baim bayamim” (plurale) o “ba bayamim” (singolare), letteralmente “avanzati nei giorni”, appaiono solo in connessione con quattro persone: Abramo, Sarà, Giosuè (Giosuè 13, 1 e 23, 1) e David (I Re 1, 1). Tale applicazione selettiva delle parole dovrebbe attirare la nostra attenzione e insegnarci qualcosa.

Lo Zohar (Khayè Sarà 129a; 224a) offre un’interpretazione interessante, anche se problematica. La traduzione letterale delle parole “baim bayamim”, sarebbe “avanzati CON i loro giorni”: Bayamim può significare sia nei loro giorni, sia con i loro giorni. Secondo lo Zòhar quello che il versetto dice è che “Abramo e Sarà erano anziani CON TUTTI I LORO GIORNI”.
Abramo e Sarà non solo invecchiano con una lunga vita, cosa comune a molte persone, ma portavano con sé tutti i loro giorni: si presentavano con ciascuno dei loro giorni; nessun giorno era dimenticato, ignorato o tenuto nell’armadio; bensì ogni singolo giorno era tenuto in considerazione e vissuto al massimo. Ogni giorno era sano, pieno di significato e completo. Venivano con tutti i loro giorni e nessuno fu lasciato alle spalle.
Eppure, da questo sorge un problema. Per il primo periodo della sua vita, Avrahàm fu immerso nell’idolatria pagana. Seguendo il percorso del padre Tèrakh, si dedicò alle credenze e alle pratiche pagane dell’epoca. Inoltre, da persona schietta e genuina quale era, Avrahàm era sinceramente impegnato nel seguire tali credenze dell’epoca, più di altri che si limitavano semplicemente e ipocritamente a conformarsi alla massa, al “gregge”.
Solo più tardi Avrahàm scoprì la verità del monoteismo, la verità di un universo unificato modellato da un unico Creatore con aspettative morali nei confronti della Sua creazione. Tuttavia, nella Torà non è indicato a quale età Avrahàm intraprese questo percorso e i rabbini nel Talmud e nel Midràsh discutono quanti anni aveva: un Midràsh afferma che Avrahàm aveva 48 anni quando riconobbe l’unico vero Dio; un altro Midràsh e Maimonide (Ràmbam) affermano che questo cambiamento avvenne all’età di 40 anni; secondo il Talmud [Nedarìm 32a], Avrahàm aveva solo tre anni, quando conobbe Hashèm. Tuttavia, come spiegato dalla Chassidùt [Likuté Sikhòt vol. 20 pag. 14] in realtà i Saggi della Torà non stanno discutendo tra loro sulla base di pareri inconciliabili, poiché ogni fonte si sofferma su una diversa fase nello sviluppo intellettuale e spirituale di Avrahàm.
Ad ogni modo non si può certo dire che Avrahàm “venne con tutti i suoi giorni”, ossia che ogni singolo giorno della sua vita fosse moralmente completo e positivo, perché per anni o addirittura decenni fu immerso nell’idolatria di suo padre e della società di allora.
Il fatto che Avrahàm abbia compiuto un notevole cambiamento nella sua vita all’età di 40, 48 o 3 anni è, ovviamente, sbalorditivo. Quest’uomo si è opposto a un mondo intero, solo perché aveva a cuore la Verità. E questa sua incredibile scelta fu la grandezza di Avrahàm: il coraggio di allontanarsi da una giovinezza trascorsa nell’errore e riuscire a ricominciare da capo, quando scopre i suoi errori. Tuttavia, nonostante quanto appena scritto, rimane aperta la domanda iniziale: come può la Torà affermare, secondo l’interpretazione data dallo Zòhar, che tutti i giorni di Avrahàm furono spiritualmente senza macchia?
La stessa domanda, ovviamente, si applica a Sarà, di cui la Torà afferma che “venne con tutti i suoi giorni”. Inoltre, riguardo a Sarà, la Torà scrive [Bereshìt 23, 1]: “E la vita di Sarà fu di cento anni e venti anni e sette anni; [questi furono] gli anni della vita di Sarà”. Le ultime parole, “questi furono gli anni della vita di Sarà”, sono superflue. Secondo il Midràsh e Rashi queste parole servono a insegnare come tutti i suoi anni “erano ugualmente buoni”. Tuttavia, come con Avrahàm, come è possibile fare una simile affermazione su Sarà? L’inizio della sua vita fu consumato dall’idolatria, quindi come possiamo dire che tutti i suoi giorni e tutti i suoi anni furono ugualmente buoni, degni e sani?
La risposta a queste domande furono date durante un discorso pubblico (un “farbrènghen”) del Rebbe di Lubàvitch [Likuté Sikhòt vol. 35 Vayerà pp. 61-69]

Il Paradosso dell’Ovvio
Il Rebbe di Lubàvitch ha evidenziato per la prima volta un paradosso presente nel diritto ebraico. Ogni ebreo è obbligato ad adempiere a tutte le mitzvòt della Torà dall’età di 13 anni per un ragazzo e di 12 anni per una ragazza, poiché esse maturano più velocemente. Tuttavia, la Torà non obbliga un padre o una madre a educare i propri figli per eseguire le mitzvòt, prima dell’età del bar o bat mitzvà, in modo che possano essere ben preparati quando raggiungeranno quel momento in cui le mitzvòt diventano obbligatorie. Solo i Saggi hanno imposto l’obbligo a ogni padre ebreo di educare i propri figli a eseguire tutte le mitzvòt (anche se ci sono alcune eccezioni: ad esempio, i tefillìn e il digiunare l’intera giornata come a Yom Kippur) una volta raggiunta l’età appropriata, ma questo è un obbligo rabbinico. Invece, secondo la Torà vi sono solo pochi obblighi da adempiere prima che un figlio raggiunga l’età dell’obbligo: insegnare la Torà ai figli, ma questo non include praticare con loro l’osservanza delle mitzvòt; raccontare la storia dell’Esodo, ma questo non include insegnare l’obbligo di mangiare matzà.
Ci troviamo quindi di fronte a un paradosso: non c’è modo, secondo la Torà, che un ragazzo o una ragazza possano improvvisamente, il giorno in cui compie 13 anni lui, o 12 lei, osservare perfettamente tutte le mitzvòt a cui sono obbligati. Senza esercitazioni e prove precedenti, sarebbe come chiedere a un giovane di entrare improvvisamente a far parte di una squadra di calcio di serie A senza un giorno di allenamento! Come si può improvvisamente padroneggiare l’arte e la complessità di tutte le mitzvòt senza nessuna preparazione? Questo è esattamente il motivo per cui i rabbini hanno introdotto la mitzvà rabbinica del “chinuch”: l’educazione pratica dei bambini in tutte le mitzvòt, anni prima del loro bar o bat mitzvà. Quindi rimane da rispondere alla domanda sul perché secondo la Torà non si è obbligati a concedere ai figli un po’ di tempo per prepararsi in anticipo.
Forse c’è una risposta semplice: la Torà non ha bisogno di affermare l’ovvio! È un dato di fatto che devi preparare in anticipo tuo figlio se vuoi che si occupi del compito. Se la Torà mi dicesse che a 13 anni un figlio ha bisogno di giocare a calcio professionistico, non c’è bisogno che obblighi ad allenarsi in anticipo. È ovvio! Proprio come la Torà non afferma che occorre comprare uno shofàr prima di Rosh Hashanà, o i tefillìn, o il legno per costruire una sukkà, perché è ovvio. Idem con le prove delle mitzvòt prima del tempo.
Eppure questa risposta non è sufficiente. Se così fosse, significherebbe che educare i figli alla pratica delle mitzvòt è in qualche modo un obbligo della Torà: è così ovvio che la Torà non deve nemmeno dichiararlo. Eppure, il Talmud e tutte le autorità affermano inequivocabilmente, che addestrare i nostri figli alla pratica dei mitzvòt (chinuch) è un obbligo rabbinico, non della Torà.
Tutto questo sembra insensato! Come si può pretendere che da un giorno all’altro dei ragazzi possono eseguire e/o possono conoscere bene ben 613 mitzvòt?

Burbe, Angeli o Caporali
Fu qui che il Rebbe introduce una visione incredibilmente penetrante sulla religione ebraica. Il Rebbe analizzò la questione di come in fondo, dal punto di vista della Torà, la pratica, i tentativi e gli errori sono tutti componenti integranti della mitzvà stessa. Quando la Torà obbliga un ragazzo di 13 anni o una ragazza di 12 anni a iniziare ad osservare le mitzvòt, ciò non significa che quel giorno debbano improvvisamente eseguirle tutte perfettamente. Piuttosto, la Torà li obbliga a iniziare il processo di osservanza delle mitzvòt, ben sapendo che si tratta di un processo che richiede tempo e che inevitabilmente non sarà perfetto.
Ecco un semplice esempio pratico di questo: in Israele, ogni diciottenne viene arruolato nell’esercito per tre anni. Ma prima che possa effettivamente diventare un bravo soldato a pieno titolo, capace di proteggere la terra d’Israèl e i suoi abitanti, sono necessari sei mesi di addestramento di base. In quel periodo il neo arruolato impara come impugnare una pistola, come usarla, come proteggere se stesso e gli altri, come entrare in combattimento, ecc… Coloro che entrano in unità d’élite hanno bisogno di molto più tempo per l’addestramento, ma questi mesi di pratica, pochi o tanti che siano, contano come parte del servizio nell’esercito. Oltretutto, anche dopo l’addestramento iniziale, il soldato potrebbe comunque commettere errori e non fare bene il lavoro a causa dell’inesperienza; in sostanza avere ancora bisogno di tempo per perfezionarsi. Eppure è così che funzionano le cose. Per diventare un soldato, si ha bisogno di formazione. I dirigenti politici e i comandanti dell’esercito sanno bene che non è possibile diventare un soldato dall’oggi al domani, pertanto il tempo per l’addestramento è considerato una parte essenziale del servizio militare.
Questo vale anche per l’ebraismo: all’età di 13 o 12 anni, si viene “arruolati” nell’“esercito” e da quel momento inizia l’addestramento, con i suoi tempi, errori, tentativi, finché tutto non sarà fatto al meglio. Una nota espressione del Talmud rende bene il concetto: “La Torà non è stata data agli angeli!”, ma, appunto agli esseri umani, esseri che hanno bisogno di tempo e sforzi per padroneggiare al meglio un nuovo stile di vita. Pertanto, secondo la Torà il “tempo di allenamento” è parte integrante della stessa mitzvà e quando la Torà dice al tredicenne “comincia a eseguire tutte le mitzvòt”, significa in realtà: inizia il processo, l’addestramento. Il tempo necessario per acquistare gli oggetti per compiere le miztvòt, per padroneggiare le pratiche, per imparare le sfumature e per perfezionare la performance, tutto è incluso nel “pacchetto”. E se il primo giorno non si riesce a fare tutto alla perfezione, ok, va comunque bene.
Sono stati i rabbini, tuttavia, a introdurre la mitzvà di “chinuch”, per iniziare l’addestramento molto prima, in modo che all’età di 13 o 12 anni i giovani siano pronti a “combattere”, fin da subito

Vie Imperfette per la Perfezione
Adesso possiamo capire come mai la Torà descrive tutti i giorni di Avrahàm e Sarà come spiritualmente sani, nonostante adorassero gli idoli nella loro giovinezza. C’è un messaggio profondo qui, che possiamo definire come il fulcro della religione ebraica. Avrahàm e Sarà non sono nati in un ambiente di Torà, al contrario, sono nati e cresciuti nell’antica Ur Kasdìm, una città nel sud dell’Iraq dominata dall’idolatria, dal culto di re considerati come dei semidei e in cui le varie divinità pagane erano percepite come titani gelosi, assetati di sangue. Ora, Hashèm non si aspettava di certo che Avrahàm e Sarà avrebbero sconvolto le loro vite in un solo giorno! Le persone non sono robot o angeli. Gli esseri umani hanno bisogno del tempo e dello spazio mentale per indagare, investigare e ricercare dentro e fuori a loro stessi in modo da poter evolvere lentamente nella loro coscienza: la strada verso la verità è lastricata da tentativi ed errori, ancora e ancora, e poi ancora.
Proprio come con qualsiasi scoperta o teoria scientifica, non arriva con uno schiocco di dita. Lo scienziato trascorre mesi o anni nella ricerca, nelle speculazioni, nel dubbio, nell’incertezza e nella sperimentazione, finché non scopre la verità. Tutto quel tempo di ricerca non è considerato parte del progresso e della scoperta scientifica? È visto come un’inutile perdita di tempo? Ovviamente no! È l’unico modo per raggiungere qualsiasi tipo di verità.
Questo, esattamente, fu il viaggio di Avrahàm e Sarà. E nelle parole di Maimonide [Mishnà Torà Leggi di Avodà Zarà 1, 3], uno dei più importanti codificatori della Torà mai vissuti, possiamo trovare una esatta descrizione di questo viaggio, fisico, psicologico e spirituale:
“(Avrahàm) ha iniziato a esplorare. Sebbene fosse un bambino, cominciò a pensare [incessantemente] durante il giorno e la notte, chiedendosi: come è possibile che il pianeta continui a girare senza che nessuno lo controlli? Chi lo sta facendo ruotare? Sicuramente non ruota da solo! Non aveva insegnante, né c’era nessuno che lo informasse. Purtroppo era impantanato a Ur Kasdim tra gli sciocchi idolatri. Suo padre, sua madre e tutta la gente [attorno a lui] adoravano idoli e lui con loro. [Tuttavia,] il suo cuore stava esplorando e [ottenendo] la comprensione.
“Alla fine, ha apprezzato la via della verità e ha compreso il percorso della rettitudine attraverso la sua accurata comprensione. Si rese conto che c’era un solo Dio che controllava il pianeta, che creò tutto e che non c’è altro Dio tra tutte le altre entità. Sapeva che il mondo intero stava commettendo un errore… Abramo aveva quarant’anni quando divenne consapevole dell’esistenza del Creatore. Quando Lo riconobbe iniziò a formulare risposte agli abitanti di Ur Kasdim e discusse con loro, dicendogli che non stavano seguendo una strada appropriata… Quando la gente si radunava intorno a lui e gli chiedeva quali fossero le sue dichiarazioni, spiegava a ciascuno di loro secondo la loro comprensione, finché non si fossero rivolti al sentiero della verità. Alla fine, migliaia e miriadi si radunarono intorno a lui”.

Questo è il motivo per cui la Torà ci dice che Avrahàm e Sarà “vennero con tutti i loro giorni”. Dal punto di vista di Dio, tutte le loro giornate erano perfettamente sane. Naturalmente, molti di questi anni includevano errori teologici e false credenze pagane, ma questo faceva parte della loro ricerca della verità. La strada verso la perfezione deve passare attraverso l’imperfezione. La strada per la verità scorre attraverso l’errore. La strada per la consapevolezza viaggia attraverso il fallimento. Non erano trincerati nell’idolatria perché erano negligenti e ingordi; ma perché stavano cercando la verità in un mondo complesso e articolato, dove spesso si incontra il male, prima di scoprire la via della giustizia e della verità. Per Avrahàm e Sarà il cammino verso Hashèm doveva condurre attraverso altre strade, perché senza di esse, senza le deviazioni, non avrebbero mai potuto scoprire il monoteismo.
Pertanto, in questa prospettiva, anche i loro “giorni cattivi” erano “giorni buoni”, poiché tutti i loro giorni facevano parte dell’“allenamento”, anche se include errori e fallimenti.

I Nostri Viaggi
Lo stesso vale, almeno in una certa misura, per tutti noi, come ha detto Churchill: “Il successo consiste nel passare da un fallimento all’altro senza perdere l’entusiasmo”. Possiamo vedere i nostri errori, le nostre mancanze, le battute d’arresto e i fallimenti come brutti giorni della mia vita; possiamo vedere i nostri traumi come una sorta di pena detentiva, ossia come esperienze che ci hanno paralizzato la nostra vita e la nostra evoluzione spirituale.
Alcuni di noi hanno percorso molte strade che poi “si sono divise nella foresta”, e a volte abbiamo preso quella meno saggia. Abbiamo viaggiato, fisicamente e mentalmente, in luoghi lontani, geograficamente ed esistenzialmente. Sulla strada, abbiamo incontrato buche e fossi. Siamo inciampati, siamo caduti. A volte ci siamo gravemente feriti e abbiamo commesso degli errori stupidi. Alcuni addirittura, imprigionati nel dolore e nell’incoscienza, possono anche aver ferito delle persone care lungo la strada. A volte guardiamo indietro alle nostre storie e ci sentiamo abbattuti. Sentiamo di aver sprecato così tanti anni. Guardiamo indietro alle nostre vite, esaminiamo le decisioni poco sagge che abbiamo preso per noi stessi, o per i nostri cari, a causa della nostra ignoranza, dolore, confusione e ansia, e ci demoralizziamo. Il dolore e i rimpianti possono rischiare di paralizzarci erroneamente. Vorremmo aver scoperto ciò che sappiamo ora, molto molto prima.
Poi arriva la Torà che ci dice: “Avrahàm e Sarà vennero con TUTTI i loro giorni” o che “tutti gli anni di Sarà furono identici in bontà”, ossia ci suggerisce una prospettiva diversa e più ampia: le esperienze che abbiamo fatto nella vita, ci consiglia la Torà, non sono qualcosa che dovrebbero o possono essere modificate. L’unico modo in cui scopriamo la nostra anima è proprio attraverso i percorsi, giusti o sbagliati, che abbiamo fatto. Ogni insidia, ogni errore, ogni momento di confusione, è parte integrante del nostro viaggio verso la nostra verità, pertanto dobbiamo abbracciarle tutte.
Certo, a volte vorremmo piangere, mentre a volte sentiamo il bisogno di chiedere perdono e fare ammenda al meglio delle nostre capacità. Eppure, nonostante questi umani e inevitabili sbandamenti, il nostro cammino può e deve rimanere focalizzato sull’obbiettivo di ridefinire i traumi come “trampolini di lancio” che ci permettono di diventare delle persone in grado di proiettare una luce sul nostro pianeta. Una luce che nessun altro può possedere, tranne me!
Molti di noi hanno scoperto la verità, la maestà e la profondità di un percorso spirituale monoteista o dentro l’ebraismo in un momento successivo della vita. Non tutti abbiamo avuto il privilegio di crescere con questi valori. Fino a quando non abbiamo trovato la nostra strada spirituale, ci siamo impegnati in tutti i tipi di comportamenti che con l’esperienza ci possono sembrare vuoti e sciocchi. A volte questo ci riempie di vergogna o rimpianti, o addirittura abbiamo paura che qualcuno possa scoprire il nostro passato. Tuttavia, la Torà ci insegna cose molto diverse: i nostri errori fanno tutti parte della ricerca di Dio. Anch’essi costituiscono una parte gloriosa del nostro viaggio verso l’unità e l’integrità.

Perfettamente Imperfetti
Esiste un’interessante e strana usanza ebraica, che solleva molte sopracciglia per i neofiti della sinagoga. Venerdì sera, quando concludiamo il poema “Lekhà Dodi”, l’intera congregazione fa un “giro” e lo recita al contrario verso l’entrata della sinagoga. Perché?
A livello semplice, ci si gira per il versetto in cui si accoglie la Regina del Sabato, versetto che termina con le parole: “Vieni o Sposa… o Regina del Sabato”. Mentre si saluta lo Shabbàt, ci giriamo per salutare la “Regina del Sabato” come si farebbe con qualsiasi ospite speciale. Questo è un ritorno al tempo in cui le persone uscivano effettivamente per salutare la Regina dello Shabbàt esclamando: “Vieni o sposa, vieni o sposa!”. Il santo Arìzal insegnò ai suoi studenti, i mistici della città di Tzefat, che quando salutavano lo Shabbàt nel campo, dovevano affrontare il sole che tramonta con gli occhi chiusi e fare una serenata alla sposa dello Shabbàt (Talmud Shabbàt 119a)
Noi ora stiamo facendo lo stesso. Nella vita, c’è chi ha la fortuna di scoprire lo “Shabbàt”, Dio, la fede e la nostra anima. Per alcuni ciò significa scoprire un nuovo destino, un nuovo apprezzamento per l’ebraismo, una nuova felicità, un nuovo stile di vita. Mentre lo facciamo, alcuni di noi tendono a dire addio al proprio passato: scrollandosi di dosso le esperienze di cui si vergognano e che li “contaminano”. Alcuni giungono persino a rompere i legami con amici e/o familiari.
Ma non è questo il giusto pensiero ebraico. Alla fine di Lekhà Dodi, mentre stiamo per accogliere lo Shabbat ed entrare nelle 25 ore di trascendenza spirituale, ci voltiamo! Non ci stacchiamo dal nostro passato. Ci giriamo, lo riconosciamo, lo abbracciamo, lo portiamo con noi nel nostro viaggio. Perché il nostro passato non deve mai essere gettato via; deve essere visto come il percorso attraverso il quale siamo arrivati alla nostra destinazione attuale.
O come un uomo saggio una volta disse: “La cosa più vicina alla perfezione è l’imperfezione”.
Sì, quando scopriamo la verità dobbiamo avere il coraggio, come Abramo e Sara, di distruggere gli idoli del Vitello d’Oro e ricchezza materiale o la menzogna e gli dei della stupidità e superficialità. Eppure dobbiamo ancora guardare con compassione per tutto il tempo in cui siamo stati “fuori”, cercando di trovare la nostra strada, la nostra anima che è una parte di Dio.
Quando l’IMPERFEZIONE porta alla PERFEZIONE è PERFETTAMENTE IMPERFETTA!!!

Basato sugli insegnamenti del Rebbe di Lubàvitch Likuté Sikhòt vol. 35
Tratto da uno scritto di YY Jacobson
La spiegazione alla fine sul perché ci giriamo è basata sugli scritti di Reb Tzadok HaKohen di Lublino

FEDE PROVE E AMORE

La Grande Prova
E dopo questi fatti Dio mise alla prova Avrahàm e gli disse: «Avrahàm, Avrahàm».
Lui rispose: «Eccomi».
Disse: «Prendi, per favore, tuo figlio, il tuo unico, che hai amato, Yitzkhàk e vai alla terra di Morià e alzalo su uno dei monti che ti indicherò».
Avrahàm si alzò al mattino, sellò l’asino e prese con sé due ragazzi e suo figlio Yitzkhàk; spaccò la legna per il sacrificio, si alzò e andò al posto che gli aveva indicato Dio.
(Bereshìt 22, 1-3)
Si alzò. Lo precedette il Satàn per la via con le sembianze di un vecchio e gli chiese: «Dove vai?». Rispose Avrahàm: «A pregare». Gli domandò: «E chi va a pregare tirandosi dietro il fuoco e un coltello e della legna sulla spalla?».
Gli rispose: «Forse ci tratterremo un giorno o due e allora dovremo scannare, cuocere e mangiare».
Il Satàn: «Vecchio, forse non ero là quando Dio ti disse: “prendi tuo figlio…?”. Non dirmi che un vecchio come te va a uccidere il figlio che gli è stato dato all’età di cent’anni?».
Avrahàm gli disse: «Non importa, nonostante tutto lo faccio».
«E se ti mettesse alla prova più duramente, resisteresti?».
Gli rispose: «Anche molto di più».
Gli disse: «L’indomani ti dirà: “Hai versato il suo sangue”».
Gli rispose: «Non importa, nonostante tutto io lo faccio».
Poiché Avrahàm era risoluto, il Satàn si presentò con le sembianze di un giovane e andò da Yitzkhàk. Gli disse: «Dove vai?».
Gli rispose Yitzkhàk: «A studiare la Torà».
Satàn lo provocò: «In vita o dopo la tua morte?».
Gli rispose: «Può una persona studiare la Torà dopo la sua morte?».
Gli disse: «Oh misero, figlio di una poveretta. Quanti digiuni ha sopportato tua madre per metterti alla luce e ora questo vecchio pazzo va a scannarti».
Gli rispose Yitzkhàk: «Nonostante ciò non trasgredirò alla decisione del mio Creatore e a quella di mio padre».
Yitzkhàk si rivolse allora ad Avrahàm: «Papà, guarda che cosa mi sta dicendo costui».
Gli rispose il padre: «Non badargli…».
Vista la loro resistenza, il Satàn se ne andò e in quel momento apparve dinanzi a loro un grande fiume. Avrahàm scese in acqua fino alle ginocchia.
Disse ai suoi ragazzi: «Venite dietro di me!». Scesero anch’essi; quando giunse alla metà del fiume, l’acqua gli arrivò al collo. In quel momento Avrahàm guardò intensamente il cielo. Si rivolse al Signore e disse: «O Signore del mondo, Tu mi hai scelto, ti sei rivelato a me dicendomi: “Avrahàm tu sei unico, come Io sono unico, per mezzo tuo, il mio nome sarà conosciuto nel mio mondo, sacrifica a me tuo figlio Yitzkhàk”. Io non mi arrestai ed ecco che ora eseguo ciò che mi hai comandato; ma ora le acque mi sono arrivate al collo; se io e mio figlio affoghiamo chi realizzerà le tue parole? Chi porterà il tuo nome?».
Gli rispose Dio: «Giuro che grazie a te, il mio nome sarà unico nel mondo!».
Immediatamente Dio si adirò contro l’acqua: il fiume si seccò ed essi camminarono all’asciutto.
(Midràsh Tankhumà, Vayerà 22)

*
La Tenacia di Avrahàm
Tra le dieci prove che Avrahàm dovette sostenere questa ultima è senza dubbio la più dura. La lettura del capitolo 22 di Bereshìt mette in evidenza quella che è una caratteristica di tutta la Torà: l’estrema concisione nel narrare per esprimere solo ciò che è strettamente necessario. In questo caso, per esempio, non traspare nulla riguardo allo stato d’animo di Avrahàm, non viene raccontato come il Patriarca sciolse le contraddizioni interiori che pure emergono leggendo il testo biblico in cui, da un lato, gli viene promesso che Yitzkhàk sarà il suo unico erede, dall’altro gli viene chiesto di sacrificare proprio questo figlio. E ancora: come è risolta la contraddizione che emerge fra il versetto della Torà in cui si vieta lo spargimento di sangue umano (Bereshìt 6, 5-6) e il sacrifico che viene richiesto ora?
Il Midràsh colma le lacune introducendo la figura di un interlocutore. Ad Avrahàm si fa incontro un vecchio che lo tenta sottoponendogli diversi problemi e tutta una serie di obiezioni. Chi è questo vecchio? Non è altro che lo yètzer harà di Avrahàm stesso.
Per tutti i tre giorni di cammino verso il luogo indicato dal Signore, il Patriarca viene tormentato con dubbi insistenti, ma nonostante gli interrogativi e il dilemma, resterà fermo nella sua decisione di eseguire il comando Divino. Nella Torà, però, di tutto questo travaglio interiore non viene fatto cenno; vi è solo un breve colloquio fra il padre e il figlio.
E quest’ultimo in che posizione si trova? Come riesce a superare anch’egli la prova?
Dal testo della Torà non risulta con chiarezza. Il Midràsh fa incontrare Yitzkhàk con un giovane che gli pone delle domande. È interessante notare come ad Avrahàm sia comparsa la figura di un vecchio, mentre a Yitzkhàk quella di un giovane, come a dire che chi pone le domande non è altro che la proiezione dell’istinto. I quesiti, i dubbi, le problematiche sono perciò diversi perché diversa è l’età del personaggio. Si vede anche come il giovane Yitzkhàk abbia bisogno dell’aiuto paterno per scacciare definitivamente i pensieri che lo turbano. Anche se tutto ciò non compare nel testo della Torà, quali siano i dubbi che tormentano l’animo di Yitzkhàk, lo si evince da come sono esposte le domande e dalla breve conversazione fra padre e figlio: Disse Yitzkhàk ad Avrahàm suo padre: «Padre mio!». E quello: «Eccomi, figlio mio». «Ecco il fuoco e la legna, dov’è l’agnello per il sacrificio?». Disse (Avrahàm): «Dio provvederà l’agnello per il sacrificio» (Bereshìt 22, 7-8).
La risposta di Avrahàm corrisponde, nel testo del Midràsh, alle parole: «Non gli badare».
Il padre invita il figlio, che ha coscienza del proprio dramma, a sottomettersi e ad avere fede in Dio che li ha posti su quella strada. Che Yitzkhàk accetti le parole del padre lo si deduce dall’espressione: e andarono tutti e due insieme (Bereshìt 22, 8), altrimenti superflua poiché già presente nel versetto 6. La ripetizione della stessa espressione, dopo il colloquio tra padre e figlio, dimostra che, secondo il Midràsh, sia Avrahàm sia Yitzkhàk sono concordi nell’eseguire il comando Divino.
Superato il primo ostacolo rappresentato dall’istinto (il satàn), al conseguimento dell’obiettivo prefisso si interpongono altre difficoltà, qui simboleggiate dal fiume.
Difficoltà che oggigiorno possono essere, ad esempio, il vivere in una società eterogenea.
Il Midràsh, tuttavia, insegna che, se una persona desidera fortemente di compiere un’azione, non tentennerà di fronte a nessun ostacolo, proprio come Avrahàm.

Yerushalàyim: Due Nomi per una Città
Avrahàm dette nome a quel luogo: Hashèm Yirè, il Signore provvede, perciò oggi si dice :«Nel monte del Signore c’è chi provvede». (Bereshìt 22, 14)
Avrahàm non solo fu mosso da una fede tenace in Hashèm, ma aveva previsto che il Monte su cui aveva legato Yitzkhàk sarebbe diventato il luogo dove sarebbe stato costruito il futuro Bet Hamikdàsh e il cuore della Città Santa. Chiamò quindi il sito Hashèm Yirè; si sottintende che, da questo posto, Dio avrebbe guardato giù e avrebbe inondato il mondo di bontà. Shem, figlio di Nòakh, diede anche lui un nome, ma diverso: Shalèm, che significa “perfetto”.
Disse Dio: «Se chiamo il monte Yirè, Shem lo tzaddìk si offenderà. Se lo chiamo Shalèm, Avrahàm avrà diritto di lamentarsi. Di conseguenza, combinerò i due nomi: il posto e la città che vi verrà costruita saranno chiamati YeruShalayìm».
Il nome che entrambi gli tzaddikìm avevano dato al luogo corrisponde ai rispettivi caratteri. Avrahàm, che era benevolo e che incoraggiava Dio a mostrare la Sua bontà a tutte le creature, anche ai malvagi, chiamò il posto “Yirè”: possa il Signore guardare verso il basso e benedire il mondo con la Sua bontà. Shem, come suo padre Nòakh, era severo nei confronti dei cattivi, sgridava chi deviava dalla strada giusta e non pregava per coloro che si rifiutavano di seguire le mitzvòt. Shem chiamò quindi il posto “Shalèm”, Città della Perfezione, dove avrebbero potuto risiedere solo coloro che avevano raggiunto la realizzazione spirituale. Dio nella Sua Giustizia riunì i nomi in un’unica parola Yeru-Shalayìm, a significare che la bontà e la santità del luogo avrebbero spronato le persone a migliorare e il malvagio a ritornare sulla strada divina.

(Midràsh Haggadòl 22,15 e Bereshìt Rabbà 56,17 tratto dal Midràsh Racconta Genesi edizione Mamash) 

 

Questo grandioso insegnamento di 200 anni fa è il concetto base della Psicologia Cognitiva che si è sviluppata un secolo dopo all’insegnamento del Alter Rebbe.
Questa settimana, gli ebrei di tutto il mondo leggono nella Haftarà un racconto biblico (Re II capitolo 4) su una vedova povera, un Re malvagio, un profeta molto generoso e un vaso di olio. Questa è la STORIA!
Prologo: 2720 anni fa, nell’anno ebraico 3058 dalla creazione (720 A.E.V.), circa 300 anni prima della distruzione del primo tempio.
Il profeta Ovadyà aveva speso tutti i suoi soldi per l’olio per le lampade che illuminavano le due grotte che nascondevano gli ultimi 100 veri profeti perseguitati dal re malvagio Akhàv e dalla sua malvagia moglie Izèvel. Dopo la morte del profeta Ovadyà, sua moglie era rimasta in uno stato di estrema povertà e disperazione e si rivolge al profeta Elishà.

Il Vaso Di Olio
“Una donna, la moglie di uno dei profeti, gridò a Elishà: “Mio marito, tuo servo, è morto, e si sa che il tuo servo era un fedele di Dio, ma ora un creditore è venuto a prendere i miei due figli come schiavi”.
Elishà le disse: “Cosa posso fare per te? Dimmi, cosa hai in casa tua? La tua serva non ha nulla in casa, ma un piccolo vasetto di olio”. Il profeta gli dice: “Prendi dei vasi e pentole da fuori, da tutti i tuoi vicini: vasi vuoti, solo che non siano pochi”.

COME AVERE IL VASO SEMPRE PIENO

La donna obbedì e inizio a riempire gli otri utilizzando il suo unico vaso di olio rimasto. Quando tutti i recipienti erano pieni, disse a suo figlio: “Portatemi un altro vaso”. Lui le rispose: “Non ci sono più vasi”. E l’olio si fermò. Lei ritorna dall’uomo di Dio (Elishà), che gli dice, “vai a vendere l’olio e paga i creditori. Tu e i tuoi figli vivrete di quello che rimarrà”.

Qual è la rilevanza?
In superficie, questa è la storia di un profeta con molta compassione disposto a dare una mano per aiutare una povera vedova che ha perso il marito ed è sul punto di perdere i suoi figli. Il Profeta esegue un miracolo di un infinito flusso di olio che salva la donna e i suoi figli.
Eppure, un principio fondamentale della tradizione ebraica e della Torà è il fatto che nei racconti storici, che essa ci tramanda, o nelle antiche figure o personaggi in essa contenuti, si nascondono sempre dei messaggi che sono e devono essere riscoperti e utilizzati anche nella nostra vita quotidiana.
La Torà permette di costituire un progetto di vita, una road map spirituale per il complicato, doloroso e stressante viaggio di ogni essere umano sul nostro piccolo pianeta molto frenetico e pieno di sfide in ogni istante, perché nella vita si combatte l’istinto animalesco dal primo momento fino all’ultimo. Solo i grandi giusti non combattono più, ma questi sono pochissimi e in ogni generazione si possono contare con una mano.
Come possiamo personalmente relazionarci con questa storia nel terzo millennio? Molti di noi non frequentano profeti che operano dei miracoli. Anche se sarebbe bello avere un Elishà che può darci un flusso di petrolio tale da liberarci dalla dipendenza dal Medio Oriente, certamente non è una cosa attuale. Quindi come può questo racconto di una vedova, di un profeta e di tanto olio, essere fonte d’ispirazione e guida nella nostra vita contemporanea?

Pianto Di Un Giovane
Duecento anni fa, nel primo decennio del 18° secolo, un giovane entrò nella camera di uno dei più grandi Maestri e personalità del tempo, il Rabbi Shneur Zalman di Liadi (1745-1812), noto come l’Alter Rebbe. “La domanda del giovane era semplice: “Mi sento intorpidito, congelato e apatico, i miei sentimenti sono morti, cosa devo fare?” Rabbi Shneur Zalman, una persona di profondo amore, dalla saggezza straordinaria e intensa spiritualità, raccontò al suo giovane allievo, in difficoltà, la storia della vedova e del profeta. Il Rebbe dimostrò come questa antica storia biblica conteneva una risposta alla solitudine del giovane.
Vediamo di capire questa intuizione del rabbino Shneur Zalman.

Anima Morta
L’anima di un essere umano è paragonata a una donna, alla moglie di Dio.
Perché proprio l’anima? Poiché l’anima rappresenta quella parte della nostra identità che è in relazione perpetua con il Creatore: “il marito”. Un marito e sua moglie, anche quando hanno problemi tra di loro, sono sempre in relazione: possono amarsi o odiarsi, ma non possono essere indifferenti l’uno all’altro. L’anima è quella parte del nostro essere che non può ignorare Dio, suo “marito” in cielo.
Ma può succedere che arriva il giorno in cui la donna grida per la morte del marito, la scomparsa della sua scintilla divina che è peggio dell’odiare il coniuge. Perciò si rivolge a Dio (nelle vesti del profeta che è il rappresentante Hashèm) e gli dice:
“Mio marito, il tuo servo è morto, ovvero l’energia divina radicata in me è estinta, e tu sai che lui era timorato di Hashèm”. Il termine ebraico per “mio marito” (ishi) può anche essere tradotto come “il mio fuoco”. Questo è il grido di molti esseri umani: la mia anima aveva una fiamma, ma oggi è completamente spenta.
Sono diventato apatico per ogni realtà spirituale. Sono intorpidito e senza vita. Dio è diventato senza significato per me.
Se la noia è il desiderio dei desideri (come descritto da Tolstoj in Anna Karenina), una anima può essere descritta ANNOIATA quando perde il senso del mistero o della ricerca di abbracciare qualcosa di mistico.
“Mi piacerebbe piuttosto morire di stanchezza che di noia”, osservò un uomo saggio. Infatti, la morte che deriva dalla noia e dall’apatia può essere estremamente dolorosa.

Un Cuore Ambivalente
Peggio ancora, grida l’anima: “il creditore è venuto a prendere i miei due come schiavi”. Amore e timore, vicinanza e distanza, affetto e disciplina, queste due forze polari sono state soprannominate nella Cabbala come due “figli” dei loro progenitori intellettuali. Le emozioni sono nate e modellate dal DAAT (consapevolezza) e dall’intelletto: la mente è il genitore e il cuore è il figlio. Le due emozioni primarie “infantili” sono attrazione e rifiuto, in quanto ogni emozione esistente è una forma di attrazione o una forma di rifiuto.
Ognuno sperimenta attrazione e rifiuto nella sua vita. Tutti amano e tutti disprezzano. Abbandoniamo e ci ritroviamo; amiamo e temiamo. La domanda è verso dove e verso che cosa? Amiamo le persone o amiamo i pettegolezzi? Amiamo la verità o amiamo la dipendenza? Amiamo la profondità o amiamo la superficialità? Amiamo la giustizia e l’altruismo o amiamo la gratificazione immediata e i desideri futili? Sei attratto dalla tua anima o sei attratto da esternalità o addirittura dalla promiscuità? Tutti abbiamo paura, ma di che cosa? Paura di perdere la nostra dignità umana o di mostrare il nostro vero io? Paura delle persone o di Dio? Questo è il grido dell’intimo umano: l’anima mia è morta, le mie emozioni sono state manipolate e schiavizzate. Non ho più il mio amore o la mia paura. Sono stato derubato da loro; sono di proprietà di forze al di fuori di me.
“IL CREDITORE È VENUTO A PRENDERE I MIEI DUE FIGLI COME SCHIAVI”!

Dov’è Sparito Il Romanticismo?
Una frustrazione simile può essere sentita da una coppia che lotta in una relazione non facile.
Forse nel corso degli anni si sono condivisi momenti magici con la dolce metà, momenti in cui il cielo ha dato la sua grazia all’unione; il romanticismo è sceso nelle labbra dei due coniugi, come il latte e il miele: un amore esemplare.
Ma ora, il rapporto è soffocante. L’amore è andato e la magia è morta. Il cuore è privo di qualsiasi sentimento e il coniuge è diventato un peso. In un momento così terribile quando vorremmo gridare a qualcuno o a qualcosa dove è finito l’amore e il romanticismo nel nostro matrimonio! A chi ci rivolgiamo? A Dio, a un amico o a un consulente di matrimoniale? Che cosa è successo a quella parte di noi che vorrebbe sentire un amore esplosivo?

Un Cuore Artificiale
Un grido simile può essere spesso sentito da un adulto emotivamente paralizzato. Forse perché cresciuto in un ambiente disfunzionale. Il padre o la madre (o entrambi) non hanno mai pronunciato le parole che ogni bambino desidera ascoltare e sentire: “ti amo”. Durante la fase della crescita non ha sentito esprimere le emozioni in modo appropriato.
Ora, quando arriva il proprio turno per costruire il proprio rapporto con i figli si ritrova bloccato, incapace di sperimentare e di esprimere emozioni reali.
Sembra di possedere un cuore artificiale.

La Storia Umana
Elishà ha detto alla donna: “Cosa posso fare per te? Che cosa hai in casa tua?” Lei rispose: “La tua serva non ha niente in casa, ma una boccetta di olio”. La prima e più commovente risposta a un’anima impoverita è: “Cosa posso fare per te?” In effetti, la risposta sembra significare che non posso davvero aiutarti! Perché? Perché il dramma della vita umana è proprio nel fatto che è l’unica storia che non è stata scritta da Dio. Infatti, il Padre Eterno può ispirare e creare tutte le circostanze, perfino la profezia, ma non “sigilla” la nostra decisione, non nega l’esercizio del nostro “libero arbitrio”.
La vera domanda dice il profeta che simboleggia Hashèm:
le redini sono SOLO nelle tue mani e la domanda non è “cosa posso fare per te?” ma piuttosto “cosa hai in casa tua?”. Devi cercare dentro di te la risposta alla tua crisi. La risposta al dolore umano deve assolutamente provenire dall’essere umano. “Non ho niente” risponde la donna. Non c’è più niente nella mia anima, sono spiritualmente ed emotivamente morta.
Davvero? Se fossi veramente morta, perché sei addolorata? Chi è privo di emozioni diventa insensibile e non gli importa più niente delle vicende della vita.
Ma se fosse così, perché ti interessa un fatto che a te non importa? La donna, quindi, comprende e modifica la sua dichiarazione precedente: “Sì, ho qualcosa in casa che non è stato portato via”. Una boccetta d’olio.

Qual’è l’unicità dell’olio? Quando si mescola olio puro con un qualsiasi altro liquido, l’olio rimane in disparte, non perde mai la sua identità. L’olio, quindi, rappresenta il nucleo dell’identità umana, la dimensione di sé che rimane incontaminata da tutte le esperienze della vita.
Proviamo a chiudere gli occhi, fare un respiro profondo, meditare per qualche istante e poi descrivere il nostro cuore? Quando vengono eliminati tutti gli strati, inclusi i livelli subcoscienti, cosa emergerà?
La Mistica ci dà quattro leggi cardinali per caratterizzare il nucleo, l’essenza dell’uomo, definita “etzem” in ebraico: INDEFINIBILE, IMMUTABILE, INDIVISIBILE E NON ESPERIENZIABILE.
La dimensione più innata di una vita umana non è definita da niente o da nessuno al di fuori di se stesso. Non è un composto di forze distinte che si combinano per costituire il prodotto finale chiamato uomo. Piuttosto, è una realtà autonoma che è definita esclusivamente da se stessa. Descrivere la propria essenza con parole o sentimenti significa, paradossalmente, falsificarla e negarla. L’unica cosa che può catturare l’essenza è l’ESSENZA STESSA. Nel momento in cui si tenta di “catturarla” e trasportarla in un altro dominio, la perdiamo.
Questa parte intoccabile di noi l’essenza dell’individuo, nel racconto, è simboleggiata dalla “boccetta dell’olio”. Questo ci rende quello CHE SIAMO. Una parte di noi che non può essere capita, imitata o manipolata da nessuno, neanche da noi stessi.

Perché Siamo In Terapia?
Può essere che la causa primaria per la profonda insicurezza e la mancanza di fiducia che affliggono innumerevoli uomini e donne di oggi è la mancanza di identificazione con questa sorta di “boccetta d’olio interiore”.
Molti credono che siamo solo un agglomerato di vari geni o DNA. A volte può venire il dubbio se il mio “io” possiede un nucleo che è esclusivamente il mio? L’Ebraismo insegna che al centro di tutte le forze che governano la nostra vita è deposta una piccola e intoccabile “boccetta d’olio” che ci conferisce una fonte inesauribile di energia spirituale.
Le emozioni possono essere svendute e l’anima può essere “spenta”, ma la “boccetta d’olio” è sempre presente. Quella parte della tua vita che si trova faccia a faccia con l’essenza di Dio (l’essenza davanti all’essenza) non muore mai. Può essere sepolta per decenni, ma non è mai morta. Come un vulcano dormiente che può esplodere in ogni momento ed eruttare fuoco e lava ardente.

Recipienti Vuoti
Ora, il profeta Elishà si rivolge alla vedova e dice: “Cerca in prestito dei contenitori dall’esterno, da tutti i tuoi vicini, vasi vuoti. Solo che essi non siano pochi. Poi entra e chiudi la porta dietro di te e dietro i tuoi figli. Versate l’olio in tutti questi vasi e rimuovete i vasi pieni”. Questa descrizione è una metafora per chi compie le azioni simili a robot che sono vuote di passione ed entusiasmo. Azioni che non potremmo mai chiamare nostre, in quanto il cuore e l’anima non sono presenti in queste azioni.
“Vai a prendere in prestito vasi da tutti i tuoi vicini, vasi vuoti, solo che non siano pochi”, dice il profeta di Dio. Agire di più e agire ancora di più. Continuare a compiere azioni, morali e sacre, molte azioni buone agli “occhi di Dio”, anche se “sono prese in prestito” e sono per noi azioni “vuote”. Nel caso di un matrimonio “vuoto” fai comunque in modo di agire con amore, anche se sentite il vostro coniuge come un peso. Riempi la tua vita con migliaia di “vasi vuoti”, con numerosi atti di “amore presi in prestito”, anche se il tuo cuore non è presente.
Mariti: uscite a comprare le rose, lavare i piatti, mettere i bambini a dormire, fare la spesa. Ogni giorno facciamo atti di amore e di gentilezza verso la moglie. Se sei un genitore con il cuore “chiuso” persisti nel il tentativo di educare i tuoi figli con sentimento: abbracciamo i bambini dicendogli quanto li amiamo. Anche se Il cuore può essere bloccato e le tue emozioni soffocate, non importa agisci comunque! Prendiamo molti vasi vuoti da riempire.

Qual È Il Punto?
Cosa succede dopo? “Entra e chiudi la porta dietro di te e dietro i tuoi figli”, dice Elishà. “Versate olio in tutti questi oggetti e rimuovete ogni vaso pieno. L’hanno portato e lei ha versato”. Quando tutti i vasi furono pieni, disse a suo figlio, “prendi un altro vaso”. Le disse il figlio: “Non ci sono più vasi e l’olio si è fermato”. Ogni tanto nella vita (può essere una volta al mese, una volta ogni tre mesi, o una volta all’anno), il nostro “vaso d’olio” (essenza) emerge, prima o poi, anche se solo per pochi istanti fugaci. Se non si ha dei “vasi da riempire”, esso “ritorna” al suo nascondiglio nel cuore dell’anima dell’identità umana. Fino alla prossima uscita.

Ma quando l’essenza della vostra anima emerge e trova “in attesa” per essa centinaia o migliaia di vasi vuoti, inizierà a scorrere e fluire fino a quando ogni contenitore viene riempito con la dignità, la profondità e il significato dell’essenza divina dell’essere umano.

Pregare Quando Non Siamo dell’Umore Giusto
Questa, dunque, è stata la risposta del rabbino Shneur Zalman al giovane: di cercare di vivere una vita ebraica basata sui principi e le linee guida della Torà e delle mitzvòt, anche se ci si sente indifferenti e privi di ispirazione. Chi di noi non può comprendere lo stato d’animo del giovane? Quanti di noi potrebbero affermare che ogni mattina si svegliano sempre in vena di avvolgere tefillìn (filatteri); di meditare con tutta l’anima e pregare Dio per un’ora? Quante mitzvòt nella nostra vita quotidiana diventano un esercizio di noia?
A un certo punto molte persone possono domandarsi: “Se mi sentissi sempre e costantemente la presenza di Dio vivere una vita di Torà e mitzvòt sarebbe un’esperienza impressionante, ma il più delle volte non sento Dio. Le mie mitzvòt sono spesso atti vuoti! “Eppure, un giorno non troppo lontano, il mio “orcio d’olio” vorrà emergere. Coloro che con il sudore e la fatica hanno costruito “vasi vuoti” nella loro vita, potranno, quando sarà il loro momento, riempirsi pienamente con la profondità infinita e la dignità del loro nucleo Divino.

Per molti di noi è impossibile vivere una vita di perenne vitalità interiore e ispirazione; ma siamo in grado di riempire la nostra vita con vasi vuoti, con un programma organizzato, con atti ed esperienze significative.
Quando arriverà il momento e l’anima sarà a capolino dal suo nucleo interiore, la sua forza vitale e ispirazione riempiranno tutti i vasi vuoti della nostra vita.

Un caro Shabbàt Shalom

Rav Shlomo Bekhor

NUOVA LEZIONE SUPER ATOMICA DAL NUOVO VOLUME DELLA TORA

TUTTO INIZIÒ CON LA LETTERA HEY

“All’inizio, Dio ha creato i cieli e la terra” (Genesi 1, 1). Con queste parole comincia la storia dell’umanità che non è stata, come alcuni affermano erroneamente, una sorta di “incidente cosmico”, ma piuttosto è il frutto di un piano con scopi ben precisi.
Se Adamo avesse superato la difficile prova di non mangiare dell’Albero della Conoscenza, lo scopo ultimo della Creazione sarebbe stato raggiunto fin da subito: il trionfo del Bene sul Male e lo splendore dell’era messianica non avrebbe cessato di rivelarsi. Il mondo sarebbe stato inondato dalla perfezione spirituale e avrebbe assaporato la ricompensa divina eterna e illimitata, ma questo non era il piano divino perché dopo il mondo deve arrivare alla rettificazione – tikkùn con le sue forze e non con un miracolo o un aiuto dall’Alto.
Quindi dopo il peccato di Adamo, invece, la lotta per la rettificazione dell’umanità è diventata lunga e protratta, irta di molti ostacoli e difficoltà apparentemente insormontabili.
Con le dieci generazioni che separano Adamo da Noè continua la spirale discendente dell’umanità, con eventi che precipitano inesorabilmente verso la totale degradazione spirituale fino al Diluvio, nell’anno 1656 dalla creazione. Dopo questo drammatico evento Noè e i suoi tre figli divennero i capostipiti delle 70 nazioni originarie e l’umanità continuò il suo corso. Fino a giungere all’ascesa della Generazione della Torre di Babele, quando il re Nimrod, organizzò il popolo nella costruzione di una torre che avrebbe raggiunto i cieli. Il suo scopo era dimostrare l’auto-esaltazione e l’indipendenza dell’uomo da Dio. Poiché la società di allora continuava a spingere i suoi talenti e le sue risorse nella ricerca del male, Dio intervenne, “sabotò” il progetto suddividendo l’umanità in diversi gruppi linguistici, disperdendola.
A questo punto della storia umana, quando tutto sembrava nuovamente in discussione, nasce e inizia a operare il primo dei grandi patriarchi, Abramo. A cavallo tra il 2° e il 3° millennio dalla creazione del mondo, Abramo inizia il processo del “ritorno” dell’umanità attraverso la sua rettificazione. Non a caso è riconosciuto da tutte le grandi religioni come un “capostipite” o un grande profeta e un giusto della storia, perché oltre a essere il primo ebreo lui ha iniziato l’opera di diffondere il monoteismo del mondo. In estrema sintesi, Abramo inizia quel processo di rettificazione indispensabile affinché il mondo fosse poi in grado, secoli dopo, nel terzo millennio, di ricevere il Dono della Torà sul monte Sinày.
Senza l’opera di Abramo la “Luce Infinita” di Hashèm non avrebbe potuto manifestarsi, poiché non avrebbe trovato un “recipiente”, il mondo, in grado di sopportare una tale rivelazione.
Nella parashà di questa settimana noi leggiamo di come Abramo è più volte messo alla prova, ma riesce comunque a eseguire la volontà di Dio. Tuttavia, nel presente e soprattutto nel futuro l’opera da lui iniziata e lo scopo stesso della creazione, troverà grandi ostacoli di tutti i tipi. Adesso, qui, con questo scritto, vogliamo mostrare quello che è il più grande ostacolo alla completa rettificazione dell’umanità al giungere dell’era messianica: in ogni generazione, il pericolo maggiore è quello della disputa e della conseguente discordia. Inoltre, vogliamo approfondire perché questo concetto è simboleggiato dal nome Kòrakh, che legame c’è con il dono della Torà e perché è così fondamentale il fatto che “la creazione è basata sulla lettera hey – ה, perciò – prima di addentrarci dettagliatamente nella spiegazione delle tre filosofie errate di Kòrakh – occorre approfondire il fondamentale significato della lettera hey – ה.

La Lettera Hey ה Significati e Caratteristiche

La hey è la lettera originaria della creazione del mondo e in essa è racchiuso il segreto di come trovare l’equilibrio in questa esistenza, come è scritto all’inizio della Genesi (2, 4): Questo è ciò che derivò dal cielo e dalla terra quando furono creati… La parola בהבראם – behibareàm “furono creati”, si può anche leggere behèy baràm – בראם בה’, ovvero Il cielo e la terra sono stati creati con la lettera hey (Talmùd Menakhòt 29b). Quindi, se il progetto originale della creazione e dell’esistenza del mondo è fondato sulla hey, significa che nella struttura di questa lettera troviamo il percorso per giungere al nostro equilibrio interiore attraverso cui è possibile cogliere il vero scopo, l’essenza, della nostra esistenza.
La forma della hey è composta da tre linee: una orizzontale superiore che funge da “tetto” e due verticali come due “gambe”: una a destra, attaccata al “tetto” e la seconda, a sinistra, staccata con un breve spazio. Rabbi Shneur Zalman spiega, nel Torà Or, che queste tre linee rappresentano rispettivamente le tre dimensioni della natura umana: il pensiero, la parola e l’azione e il rapporto che deve intercorre tra esse e la parte “astratta” e spirituale con la parte materiale della creazione.
Il “TETTO” di questa lettera rappresenta il PENSIERO. Esso si esprime liberamente e non dovendo affrontare ostacoli terreni può spaziare senza limiti. Nel “tetto” della hey troviamo le idee, i sogni e le visioni e immaginazioni del mondo, ossia come crediamo che esso dovrebbe essere.
La PAROLA, la “GAMBA DESTRA” della hey, è attaccata al “tetto” in quanto essa è espressione diretta del pensiero. La parola non trova normalmente ostacoli di natura materiale nella sua articolazione. Con essa portiamo naturalmente il pensiero in una “fase ulteriore” trasmettendolo, comunicandolo nel mondo, all’esterno di noi stessi.
L’AZIONE, la “GAMBA SINISTRA” della hey, è quella staccata e isolata dal resto: mentre è facile pensare e parlare di molti progetti, poiché ci si trova nel mondo dell’astratto, realizzare in concreto i propositi e le idee pensate o espresse è tutta un’altra cosa e assai più difficile. Pertanto, come la “gamba sinistra”, anche l’azione è disgiunta dalle altre facoltà umane, poiché nel rapporto con la materia intercorre sempre un intervallo tra i primi due elementi astratti e l’azione che li concretizza. Possiamo pensare ed esprimere le idee come le vediamo senza apparentemente notare eventuali problemi. Mentre se vogliamo tradurre i nostri pensieri in azioni vi è un’interruzione, un “gap”, che non permette di realizzare le nostre intenzioni in maniera automatica. Ad esempio quando si vuole creare una nuova opera, prima si pensa, si parla, si elabora e si sviluppa. E nella fase dell’elaborazione astratta tutto può sembrare già pronto, chiaro e definito. Invece, quando dobbiamo agire nel mondo materiale spesso iniziano i problemi: richiesta di permessi, mancanza di denaro, trovare la squadra competente per realizzare l’opera, errori di esecuzioni, contrattempi ecc. Il mondo materiale crea barriere, crea difficoltà.
Tuttavia, le difficoltà e i problemi non sono visti dalla Torà come un “male”. Gli ostacoli devono esserci, altrimenti questo mondo sarebbe troppo semplice e realizzare delle imprese sarebbe una banalità, ma in realtà non solo non è così, ma NON DEVE essere così, perché Hashèm ha voluto che ci sia un valore per chi trasforma questo mondo concretamente. In altre parole, se l’azione non fosse staccata dalla componente astratta, in questo mondo, il “sognatore” e il “realizzatore/l’esecutore” sarebbero allo stesso livello, perché nessuno dovrebbe superare delle difficoltà e faticare per realizzare idee e progetti. In questa prospettiva lavorare per fare di questo mondo una dimora per Hashèm non avrebbe senso. Tuttavia, siccome la verità che governa la nostra realtà è antitetica a questa filosofia, illudersi che l’azione non richieda un “salto” nel mondo materiale può essere solo il frutto di una percezione falsa di questo mondo ed equivarrebbe ad una forma di “autolesionismo”.
Il messaggio della Torà è che la pianta della creazione che Dio ha voluto è la “hey” e così è strutturata in questo modo, con i suoi tre livelli interconnessi (pensiero, parola e azione), per rendere la nostra fatica importante, donandoci la gioia e la felicità nel successo che non deve essere scontato. Questo dona armonia o per meglio dire questa è la fonte dell’armonia.

Kòrakh: Tre Filosofie Di Vita Sbagliate

Questa riflessione spiega un importante significato mistico nascosto dietro la figura di Kòrakh e della sfida da lui lanciata alle due guide del popolo ebraico: Moshè e Aharòn. Sfida che è diventata un archetipo del concetto stesso di conflitto e di discordia in eterno. Il fulcro di questo insegnamento è celato nel nome di Kòrakh e per meglio dire nelle lettere ebraiche che compongono il suo nome. Dall’analisi comparata di queste lettere possiamo trarre lezioni di vita fondamentali valide fino ad oggi.
L’argomento è ben introdotto dal Talmud: Chiunque si impegna nella divisione trasgredisce un divieto della Torà, come è scritto (Numeri 17, 5): “E non divenga come Kòrakh e la sua congregazione”. La Torà stessa desidera mettere in guardia contro l’idea della disputa e della conseguente discordia.
Ciò significa che nella vicenda di Kòrakh troviamo la fonte di tutte le divisioni e anche le risposte per non cadere in esse. Per capire la centralità di questo evento dobbiamo addentrarci nella profonda ideologia di Kòrakh che in realtà è formata da tre convinzioni.
Come è scritto nel Talmud, il grande saggio Rabbi Mèir avrebbe dedotto la natura di ogni persona dal suo nome. Questo concetto è spiegato in profondità dalla mistica ebraica, Cabalà, secondo cui dalle lettere ebraiche di ogni cosa può essere ricavata non solo la natura o essenza di ogni creatura, ma anche di ogni oggetto e fenomeno. Nella Torà l’alef-bet (l’alfabeto ebraico) rappresentano gli elementi costitutivi della creazione, il che significa che le lettere che compongono il nome ebraico biblico di ogni cosa o persona ne definiscono la sua “essenza”, ovvero il carattere della sua anima, la sua forza vitale divina che le garantisce esistenza e vitalità.
Le lettere del nome “Kòrakh”: kuf – ק, resh – ר, khet – ח, delineano i contorni di un conflitto interiore, i vari modi in cui l’armonia della creazione di Dio potrebbe essere distorta e corrotta.

Significati Lettere Nome Kòrakh

Invece le tre lettere di Kòrakh, che pur assomigliando alla hey, esprimono delle differenze con essa, delle “deviazioni ideologie” con la quali Kòrakh sfida suo cugino Moshè e in qualche modo anche la creazione, il piano del Creatore e la novità stessa del Dono della Torà. Tali differenze allontanano l’uomo sia da un comportamento equilibrato tra pensiero, parola e azione, sia dal suo vero scopo della vita e in definitiva alterano e confondono il corretto rapporto tra lo “spirito” e la “materia”, così come è voluto da Dio. Queste deviazioni rappresentano anche tre diversi tipi di profili psicologici: il sovra-razionalista, il sovra-idealista e il livellatore, le cui caratteristiche sono raffigurate nella differenza di forma che ognuna delle tre lettere del nome Kòrakh ha rispetto alla lettera “matrice della creazione” la hey: la kuf – ק è un hey – ה la cui gamba sinistra non è allineata alla gamba destra e si estende sotto di essa; la resh – ר è una hey – ה a cui manca del tutto la gamba sinistra; e la khet – ח è una hey – ה dove anche la gamba sinistra è unita al suo tetto.

1) Kuf – ק: L’uomo Ultra Realista
La “gamba sinistra” della Kuf, “azione”, si estende molto più in basso di quella della hey – ה. Questa caratteristica denota una filosofia di vita che vede come una fatalità la dicotomia tra l’astrazione (pensiero e parola) e l’azione. In questa fase si riconoscono che i valori espressi dalla mente e dalla parola sono buoni. Tuttavia si crede che dal momento che l’azione è staccata dallo spirito, poiché scende nel mondo nettamente più in basso delle altre facoltà, per quale ragione l’azione deve essere regolata dallo spirito? Inoltre per quale ragione bisogna avere delle regole nel comportamento materiale? Visto che la materia è una sfera distinta, pensa il realista, tanto vale che cammini per conto suo, senza le regole dello spirito.
In questo modo si arriva a negare l’importanza di infondere lo spirito nella materia per elevarla: dato che la materia è opposta allo spirito, non esiste un collegamento tra questi due elementi. Da simili considerazioni erronee nascono filosofie di vita, purtroppo molto diffuse, che arrivano ad affermare che essendo la vita una sola occorre “godersela finché si può”.
Questo è diametralmente opposto allo scopo della creazione del mondo, che è stato creato con la dimensione materiale più “bassa” e staccata al fine di elevare la materia e di portare la santità in essa proprio perché sembra separata dal resto.

2) Resh – ר: L’uomo Ultra Idealista
Nella lettera resh la “gamba sinistra”, l’azione, manca del tutto. In questo stato psicologico l’uomo tende ad agire e relazionarsi nel mondo cercando di ignorare la materia e valorizzare solo le manifestazioni astratte dell’essere, come pensiero e parola. L’agire nel mondo è visto come una pericolosa forma di potenziale corruzione in quanto se la materia è staccata dallo spirito allora confrontarsi con essa può causare un degrado spirituale, perciò meglio ignorarla. Allora, pensa l’idealista, tanto vale allontanarsi dal mondo, come un eremita, per non rischiare questa decadenza. Pertanto, in questa fase, la persona tende a distaccarsi da esso e isolarsi nelle proprie teorie e idee astratte.
Questa filosofia considera la componente spirituale della creazione troppo superiore, negando, di conseguenza, la possibilità di elevare la materia, poiché è considerata troppo lontana e bassa. In definitiva mancando la “gamba sinistra”, l’azione è vista inevitabilmente come una pericolosa deviazione in quanto fonte di corruzione dei propri ideali e del proprio percorso spirituale.

3) Khet -ח : Il Livellatore
Differentemente dalla hey, questa lettera possiede due gambe identiche che partono dal tetto, ovvero dal pensiero: la sinistra, azione; e la destra, pensiero e parola senza nessuno stacco. La khet simboleggia una forma di squilibrio psichico più raffinato e meno distorto di quello rappresento dalla lettera resh. In questa prospettiva, anziché rinnegare la gamba sinistra (l’azione), si rifiuta a priori il principio della contrapposizione tra la parte astratta, pensiero e parola e l’azione, considerandoli parimenti uguali e importanti fino ad annullare le differenze tra essi. Questo perché lo scopo di tutto il creato è raffinare la materia, perciò non può essere più bassa se è lo scopo di tutto.
Conseguentemente si rifiuta anche la separazione tra i vari regni, spirito e materia, che Dio ha creato e ha tenuto comunque separati. Questo perché la componente spirituale della creazione ha comunque una posizione di preminenza rispetto alla materia. Rifiutando questo rapporto gerarchico si considera la materialità non meno sacra della spiritualità, i fatti non meno puri delle parole o del pensiero, proprio come e le due gambe attaccate della khet.
Questa prospettiva ha due principali rischi: il primo quello di considerare l’agire nella materia come scontato e facile, poiché il solo pensare e parlare equivarrebbe all’agire, quindi non si dà importanza all’agire nella materia e si considera la raffinazione di essa come una cosa scontata e facile. Questo fa mancare gli stimoli a faticare e realizzare qualcosa che in realtà è molto difficile ed è lo scopo di tutto la creazione. Questo aspetto può essere paragonato a una forma di “autolesionismo”, poiché annulla il valore della grande fatica per raffinare la materia.
Il secondo è quello di non dare valore alla elevazione della materia perché anche essa è santa come nella khet la gamba sinistra è attaccata al tetto, allo spirito. In questa prospettiva si rischia di sottovalutare la caduta nella materia, poiché se ci si abbassa senza le dovute cautele si rischia di sprofondare nei piaceri materiali.
Entrambe queste prospettive determinano uno stato apatico, che negano lo scopo della creazione per cui lo spirito, comunque superiore, deve santificare la materialità elevandola attraverso l’azione.

Le Due Grandi Negazioni Di Kòrakh: Matàn Torà e la Hey
Le deviazioni, rappresentate dalle tre lettere, analizzate sopra, fondano la loro stessa ragione d’essere in due grandi errori di Kòrakh. Errori che riguardano l’ordine stabilito da Dio con la creazione del mondo fatta attraverso la lettera hey e il messaggio rivoluzionario che Dio ha dato a tutta l’umanità con il Dono della Torà. Questa distorta visione del mondo e della creazione lo portò a ribellarsi contro Moshè con tre lamentele che sono in relazione con le tre lettere del nome Kòrakh.

A) Resh, Kuf e il Dono della Torà
In origine il mondo è stato creato sulla struttura della hey – ה: con la materia staccata dallo spirito; una netta divisione che non rendeva possibile un collegamento tra di loro. Ma dopo la promulgazione della Torà, nell’anno 2448 dalla creazione, Dio ha tolto questa totale divisione tra spirito e materia rendendo possibile allo spirito di penetrare la materia per elevarla.
Infatti, non era possibile perseguire lo scopo della creazione del mondo (elevare la materia) nei primi due millenni, perché questo mondo non era raffinabile. Non a caso è riportato dalla Torà Orale, il Talmùd, che i primi due millenni sono “tòhu” caos più totale, perché il mondo non poteva avere ancora il suo tikkùn, rettificazione.
Solo dopo il dono della Torà l’uomo può agire direttamente nella materia infondendola dei suoi pensieri e parole per creare un mondo di tikkùn-rettificato/aggiustato. Questo concetto è strettamente legato al significato delle mitzvòt cosiddette “pratiche”. Ad esempio, dopo il Dono della Torà, benedire il cibo (parola) o mettere i tefillìn e costruire una sukkà con intenzione (pensiero), significa trasformare la materia santificandola e elevandola tramite la parola o il pensiero che portano la santità nell’azione.
Prima di Matàn Torà, invece, esisteva una separazione netta tra il mondo spirituale e quello materiale, ossia tra pensiero, parola e azione. Tanto che era possibile servire Dio e rettificare il mondo solo con la preghiera, lo studio e la meditazione, ma non con atti materiali.
Kòrakh nega o comunque non comprende questo rivoluzionario e straordinario cambiamento nel rapporto tra lo spirito e la materia. Queste deviazioni rispetto al piano divino sono rappresentate dalle lettere resh e kuf e dalle rispettive lamentele che Kòrakh rivolge a Moshè.

B) Resh e la Lamentela sulle Mezuzòt
Ognuno dei tre ideali errati di Kòrakh sono espressi con un racconto. Come esempio citiamo quello legato alla resh. Questa lettera rappresenta la filosofia secondo cui il nostro rapporto con Hashèm deve essere solo spirituale, senza le interferenze e i pericoli dell’agire materiale. Concetto rappresentano dalla mancanza della gamba sinistra che rappresenta l’azione. Da questa filosofia trae spunto la lamentela di Kòrakh sul precetto della mezuzà: il rotolo dove sono scritti alcuni brani della Torà che si appende, come protezione, agli stipiti delle porte. Kòrakh afferma che se in un luogo ci sono tanti rotoli della Torà quel posto non ha bisogno di nessuna protezione aggiuntiva sulla porta, o per meglio dire non ha bisogno di una ulteriore azione che incide nella materia, come la mezuzà. Lo spirito di quella casa non solo prevale sull’azione, ma rischia di venire corrotto e distratto dal rapporto con la materia. Quindi, se lo spirito prevale comunque sulla materia esso non si deve abbassare e corrompere con l’azione. Anche questa filosofia nega l’insegnamento di Matàn Torà e rifiuta totalmente l’idea che la spiritualità possa infondersi con l’azione nella materia.

C) Kuf e la Seconda Negazione
Poi nella kuf troviamo la negazione del secondo concetto che la promulgazione della Torà ha portato nel mondo. Quando la materia viene elevata dallo spirito solo allora si trasforma, si raffina e non è più la stessa di prima. Questo viene a togliere l’errore della kuf, per cui la materia, non essendo collegata allo spirito, può cadere in basso e quindi siamo legittimati a godere dei meri piaceri materiali di questo mondo.
Come detto sopra, l’ideologia errata, rappresentata da questa lettera, considera l’azione e la materia come bassi e troppo lontani. Concetto rappresentato dalla “gamba sinistra” della kuf che sprofonda in basso, perché la materia è troppo lontana e impura per arrivare a cambiare.
Questo punto di vista nega il Dono della Torà che, al contrario, impone e prevede che l’unico modo per realizzare lo scopo della creazione sia quello di infondere e santificare la materia agendo attraverso la spiritualità, per cui è sbagliato essere così realisti da pensare che la materia può e deve essere goduta per via del fatto che non è elevabile in santità.

Khet Negare la Hey, la Prima Lamentela: Tutti Uguali

La principale accusa mossa da Kòrakh a Moshè si fonda sulla filosofia simboleggiata dalla lettera khet le cui “gambe” – collegate allo stesso modo al “tetto” – rappresentato la parificazione del pensiero, parola e azione nell’agire umano. Nel rapporto spirito materia questo approccio non percepisce differenze, né un rapporto gerarchico tra esse.
Questa recriminazione trae la sua ragione d’essere dal precedente episodio degli esploratori (parashà di Shelàkh), quando essi scoraggiano il popolo ebraico dall’entrare nella terra di Israèl. Luogo descritto come un posto pericoloso e non adatto per vivere. Questa visione negativa è in realtà motivata dalla stessa filosofia rappresentata della lettera resh.
Gli esploratori – è bene ricordare essere tutti prìncipi capi tribù e grandi studiosi della Torà – vedono nella materialità, rappresentata dalla terra di Israèl, solo un ostacolo, una possibile contaminazione al loro progresso spirituale, lo studio della Torà. Pertanto preferivamo continuare a vivere nel deserto dove potevano ricevere tutto il necessario senza bisogno di lavorare e agire nella materia, percepita come un pericolo e una deviazione alla elevazione spirituale (vd panoramica Shelàkh).
Visto il tragico epilogo della vicenda – che causò direttamente e indirettamente molte morti nel popolo ebraico e ben quaranta anni di peregrinazioni nel deserto – Kòrakh, forte di questo esempio negativo, trae la forza per attaccare le due guide del popolo: la tragica sequenza degli eventi si basa su una eccessiva predominanza dello spirito a scapito della materia, pertanto con il rifiuto di abitare la terra di Israèl, gli esploratori causano la collera divina.
Secondo Kòrakh questo è un chiaro messaggio di come Hashèm tiene in grande considerazione la materia e alla sua santità. Quindi, sarebbe sbagliato pensare che vi sia una gerarchia, una superiorità tra il “mondo spirituale e quello materiale”. Pertanto, se essi hanno lo stesso valore, Moshè e suo fratello Aharòn, le due guide spirituali del popolo ebraico, non hanno nessun diritto di assumere una tale posizione, poiché la loro superiorità è solo nello spirito. Tuttavia, se lo scopo di tutta la creazione è l’elevazione della materia, quindi nell’azione materiale, non vi può essere differenza tra le guide e il popolo, perché tutti eseguono nella stessa maniera l’azione delle mitzvòt pratiche. Tutti i componenti del popolo ebraico sono uguali, se la materia è santa come lo spirito, allora tutti i membri del popolo, anche i meno evoluti spiritualmente, agendo nella materia, sono già a contatto con le vette spirituali più elevate. Pertanto nessuno ha bisogno di leaders spirituali che lo guidino, in quanto se lo scopo di tutto è l’azione che eleva la materia, un ambito dove tutti i componenti del popolo sono uguali: sia Moshè, sia una persona semplice, ad esempio, mettono i tefillìn nella stessa maniera, senza differenza.

Anche se questa “deviazione ideologica” di Kòrakh si scontra su quanto appreso dai “piani di Dio” con il dono della Torà, il contrasto vero e più pertinente lo troviamo con la “lettera della creazione” (vedi sopra), ossia la hey. Con Matàn Torà apprendiamo che lo spirito deve infondere la materia per elevarla, quindi da ciò si deduce che non è possibile affermare che materia e spirito sono sullo stesso piano. Tuttavia, rimane il fatto che dopo Matàn Torà l’importanza dell’agire nel modo della materia non solo è positivamente sottolineato, ma rappresenta lo scopo stesso della creazione. Quindi la posizione di Kòrakh difficilmente poteva essere rigettata in toto ricorrendo solo a questo episodio, se pur fondamentale per la storia umana.
Invece, dalla lettera hey, dalla sua stessa struttura, il “progetto della creazione”, si evince chiaramente la gerarchia, il distacco tra lo spirito e la materia, tra il pensiero e l’azione.
Inoltre, le guide del popolo ebraico di ogni generazione, compreso ovviamente Moshè, sono paragonate alla “testa”, rosh in ebraico, non certo casualmente. La “testa” il pensiero, lo spirito, sono a un livello più alto del corpo, la “materia”, poiché gli permettono di collegarsi con il divino. Allo stesso modo il ruolo di Moshè era fondamentale per la sopravvivenza e il compimento della missione del popolo ebraico. Sovvertendo questo ordine Kòrakh avrebbe rischiato di distruggere lo stesso progetto della creazione, assieme al popolo ebraico che, senza guide spirituali ben definite, sarebbe caduto nell’anarchia non potendo più adempiere allo scopo della creazione come voluto da Dio.

In ultimo rimane da rispondere a una domanda che potrebbe sorgere. Quale coerenza è possibile individuare nei diversi approcci che Kòrakh usa per cercare di assumere il controllo del popolo ebraico? Pur essendo tutte delle deviazioni che portano a uno squilibrio e alla discordia, esse si fondano su filosofie diverse che si possono concretizzare in comportamenti differenti.
La risposta è che Kòrakh è talmente preso dall’invidia che usa ogni strumento possibile mettere in dubbio la leadership di Moshè, al fine di prendere il suo posto.
Pertanto prima Kòrakh cerca di delegittimare in toto il ruolo stesso di Moshè, Khet, poi cerca di mettere in dubbio l’efficacia dei precetti da lui trasmessi e la lezione appresa dopo il Dono della Torà, Kuf e Resh.

kuf – ק, resh – ר , khèt – ח
L’ARCHETIPO DI OGNI DIVISIONE

Giunti a questo punto è possibile approfondire perché nel Talmud e nella Torà è scritto: e non divenga come Kòrakh e la sua congregazione. Una sorta di “anatema” che mette in guardia ogni persona, in ogni generazione, dalla disputa e della conseguente discordia simboleggiata da Kòrakh (vedi inizio testo).
Le tre lettere che rappresentano le tre deviazioni ideologiche e le tre lamentele, sono l’archetipo, il prototipo, di ogni tipo possibile di divisione: nei confronti di Dio e tra e dentro l’uomo.
1) La kuf divide la parte materiale da Dio e dalle altre facoltà umane, isolando e mortificando le qualità intellettive presenti in ogni essere umano e da chi non è in grado trasformare la materia.
2) La resh divide la parte spirituale dal resto della creazione, non riconoscendo l’importanza della materia nei progetti divini, perché isola l’essere umano dal resto del mondo e dagli altri uomini che non sono all’altezza delle alte vette spirituali.
3) La khet, negando ogni differenza e livellando materia e spirito allo stesso piano, divide gli uomini nel modo peggiore inducendoli verso un caos anarchico, senza gerarchie e senza riconoscere i meriti individuali. Non apprezzando le diverse qualità e livelli raggiunti sia nel campo materiale, sia in quello spirituale ogni sforzo o successo diventa privo di importanza reale. Inoltre, negare l’ordine della creazione rende difficile, se non impossibile, collegarsi alla volontà divina per realizzare lo scopo di santificare e elevare la materia.

Quindi la divisione espressa da Kòrakh è molto di più di quello che sembra. È la divisione tra spirito e materia, tra lo scopo dell’uomo di cambiare questo mondo e la volontà di Hashèm che ci ha chiesto di cambiarlo. Queste sono le fonti di tutte le divisioni e ideologie che separano dal Creatore, il mondo e lo scopo della sua esistenza.

Da un approfondimento del Rebbe di Lubàvitch Likuté Sikhòt vol VIII

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4 – VAYERÀ: La Vera Ospitalità!
Storia Rev Levi Yizhak di Berdiciov

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MAI SCAPPARE DAL PASSATO!
Anche La Ricerca Della Verità Di Abramo Era Parte Della Verità

Un prete e un pastore di una chiesa locale erano in piedi accanto alla strada e mostravano un cartello che diceva: La fine è vicina! Tornate indietro prima che sia troppo tardi!
Mentre un camion gli passava di fronte, l’autista urlò: “Lasciateci in pace religiosi svitati!”
Dopo che il veicolo girò la curva sentirono stridere le gomme e subito dopo, udirono un grande boato.
Preoccupato, il prete si rivolge al pastore e gli chiede: “Pensi che nel cartello ci dovrebbe essere scritto solo “Il ponte è crollato?”

Venendo Nei Giorni
“Abramo e Sarà erano anziani, avanzati nei giorni”, afferma la Torà nella parashà di questa settimana (Genesi 18, 11). Successivamente è scritto: “E Abramo era anziano, avanzato negli anni” (Genesi 24, 1).

Cosa significano queste parole? Se il significato era semplicemente che Abramo e Sarà erano invecchiati, si sarebbe potuto semplicemente scrivere: Abramo e Sarà erano anziani “ זקניםzekenìm”. Perché la necessità delle parole extra “baim bayamim – avanzati nei giorni”?

Infatti, mentre molti, incluso Abramo, ottengono il titolo di “anziano” (zakèn) nella Torà, le parole “baim bayamim” (plurale) o “ba bayamim” (singolare), letteralmente “avanzati nei giorni”, appaiono solo in connessione con quattro persone: Abramo, Sarà, Giosuè (Giosuè 13, 1 e 23, 1) e David (I Re 1, 1). Tale applicazione selettiva delle parole dovrebbe attirare la nostra attenzione e insegnarci qualcosa.

Lo Zohàr offre un’interpretazione piacevole, anche se problematica (Khayè Sarà 129a; 224a). La traduzione letterale delle parole “baim bayamim”, sarebbe “avanzati CON i loro giorni”: Bayamim può significare sia nei loro giorni, sia con i loro giorni. Secondo lo Zohàr quello che il versetto dice è che “Abramo e Sarà erano anziani CON TUTTI I LORO GIORNI”.
Abramo e Sarà non solo invecchiano con una lunga vita, cosa comune a molte persone, ma portavano con sé tutti i loro giorni: si presentavano con ciascuno dei loro giorni; nessun giorno era dimenticato, ignorato o tenuto nell’armadio; bensì ogni singolo giorno era tenuto in considerazione e vissuto al massimo. Ogni giorno era sano, pieno di significato e completo. Venivano con tutti i loro giorni e nessuno fu lasciato alle spalle.

Eppure, a questo punto qui, sorge un problema! Per il primo periodo della sua vita, Abramo era immerso nell’idolatria pagana. Assieme a suo padre Tèrakh, anche lui si era impegnato nelle credenze e pratiche pagane del tempo. Inoltre, essendo una persona autentica, Abramo era sinceramente radicato in quel mondo di credenze pagane, forse più di quelli che si limitavano a conformarsi alla massa. Solo più tardi Abramo scoprì la verità del monoteismo, il concetto di un universo unificato creato da un singolo Creatore con aspettative morali dalla sua creazione. La Torà non dà un’età e i rabbini nel Talmud e nel Midrash discutono su quale fosse:
un Midrash dice che Abramo aveva 48 anni quando riconobbe Hashèm (Midrash Bereshit Rabà 30, 8); secondo un altro Midrash e il Maimonide (Midrash Rabà ibid. Rambàm ibid.) Abramo aveva 40 anni; addirittura nel Talmud (Nedarim 32a) è citato un punto di vista secondo cui Abramo aveva tre anni quando divenne consapevole dell’esistenza di Dio (opinioni diverse, ma che non devono essere interpretare necessariamente in contrasto tra loro, legate al fatto che probabilmente c’erano fasi differenti nello sviluppo intellettuale e spirituale di Abramo).

In ogni caso, non si può certo dire che Abramo “portava con sé tutti i giorni”, ossia che ogni giorno della sua vita fosse spiritualmente completo e salubre, perché per anni o addirittura decenni era immerso nell’idolatria di suo padre e della sua società.

Tuttavia il fatto che Abramo abbia compiuto una notevole transizione nella sua vita all’età di 40, 48 o 3 anni è, ovviamente, sbalorditivo. Un uomo si è opposto a un intero mondo, perché si è preso cura della VERITÀ. Eppure proprio questa era la grandezza di Abramo: il coraggio di staccarsi da una giovinezza spesa nell’errore; il fatto di riuscire a ricominciare tutto da capo, quando scopriva i suoi errori.
Comunque non è chiaro come la Torà può affermare, secondo l’interpretazione zoharica, che TUTTI i suoi giorni sono stati spiritualmente senza macchia?

La stessa domanda, ovviamente, si applica a Sarà, a proposito della quale la Torà afferma due cose: la prima che “portava con sé i suoi giorni”; la seconda che “E la vita di Sarà fu di cento anni e di venti anni e sette anni; questi furono gli anni della vita di Sarà” (Genesi 23, 1).
Le ultime parole, “questi furono gli anni della vita di Sarà”, sono superflue. Il Midrash e Rashì spiegano che questa frase ci insegna che tutti gli anni erano ugualmente buoni. Ma come possiamo fare una simile affermazione su Sarà? L’inizio della sua vita fu consumata dall’idolatria. L’ebraismo e il monoteismo sono stati per lei una scoperta successiva. Come possiamo dire di Sarà, come per Abramo, che tutti i suoi giorni sono stati ugualmente buoni, degni e sani?

Fu durante un discorso pubblico (“farbrenghen”) che io ho avuto l’onore di essere presente su Shabbàt Parashat Vayerà, 15 Kheshvan 5748 – 7 novembre 1987, quando il Rebbe di Lubavitch offrì la seguente spiegazione.

Il Paradosso

Il Rebbe di Lubavitch introdusse per la prima volta un potente paradosso nella legge ebraica (Likkutè Sikhot vol. 35). Ogni ebreo quando matura è obbligato a compiere tutte le mitzvot della Torà: 13 anni per un ragazzo e 12 anni per una ragazza (le ragazze maturano più velocemente dei maschi, infatti alcuni maschi non maturano mai… basta chiedere alla moglie se rientriamo in questa categoria…!). Tuttavia, la Torà non obbliga un padre o una madre a insegnare ai loro figli di eseguire le mitzvòt prima dell’età del bar o bat mitzvà, in modo che possano essere ben preparati nel momento in cui raggiungono l’età dell’obbligo. Solo i saggi impongono a ogni padre l’obbligo di insegnare ai suoi figli di eseguire tutte le mitzvòt, (eccetto tefilin e digiuno Yom Kippur), una volta raggiunta l’età appropriata.
Eppure quest’ultimo è un obbligo solo rabbinico, non biblico.

Siamo quindi di fronte a un paradosso: non c’è modo che una persona possa improvvisamente, nel giorno in cui compie 13 o 12 anni, osservare perfettamente tutte le mitzvòt, senza pratica e prove precedenti. Sarebbe come chiedere a un giovane di entrare a far parte di una squadra di calcio, della Serie A, senza una giornata di allenamenti…

Come si può improvvisamente dominare le complessità di tutte le mitzvòt senza precedenti prove? Possono i nostri figli o figlie improvvisamente, in pochi minuti, diventare esperti nell’indossare tefilin, nelle preghiere, in tutti i comandamenti negativi ecc?

Inoltre, molte delle mitzvòt richiedono molto lavoro prima che possano essere soddisfatte: bisogna creare o acquistare tefilin; tessere o acquistare tzitzit; formare o acquistare uno shofar per Rosh Hashanà; acquistare materiale per costruire una sukkà… ecc..

Questo è esattamente il motivo per cui i rabbini hanno introdotto la mitzvà del “khinukh”, educando i bambini a provare tutte le mitzvòt, anni prima del loro bar-mitzvà. Eppure perché la Torà non prevede un tale obbligo?

C’è un enigma qui! O non dovremmo renderli obbligati il giorno in cui compiono 13 anni, oppure dovremmo dare loro un po’ di tempo per prepararsi in anticipo.

Potremmo suggerire una risposta semplice. La Torà non ha bisogno di affermare l’ovvio. È un dato di fatto l’obbligo di preparare in anticipo un bambino, se vogliamo che lui/lei sia pronto. Se la Torà dicesse che a 13 anni un figlio ha bisogno di giocare a calcio, non avrebbe bisogno di dire che dovrebbe allenarsi in anticipo. È più che ovvio! Proprio come la Torà non afferma che dobbiamo comprare uno shofar prima di Rosh Hashanà, o i tefilin, o la legna per costruire una sukkà. Perchè no? Perché è OVVIO. La Torà ci dice di costruire una sukkà. Come si può costruire una sukkà se non si acquista legname? Come puoi far suonare lo shofar se non ne hai uno? Idem quando addestriamo alle mitzvot i nostri figli.

Eppure questa risposta non è sufficiente! Se questo fosse il caso, significherebbe che educare i nostri figli alla pratica di mitzvot come un obbligo biblico: è così ovvio che la Torà non ha nemmeno bisogno di affermarlo. Il Talmud e tutte le autorità halachiche affermano inequivocabilmente che insegnare ai nostri figli la pratica delle mitzvòt è un obbligo rabbinico, non biblico. Eppure questo sembra insensato. Se obblighiamo questi ragazzi nel giorno in cui compiono 13 anni ad eseguire 613 mitzvòt in che modo la Torà si aspetta che le conoscano tutte?

La Formazione È Parte Del Servizio

Fu qui che il Rebbe di Lubavitch introdusse un concetto estremamente acuto nell’ebraismo (ricordo ancora la passione e l’eccitazione nelle parole del Rebbe quando ha presentato questa idea).
Dal punto di vista della Torà, la pratica e l’errore sono tutti COMPONENTI INTEGRANTI della mitzvà. Quando la Torà obbliga un ragazzo di 13 o la ragazza di 12 anni di iniziare a osservare tutte le Mitzvòt, ciò non significa che in quel giorno dovrebbero improvvisamente eseguirle tutte perfettamente. Piuttosto, la Torà li obbliga a INIZIARE il PROCESSO dell’osservanza delle mitzvòt, sapendo benissimo che è un percorso che richiede tempo per perfezionarsi.

Un esempio chiarificatore: in Israele, ogni 18enne viene arruolato nell’esercito per tre anni. Ma prima che possano diventare soldati in servizio effettivo e proteggere la terra e le persone, sono necessari sei mesi di formazione di base. Devono imparare come tenere una pistola, come usarla, come proteggere se stessi e gli altri, come entrare in combattimento. Devono anche perfezionare i loro corpi per essere in grado di gestire i compiti estenuanti del soldato. Quelli che entrano nelle unità d’elite hanno bisogno di molto più tempo per addestrarsi. Questi mesi di pratica contano come parte del loro servizio nell’esercito? Ovviamente si! Possono ancora fare errori; potrebbero non fare bene il lavoro; hanno ancora bisogno di tempo per perfezionare le loro prestazioni. Eppure è così che funzionano le cose. Per diventare un soldato, devi allenarti. Quando il paese ti mobilita nell’esercito per tre anni sa che non puoi diventare un soldato durante la notte e il tempo per l’allenamento è considerato parte del tuo servizio militare.

Allo stesso modo, questo è vero con l’ebraismo. All’età di 13 o 12 anni, il giovane ebreo viene “arruolato” nell’esercito adulto del popolo ebraico. Ora dobbiamo iniziare l’allenamento e ci vuole tempo, prove, errori e ripetizioni finché non si ottiene il risultato giusto. La famosa espressione del Talmud, “la Torà non è stata data agli angeli!” significa che essendo stata data agli umani, gli umani hanno bisogno di tempo e sforzi per padroneggiare al meglio un nuovo stile di vita. Quel necessario “tempo di allenamento” è parte integrante della mitzvà stessa. Quando la Torà dice al tredicenne, “inizia a eseguire tutte le Mitzvòt”, significa: INIZIA IL PERCORSO!

(Furono i rabbini, tuttavia, che introdussero la mitzvà di “khinukh”, dove in realtà iniziamo l’allenamento molto prima, così che all’età di 13 anni la nostra gioventù è più pronta a “decollare”).

Processo Di Formazione Di Abramo E Sarà

Questa idea contiene la risposta alla nostra domanda iniziale, su come la Torà descrive tutti i giorni di Abramo e Sarà come spiritualmente salubri, nonostante essi adorassero gli idoli nella loro gioventù.

C’è un messaggio molto profondo qui – ed è al centro del pensiero ebraico. Abramo e Sarà non sono nati e cresciuti in un ambiente di Torà. Al contrario, sono nati e cresciuti nell’antica Ur, una città nel sud dell’Iraq, dominata dall’idolatria e dal culto dei re come semidei, dove gli dei venivano percepiti come giganti gelosi assetati di sangue. Ora, Dio, il vero Dio non si aspettava che Abramo e Sarà potessero capovolgere le loro vite in un solo giorno! Le persone non sono robot o computer. Gli umani hanno bisogno del tempo e dello spazio mentale per indagare, ricercare, interrogarsi e lentamente evolversi nella loro coscienza. La strada per la verità è lastricata da esperienze ed errori, ancora e ancora in continuazione.

Proprio come con qualsiasi scoperta scientifica o teoria, non viene con uno schiocco delle dita. Lo scienziato trascorre mesi o anni nella ricerca, nel dubbio, nell’incertezza, fino a quando può scoprire la verità. Tutto quel tempo di ricerca non è considerato parte del progresso scientifico e della scoperta? È visto come un’inutile perdita di tempo? Ovviamente no! È l’unico modo per raggiungere qualsiasi tipo di verità.

Questo, esattamente, era il percorso di Abramo e Sarà. Nelle parole di Maimonide:
“Ha iniziato a esplorare. Sebbene fosse un bambino, cominciò a pensare [incessantemente] durante il giorno e la notte, chiedendosi: come è possibile che il pianeta continui a girare senza che nessuno lo controlli? Chi lo sta facendo ruotare? Sicuramente non ruota da solo! Non aveva insegnante, né c’era nessuno che lo informasse. Purtroppo era impantanato a Ur Kasdim tra gli sciocchi idolatri. Suo padre, sua madre e tutta la gente [attorno a lui] adoravano idoli e lui con loro. [Tuttavia,] il suo cuore stava esplorando e [ottenendo] la comprensione.

“Alla fine, ha apprezzato la via della verità e ha compreso il percorso della rettitudine attraverso la sua accurata comprensione. Si rese conto che c’era un solo Dio che controllava il pianeta, che creò tutto e che non c’è altro Dio tra tutte le altre entità. Sapeva che il mondo intero stava commettendo un errore… Abramo aveva quarant’anni quando divenne consapevole dell’esistenza del Creatore. Quando Lo riconobbe iniziò a formulare risposte agli abitanti di Ur Kasdim e discusse con loro, dicendogli che non stavano seguendo una strada appropriata… Quando la gente si radunava intorno a lui e gli chiedeva quali fossero le sue dichiarazioni, spiegava a ciascuno di loro secondo la loro comprensione, finché non si fossero rivolti al sentiero della verità. Alla fine, migliaia e miriadi si radunarono intorno a lui”.

Questo è il motivo per cui la Torà ci dice che Abramo e Sarà “sono venuti con tutti i loro giorni”. Dal punto di vista Divino, tutti i loro giorni erano perfettamente salubri. Naturalmente, molti di questi anni includevano errori teologici e false credenze pagane. Ma quello faceva parte della loro ricerca della verità. La strada verso la perfezione passa attraverso l’imperfezione. Non si abbandonavano all’idolatria perché erano senza scrupoli e golosi; in realtà stavano cercando la verità e nel nostro mondo complesso, spesso abbracciamo l’errore prima di scoprire il giusto. Per Abramo e Sarà, il loro cammino verso Dio doveva transitare attraverso altri percorsi, senza i quali non avrebbero mai potuto scoprire il monoteismo.

Anche i loro “brutti giorni” erano “bei giorni”, perché tutti i loro giorni facevano parte del loro “allenamento”, anche se includevano errori e insuccessi.

I Nostri Viaggi

Lo stesso vale, almeno in una certa misura, per tutti noi. Molti hanno scoperto la bellezza, la verità, la maestà e la profondità dell’ebraismo in un momento successivo della vita. Non abbiamo tutti avuto il privilegio di crescere con esso. Fino a quando non abbiamo trovato la nostra ebraicità, alcuni di noi hanno viaggiato attraverso molte strade che “divergevano dai binari” e a volte abbiamo preso quella meno saggia.
Abbiamo viaggiato, fisicamente e mentalmente, in luoghi distanti geograficamente ed esistenzialmente. Sulla strada, abbiamo incontrato buche e fossati. Siamo inciampati. Siamo caduti. A volte ci siamo gravemente feriti.

Alcuni momenti guardiamo indietro alla nostra storia e ci sentiamo abbattuti. Pensiamo di aver sprecato così tanti anni invano. Vorremmo aver scoperto ciò che sappiamo ora molto, ma molto prima…

Molti di noi guardano alle vite e lamentano le decisioni sbagliate fatte per noi stessi, o per i nostri cari, a causa della nostra ignoranza, dolore, confusione, ansia e mancanza di conoscenza. Diventiamo demoralizzati per gli anni che abbiamo sprecato in comportamenti sbagliati se non distruttivi.
Ma quando la Torà dice che “Abramo e Sarà sono venuti con TUTTI i loro giorni” o che “tutti gli anni di Sarà erano [positivamente] identici”, ci sta suggerendo una prospettiva più profonda. La vita non è qualcosa che si smonta rimonta come un lego. L’unico modo in cui scopriamo la nostra anima è attraverso il processo che abbiamo fatto. Ogni trappola, ogni errore, ogni momento di confusione, è parte integrante del nostro viaggio verso la nostra maturità spirituale. Dobbiamo abbracciare per tutti questi momenti.

Girarsi

Esiste un’interessante e strana usanza ebraica, che solleva molte sopracciglia per i neofiti della sinagoga. Venerdì sera, quando concludiamo il poema “Lekhà Dodi”, l’intera congregazione fa un “giro” e lo recita al contrario verso l’entrata della sinagoga. Perché?

Stiamo esprimendo lo stesso concetto. Nella vita, alcuni di noi hanno la fortuna di scoprire lo “Shabbat”. Vivere vicino ad Hashèm con fede, avere il giusto partner d’amore, essere in sintonia con la propria anima con equilibrio e serenità.
Ma per alcuni scoprire una nuova esperienza spirituale significa individuare un nuovo destino, un nuovo apprezzamento per l’ebraismo, una nuova felicità, un nuovo stile di vita. Per alcuni di noi è un modo di dire addio al passato e scrollarci di dosso le esperienze passate, poiché ci vergogniamo di loro. Alcuni di noi hanno persino interrotto i legami con ex amici e familiari.

Ma non è questo il giusto pensiero ebraico. Alla fine di Lekha Dodi, mentre stiamo per accogliere lo Shabbat ed entrare nelle 25 ore di trascendenza spirituale, ci voltiamo! Non ci stacciamo dal nostro passato. Ci giriamo, lo riconosciamo, lo abbracciamo, lo portiamo con noi nel nostro viaggio. Perché il nostro passato non deve mai essere gettato via; deve essere visto come il percorso attraverso il quale siamo arrivati alla nostra destinazione attuale.

O come un uomo saggio una volta disse: “La cosa più vicina alla perfezione è l’imperfezione”.

Sì, quando scopriamo la verità dobbiamo avere il coraggio, come Abramo e Sara, di distruggere gli idoli della menzogna e gli dei della stupidità. Eppure dobbiamo ancora guardare con compassione per tutto il tempo in cui siamo stati “fuori”, cercando di trovare la nostra strada, la nostra anima, il nostro Dio.
Quando l’IMPERFEZIONE porta alla PERFEZIONE è PERFETTAMENTE IMPERFETTA!!!

Basato sugli insegnamenti del Rebbe di Lubavitch
Tratto da uno scritto di YY Jacobson

La spiegazione alla fine sul perché ci giriamo è basata sugli scritti di Reb Tzadok HaKohen di Lublino

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VAYERA
Al seguente link troverai la pagina web con la lezione sulla nostra parashà di VAYERA:

VAYERA: UOMO E DONNA CARATTERISTICHE DIVERSE


dal seguente link si può scaricare il file audio immediatamente, senza aprire la pagina web:

UOMO E DONNA CARATTERISTICHE DIVERSE
Il diverso approccio all’ospitalità di Avraham e di Sarà:
attraverso il Talmud un profondo percorso nelle diverse caratteristiche dell’uomo e della donna
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Per ascoltare le altre lezioni sulla nostra parashà cliccare al seguente link:
http://www.virtualyeshiva.it/2018/10/20/vayera-5773-6-lezioni-precedenti/

In questa Parashà Avrahàm riceve la visita di tre angeli in sembianze umane. Avrahàm li ospita e uno di loro promette la nascita di un figlio. Incredulità di Sarà. Un altro (il secondo) guarisce Avrahàm dalle soffernze della milà.
Tratta inoltre della distruzione di Sedòm e Amorà, del rapporto delle figlie di Lot con il padre e del parto di Moàv e Ben Ammì.
Avrahàm si allontana da Lot e si reca nella terra dei Pelishtìn. Sarà viene rapita da Avimèlekh, poi restituita con doni per l’intervento di HaShèm!
Nascita di Yitzkhàk che viene circonciso dal padre all’ottavo giorno dalla nascita.
Legatura di Yitzkhàk, Avrahàm viene messo alla prova da HaShèm!

MIDRASHIM

Alcune riflessioni:
La nascita di Yitzkhàk Bereshìt 21, 1-4.
Midrash Bereshìt Rabbà 53; Midràsh Tankumà b.
(a pagina 638 del volume Bereshìt edizioni Mamash).

La Grande Prova Bereshìt 22.
Midràsh Tankumà Vayerà 22.
(a pagina 640 del volume Bereshìt edizioni Mamash).

Yerushalàyim: Due Nomi, una Città Bereshìt 22,14.
Midràsh Haggadòl 22, 15 e Bereshìt Rabbà 56,17.
(a pagina 643 del volume Bereshìt edizioni Mamash).

SIKHOT
La Circoncisione di Avrahàm.
(a pagina 704 del volume Bereshìt edizioni Mamash).
Il Legame tra HaShèm e Israèl.
(a pagina 707 del volume Bereshìt edizioni Mamash).

VAYERA 5772: PERCHE’ IL TERZO GIORNO?
Diversità e complementarietà nell’osservanza delle Mizvòt prima e dopo Matan Torà!

VAYERA 5771: MAI GUARDARE INDIETRO NELLA VITA!
Dopo l’emancipazione dai ghetti gli ebrei hanno voluto assimilarsi per paura si sentirsi diversi. Questo ha portato a una rovinosa assimilazione. Qual’è la strada per risolvere il conflitto tra il mondo esterno e la propria identità? Confrontando due personalità molto diverse Avrahàm e Lot impareremo come superare le ambivalenze.
Il segreto della nota musicale della Torà chiamata “Shalshelet”!

VAYERA 5770: UOMO E DONNA CARATTERISTICHE DIVERSE
Il diverso approccio all’ospitalità di Avraham e di Sarà: attraverso il Talmud un profondo percorso nelle diverse caratteristiche dell’uomo e della donna.

VAYERA 5769: LA DECIMA PROVA DI AVRAHAM
La legatura di Yitzkhàk: Avrahàm come primo padre di Israèl viene messo alla prova per dare in eredità ai suoi figli il suo comportamento e il suo esempio di vita
La lezione approfondisce le ragioni per cui l’infinita fede di Avrahàm Avinu si esprime solo nell’ultima prova, la legatura di Yitzkhàk, che rappresenta una colonna centrale nella storia e nei meriti di Israel.

VAYERA 5768: SEGNI DI IDENTITA’ EBRAICA
L’essenza dell’essere ebreo: Avrahàm pioniere dei segni distintivi dell’identità del Popolo Ebraico
La lezione approfondisce gli attributi che connotano l’essenza dell’anima ebraica, attraverso alcuni passi Talmudici e racconti Chassidici, volti ad esplicitare il significato dei segni dell’identità di cui Avraham era un pioniere e Yitzkhàk il primo possessore per eredità.

VAYERA 5766: IL CONCEPIMENTO DEL PRIMO NATO EBREO
Le ragioni profonde e filosofiche insite nella nascita di Yitzkhàk: un analisi ricca di riflessioni che parte dalle caratteristiche di Avrahàm e Sarà per giungere ai principi kabbalistici del concepimento del primo nato ebreo.
La lezione approfondisce le ragioni sottese alla nascita di Yitzkhàk, esplorando i principi che animavano le azioni di Avrahàm e Sarà, rivelandone i valori ebraici e definendo il lato kabbalistico di un concepimento che era ritenuto impossibile.