KHAYÈ SARA 5785: 8 LEZIONI PRECEDENTI

Questo Shabbàt 23 Novembre 2024, 22 del mese di Kheshvàn 5785 leggeremo la Parashà di

Khayè Sarà Gen. 23,1-25,18.

Si legge l’Haftarà di Melakhìm I:

Italiani: Melakhìm I: 1, 1-34
Milano/Torino/Sefarditi Ashkenaziti: Melakhìm I: 1-31

בה

Una donna di Brooklyn decide di preparare il suo testamento per organizzare la sua futura dipartita.
Quindi, informa il suo rabbino delle sue richieste per quando non sarà più in questo mondo:
“Primo, vorrei una bellissima bara, e secondo, vorrei che la mia bara fosse esposta al centro commerciale della città”.
“Perché proprio al centro commerciale?” domanda stupefatto il rabbino.
“In questo modo sarò sicura che le mie figlie mi faranno visita almeno due volte a settimana”, risponde la mamma.

L’idea del Gaòn di Vilna
Lo studio della Torà è molto ricco di sfumature e di sfaccettature. Ci si può concentrare sul tema, sulla trama, sulle lezioni impartite, sulla struttura, sulla sintassi, sui versetti e sui significati nascosti, per non parlare della numerologia. Ma a volte siamo impressionati da ciò che non ci prendiamo nemmeno la briga di notare, perché le nostre menti non sono allenate per un pensiero così raffinato.
Una delle grandi menti che si è soffermata sugli aspetti meravigliosi della Torà è stato uno dei grandi saggi lituani del XVIII secolo, noto come il Gaòn di Vilna. Il rabbino Eliya ben Solomon Zalman Kramer, noto in ebraico il Gra (Gaon Reb Eliyahu), vissuto dal 1720 al 1797 che scrisse dozzine di opere brillanti su tutti gli aspetti del pensiero e della legge ebraica.
Leggiamo il versetto in apertura di Khayè Sarà e ditemi se notate una ripetizione apparentemente superflua, non una o due o tre volte, ma ben sette volte! E poi l’ultima volta, c’è un cambiamento significativo.

La Trama. Bereshìt 23, 2 – 15
“Sarà morì a Kiryàt Arbà, che è Khevròn, in terra di Kanàan. Avrahàm si recò a fare le esequie di Sarà e a piangerla.
Avrahàm si alzò da presso il suo morto e parlò ai Khittei dicendo:
1.    «Io sono fra voi un forestiero e un abitante: datemi con voi una proprietà di sepoltura, affinché io seppellisca il mio morto…».
2.    I Khittei risposero ad Avrahàm, dicendogli: «Ascoltaci, nostro signore: tu sei fra noi un principe di Dio; seppellisci il tuo morto nella migliore delle nostre tombe.
3.    Nessuno di noi ti negherà la propria tomba per seppellirvi il tuo morto».
4.    Avrahàm si alzò e si prostrò alla popolazione del paese, ai Khittei. Parlò con loro dicendo: «Se volete seppellire il mio morto da presso di me, ascoltatemi: intercedete per me con Efròn figlio di Tzòkhar. Che mi dia la grotta di Makhpelà che possiede, che è all’estremità del suo campo; me la dia a prezzo pieno, come proprietà di sepoltura tra di voi!». Efròn abitava tra gli Khittei. Efròn il khitteo rispose ad Avrahàm, alle orecchie dei khittei, alla presenza di tutti coloro che erano venuti alla porta della sua città, dicendo:
5.    «No, mio signore, ascoltami: ti do il campo e a te do la grotta che si trova in esso; te la do agli occhi della gente del mio popolo; seppellisci il tuo morto!».
6.    Avrahàm si prostrò alla popolazione del paese. Parlò ad Efròn alle orecchie della popolazione del paese, dicendo: «Se solo mi ascoltassi; ti do il denaro del campo, prendilo da me e io vi seppellirò il mio morto!».
7.    Efròn rispose ad Avrahàm, dicendo: «Mio signore, ascoltami: un terreno da quattrocento shekalìm d’argento, fra me e te, che cos’è? Il tuo morto seppellisci!»”.

Sette Volte
Avete notato uno schema nella fraseologia di questi versetti? Il termine “seppellire il tuo morto” viene menzionato ben sette volte!
In una discussione normale come questa, la frase effettiva di seppellire il morto potrebbe apparire due, tre o quattro volte. Sembrerebbe, infatti che qui la Torà inserisca questo concetto in maniera esagerata e completamente superflua.
Ma c’è qualcosa di ancora più strano. Per sei volte si parla di “seppellire il tuo morto”, ma solo alla settima volta, alla conclusione delle trattative (v. 23, 15), ad Avrahàm viene detto letteralmente: “Il tuo morto seppellisci”, invertendo così l’ordine del verbo “seppellire” con il complemento oggetto “morto”.
Perché la Torà usa descrizioni così articolate ed eccessive circa lo scopo dell’acquisto di Avrahàm? E perché, l’ultima volta che la frase è usata, la terminologia cambia l’ordine?
Qualcuno potrebbe pensare chi se ne frega? In fondo è solo una storia! Ma la Torà è Divina, ogni parola e frase sono la parola di Dio, dettata dal Creatore a Moshè. Ogni frase, ogni ripetizione, persino l’ordine di una frase, è infinitamente meticolosa, precisa e significativa. Come vedremo poi, questo apparentemente insignificante particolare spiega cosa significa essere veramente vivi. A Dimostrazione di come ogni frase nella Torà sia piena di significato e infiniti messaggi di vita.

La Risposta
Il Gaon di Vilna suggerisce un’interpretazione fantastica e brillante: Avrahàm acquistò la grotta di Makhpelà come appezzamento di terreno di famiglia. Alla fine, nel prosieguo della parashà Bereshìt, scopriamo che ben tre coppie verranno sepolte lì: Avrahàm e Sarà (Khayè Sarà), Yitzkhàk e Rivkà (Vayishlàkh) e Ya’akòv e Leà (Vaykhì). Ya’akòv lo dice molto chiaramente poco prima di morire (Vaykhì 49, 31): “Là seppellirono Avrahàm e sua moglie Sarà, là seppellirono Yitzkhàk e sua moglie Rivkà; e là seppellii Leà”.
Ora, il Talmud racconta una storia al contempo affascinante e tragica sul funerale e la sepoltura di Ya’akòv. Secondo le istruzioni che quest’ultimo diede prima di lasciare questo mondo, il suo corpo fu portato in Terra Santa per essere sepolto a Khevròn, nella grotta di Makhpelà. Un enorme seguito accompagnò Ya’akòv nel suo ultimo viaggio: Yossèf, il viceré d’Egitto, insieme a tutti i suoi fratelli, tutti i nipoti, ministri, soldati e amici, un “enorme accampamento” come lo definisce la Torà. Quando la processione arrivò alla grotta di Makhpelà per seppellire Ya’akòv, un uomo apparve all’improvviso per contestare la sepoltura.
Chi era costui? Era il fratello gemello di Ya’akòv, Essàv. C’erano tre lotti doppi nella grotta, uno per coppia. Uno era stato usato per Avrahàm e Sarà, il successivo, per Yitzkhàk e Rivkà. E poi un altro lotto serviva per Leà. Ora, c’era solo un terreno rimanente nella grotta per una sola sepoltura. Chi l’avrebbe ottenuto? Essàv sostenne che quando il loro padre Yitzkhàk morì, lasciò ai figli due lotti, da dividere tra i due figli. Ya’akòv aveva già usato il suo lotto per Leà; quindi, l’ultimo lotto rimanente apparteneva a Essàv.
Ora, la verità era che Ya’akòv aveva acquistato e comprato il terreno da Essàv. Ecco perché aveva istruito Yossèf e gli aveva fatto giurare che lo avrebbe seppellito nella tomba che “scavai (nel senso di preparare) in terra di Kenà’an”, poiché Ya’akòv si era assicurato tale diritto acquistando il terreno da Essàv, anni prima, per una somma di denaro straordinariamente elevata. Ma Essàv negò questa compravendita. I figli di Ya’akòv sostennero di avere il documento, ma di averlo lasciato in Egitto. Essàv insistette che erano dei ladri e che Ya’akòv non aveva il permesso di essere sepolto lì. Pertanto, Essàv fermò il corteo funebre.
Questo era prima dell’avvento del Servizio Postale, e certamente prima della possibilità di inviare una foto tramite WhatsApp. Quindi decisero di mandare Naftalì, uno dei dodici figli di Ya’akòv, che era noto come il più veloce corridore tra i fratelli, a recuperare il documento di vendita. Non a caso, prima di morire, Ya’akòv paragonò Naftalì a una gazzella. Naftalì fu spedito in una maratona verso l’Egitto, mentre il corpo di Ya’akòv rimaneva a terra. Essàv rimase lì a sorvegliare che nessuno violasse i suoi presunti diritti e l’intero seguito si fermò di colpo.
Ya’akòv aveva un nipote di nome Khushìm. Era figlio di Dan, un giovane molto forte, ed era sordo e disabile nel parlare. Non riuscendo a sentire nulla, non era a conoscenza dell’intera disputa tra il suo prozio Essàv e i suoi zii, i figli di Ya’akòv. Khushìm chiese a qualcuno del ritardo della sepoltura e gli fu detto (tramite linguaggio dei segni o per iscritto) cosa stava succedendo. Khushìm, il nipote sordo, era inorridito. “Finché Naftalì non tornerà dall’Egitto, mio nonno dovrebbe giacere laggiù in disgrazia?”, esclamò indignato. Quindi, Khushìm prese una mazza e colpì Essàv. Ma il colpo fu troppo forte; Essàv morì decapitato. Il Talmud conclude che questo fatto realizzò tragicamente la profezia di Rivkà, quando lei disse, dopo che Ya’akòv mandò via suo fratello Essàv che voleva vendicarsi di lui (Gen. 27,45): “Perché dovrei perdervi entrambi in un giorno?” La testa di Essàv, dice il Talmud e il Midràsh, rotolò nella tomba di suo padre Yitzkhàk. Padre e figlio furono riuniti nella morte.

Un Complotto per Sette
Ah, dice il Gaon di Vilna, ora tutto è cristallino. Le sette espressioni della “sepoltura del morto”, nella storia dell’acquisto della grotta funeraria, sono un riferimento profetico alle sette persone che alla fine sarebbero venute a riposare nella grotta.
Il Talmud dice che anche Adàm ed Khavà furono sepolti lì. Ma furono sepolti prima, molto prima che Avrahàm acquistasse il terreno. Quindi, quando la Torà parla di “seppellisci il tuo morto”, si riferisce solo a coloro che saranno sepolti dopo l’acquisto di Avrahàm.

Il Momento della Morte
Ma c’è una profonda differenza tra i primi sei e l’ultimo, il settimo. I primi sei, Avrahàm e Sarà, Yitzkhàk e Rivkà, Ya’akòv e Leà, sono persone virtuose, veri tzaddikìm, uomini e donne allineati con le loro anime al Creatore. Essàv, invece, la settima persona che entrò nella caverna, apparteneva a un mondo diverso. Il suo comportamento era immorale e promiscuo, sempre a caccia di donne, poiché schiavo dei suoi istinti materiali. Tanto che per Essàv il piacere di una zuppa di lenticchie aveva avuto più valore del grande dono della primogenitura e del sacerdozio.
Da qui la distinzione nell’espressione delle prime sei volte rispetto alla settima.
Tuttavia, perché la Torà usa la frase “seppellire il morto” quando parla dei giusti, e poi cambia l’ordine in “il morto che viene seppellito” in riferimento a Essàv?
Il Talmud afferma: “I giusti anche nella morte sono considerati vivi” (Berakhòt 18). Perché la vita dello tzaddìk è allineata con la sua anima e coscienza divina interiore. Il corpo è un canale fisico per la luce divina dell’anima, come una lampadina lo è per la luce. Quindi anche dopo che lo tzaddìk è “staccato”, attraverso la morte del corpo, la sua vita continua perché la sua essenza è la sua anima che continua a brillare dopo la morte fisica. Anzi dopo la morte, la sua anima brilla di più che in vita, visto che non ha più i limiti del corpo (Tanya cap. 27 Igròt Kòdesh). Pertanto, le influenze positive di un giusto gli consentono di essere ricordato a lungo, anche quando non lo vediamo più fisicamente.
Ecco perché, in riferimento ai giusti, la Torà dice “seppellisci il tuo morto”. In senso spirituale, la sepoltura precede la morte perché l’anima e l’eredità vivono anche con il “corpo sotterrato”. Come afferma il Talmud, “Ya’akòv non morì; i suoi figli sono vivi, quindi lui è vivo” (Ta’anìt 5b).
Vediamo come la morte delle persone più grandi della storia di Israele non ha concluso la loro influenza sul mondo. Anche dopo che sono passati a miglior vita e sono stati portati alla sepoltura, la loro anima, la loro influenza, amore, luce, verità e valori continuano a brillare e sono letteralmente percepiti nel mondo e nei cuori degli esseri umani viventi.
Al contrario, il Talmud afferma che “i malvagi anche in vita sono considerati morti”. Quando una persona vive una vita immorale e vuota, fuggendo da una tentazione all’altra, anche quando è fisicamente viva, ha una morte interiore. Essàv, che si dedicò alle vuote attività dell’edonismo, dell’adulterio, dell’idolatria e dell’omicidio e dei soldi, visse una vita vuota, disallineata con la sua essenza, con la sua stessa fonte di vita. In quel senso, era come se fosse un “uomo morto che cammina”. Era un guscio del suo vero sé, non il suo vero sé. Pertanto, adesso possiamo capire come soltanto nella settima volta, la Torà dice: “il tuo morto seppellirai”. Per Essàv e la sua specie, la morte avviene prima della sepoltura effettiva. Non deve morire per essere morto. Per alcune persone non è necessario essere fisicamente in vita per vivere; per altre non è necessario essere fisicamente morte per morire.
Questo spiega anche perché il nome di questa parashà, Khayè Sarà, significa “La Vita di Sarà”, sebbene sia incentrato su eventi successivi alla sua scomparsa. Insieme ad Avrahàm, Sarà fu pioniera dell’insediamento ebraico nella Terra di Kenà’an e, come descritto nel capitolo iniziale di Khayè Sarà, la sua sepoltura nella grotta di Makhpelà realizzò la prima effettiva proprietà ebraica di un pezzo di terra in Terra Santa. Sarà dedicò la sua vita alla creazione della prima famiglia ebraica e, in effetti, la storia della selezione di Rivkà (con la sua infinita bontà di abbeverare i cammelli di uno sconosciuto), dimostra come “il suo successore” personificasse gli ideali su cui Sarà fondò la casa ebraica.

Tratto da uno scritto di Y. Y. Jacobson

LA GIUSTA COMPAGNIA

Eli’èzer e la sua carovana partono per Aràm. Si fermano presso un pozzo, alla periferia di Kharàn, la città di Nakhòr, fratello di Avrahàm, mentre delle donne stanno attingendo l’acqua da un pozzo. Eli’èzer, prega Hashèm di guidarlo verso la donna giusta per Yitzkhàk, quella disposta ad accogliere la sua richiesta di attingere l’acqua dal pozzo, per lui e il suo seguito.

La Benevolenza
[Eli’èzer pregò] «Fai in modo che la ragazza alla quale dirò: “Inclina la tua brocca perché io beva” e che dirà: “Bevi e io abbevererò anche i tuoi cammelli”, sarà quella che Tu avrai designato per il Tuo servo Yitzkhàk. (24, 14)

Dato che ad Hashèm non manca nulla, la generosità è il modo principale con cui Lui si relaziona con il mondo. Per la stessa ragione, la generosità è il marchio naturale delle persone che si sentono strettamente collegate ad Hashèm. Al contrario, il segno distintivo del male è l’egoismo. Per quante cose una persona malvagia possa possedere nella vita rimarrà sempre insoddisfatta poiché si stacca dalla natura divina, e il suo ego lo spinge solo a prendere e mai dare.
Perciò, Eli’èzer cerca una donna per Yitzkhàk che mostri gentilezza. Quando Rivkà va oltre, nell’adempiere alla specifica richiesta di Eli’èzer, offrendosi anche di abbeverare i suoi cammelli, capisce che lei è una persona timorata di Hashèm e quindi una moglie perfetta per il figlio di Avrahàm. Dimostrando gentilezza verso il prossimo, anche noi veniamo “accoppiati” con “partner migliori”, che siano anime gemelle, amici, soci in affari e attività nella vita.

Il Primo Programma di Life Coaching della Storia in 12 Passaggi Perché non ha Funzionato? Suddivisione dei Figli 

Non sarebbe una cattiva idea per i discendenti contemporanei di Yishmaèl (Ismaele) e per tutti noi riflettere sui singoli nomi dei suoi 12 figli che divennero tutti prìncipi e padri delle nazioni ismaelite. Come è scritto nella Torà, nella porzione di questa settimana, Khayè Sarà – La Vita di Sarà, (Genesi 25, 13 – 18): Questi sono i nomi dei figli di Yishmaèl secondo i loro nomi in ordine di nascita. Poi la Torà continua elencando nomi dei figli dividendoli in tre gruppi, in tre versetti separati. Ogni divisione nella Torà non è casuale! Primo gruppo di 4 figli: Il primogenito di Ismaele era Nevayòt (che poi ebbe) Kedàr, Adbeèl, Mivsàm”. Secondo gruppo di 3 figli: Mishmà, Dumà e Massà. Infine, la Torà elenca i 5 figli dell’ultimo gruppo: Khadàd, Temà, Yetùr, Nafish e Kèdma. La Torà prosegue con il raccontare in che zona del Medio Oriente si insediano e conclude, nell’ultimo versetto della parashà, con una frase dal significato stranamente ambiguo: “Sono CADUTI in presenza di tutti i loro fratelli”. Così il grande commentatore della Torà Abrahàm ibn ‛Ezra traduce la parola ebraica “nafàl” letteralmente, che vuole dire “caduta”. La Torà non è un libro di storie bensì un manuale di vita, perciò cosa dovrebbe insegnarci questo episodio? È un semplice dettaglio incidentale? Sicuramente no, poiché, la Torà non include dettagli incidentali, neanche di una genealogia. Anche se la Torà registra molti fatti genealogici e storici, non è fondamentalmente un libro di storia o genealogia, ma come indica il suo stesso nome, Torà-horaà, è un libro di istruzioni-horaà, leggi al fine di progettare e indirizzare la vita degli uomini. La registrazione dei familiari di Ismaele, quindi, non è solo una registrazione di meri fatti genealogici. Piuttosto, come ogni frase e parola presente nella Torà, anche l’elenco dei figli di Ismaele fa parte di una sorta di tabella di marcia per il nostro viaggio in questo mondo chiamato vita. Pertanto possiamo chiederci, ma qual è la rilevanza dei 12 nomi dei figli di Ismaele? Perché lui ha dato ai suoi figli questi nomi particolari? E infine, perché nella Torà i 12 nomi sono suddivisi in tre distinti gruppi numericamente diversi: un gruppo da quattro, uno da tre e l’ultimo da cinque? 

Il Primo Programma Di Vita In Dodici Passaggi La risposta la troviamo utilizzando i quattro livelli o metodologie ermeneutiche di esegesi della Torà nell’ebraismo: con Peshàt s’intende il significato semplice o contestuale del testo; Rèmez è il significato allegorico; Deràsh include il significato metaforico e Sod rappresenta il significato nascosto. Quindi partendo dalla spiegazione Rèmez, ovvero allegorica con l’indispensabile ausilio dei significati nascosti, riportiamo gli insegnamenti di grandi maestri per spiegare come questi nomi rappresentano il programma verso una vita sana e ben bilanciata in 12 tappe. La guida di Ismaele al buon vivere copre le tre componenti principali della vita: la salute, le relazioni e il lavoro. PRIMA CATEGORIA A) SALUTE. Il primo gruppo dei figli di Ismaele, composto da quattro nomi, rappresenta la parte dedicata ai quattro passaggi verso una buona salute: 1) Nevayòt: questo nome in ebraico significa VUOTO (cf Esodo 27, 8). Ciò indica la necessità di mantenere il corpo (visto come una sorta di vaso) pulito dal cibo spazzatura e dalle sostanze dannose per l’organismo umano. Il corpo non è un bidone della spazzatura. Il corpo deve rimanere pulito, libero e leggero, limpido e pieno di vivacità ed energia. 2) Kedàr: il significato della parola ebraica Kedàr è CALORE. Questo rappresenta la necessità di fare regolarmente degli esercizi fisici per mantenere una temperatura corporea adeguatamente calda per avere una buona circolazione sanguigna. 3) Adbeèl: il significato di questo nome è NON ABBUFFARSI. Anche se si mangiano alimenti nutrienti e sani si dovrebbe consumare solo la quantità necessaria per la nostra salute, senza esagerare. 4) Mivsàm: la traduzione ebraica di questo nome è SPEZIE. Oltre alle buone abitudini alimentari e all’esercizio fisico regolare, si dovrebbero aggiungere un po’ di spezie e di condimento alla nostra vita fisica, arricchendola e dandole brio e gioia. Questo si ottiene godendoci a volte la vita, senza esagerare (vedi sopra) e sapendoci concedere dei momenti dove possiamo mangiare cibi di qualità, bere bevande pregiate, frequentare splendidi luoghi all’aria fresca della natura e godere dei suoi profumi, ecc. SECONDA CATEGORIA B) RELAZIONI. Il secondo gruppo dei tre figli di Ismaele rappresenta la guida in tre passaggi verso relazioni efficaci, sia in casa, sia nel lavoro. 1) Mishmà: nome che significa ASCOLTARE, prestare attenzione, ossia coltivare l’abilità di ascoltare veramente un altro essere umano, questo è il fondamento di ogni relazione. 2) Dumà: nome che significa SILENZIO. Il secondo passo verso la creazione di un buon rapporto consiste nella capacità di rimanere in silenzio. Non sempre è necessario rispondere alle critiche del nostro coniuge; o non sempre occorre dare una risposta a una domanda che ci rivolgono. A volte è bene rimanere in silenzio. Non bisogna sentirsi morire se non spariamo la prima risposta che ci viene in mente. Il nostro silenzio, a volte, può anche concederci un’intuizione inaspettata. Le persone di successo, infatti, ascoltano più di quanto parlino. 3) Massà: nome che letteralmente significa “FARDELLO”. Esso simboleggia il terzo passo essenziale nello sviluppo di relazioni equilibrate che resistono al trascorrere del tempo, vale a dire la pazienza e la tolleranza. La capacità di tollerare e contenere i fardelli, i pesi di un altro essere umano, per quanto possono essere imperfetti e viziati. TERZA CATEGORIA C) LAVORO E PRODUTTIVITÀ. Una volta che la salute del nostro corpo e le nostre relazioni sono in ordine, possiamo affrontare il terzo livello rappresentato dal gruppo finale dei cinque figli di Ismaele. Quest’ultima è la parte del programma in dodici tappe che affronta in cinque fasi/nomi le problematiche del lavoro e della produttività. Diversamente dalle precedenti due aree tematiche, i cinque nomi devono essere letti e compresi in un’unica sequenza: Khadàd in aramaico significa novità; Temà indica meraviglia; Yetùr è una linea retta; Nafish significa serenità; infine, Kèdma significa prima e davanti (Questo è il motivo per cui est è chiamato Kedem in lingua ebraica, dal momento che il sole prima sorge lì). Questo è il programma in cinque passaggi di Ismaele verso il lavoro e il successo: 

1) Khadàd, NOVITÀ: In primo luogo, occorre essere molto motivati per intraprendere un percorso nuovo e originale, la proverbiale strada poco battuta. In quanto bisogna superare la paura del fallimento ed essere pronti a correre rischi per aprire nuovi orizzonti. Superare anche la paura di non essere originali e creativi. Temà, MERAVIGLIA: eppure ogni pioniere e imprenditore incontrerà delle resistenze. Le persone intorno a noi inevitabilmente alzeranno le spalle con stupore e meraviglia (Tema), criticandoci per le nostre fantasie irrealistiche, per l’arroganza giovanile o per la nostra stupidità e immaturità. Molti prevedranno e auspicheranno il nostro fallimento. E noi cosa facciamo, come ci comportiamo? 

Yetùr LA LINEA RETTA: a questo punto, come la geometrica semplicità e perfezione di una linea retta occorre assicurarsi di avere un piano ben organizzato e strutturato e perfetto, come una linea retta, per bilanciare la creatività affinché essa non ci porti fuori strada. Nafish, SERENITÀ: è inoltre necessario fare un passo indietro, rilassarsi e ripensare i nostri piani e i nostri obiettivi in uno stato d’animo più sereno e tranquillo possibile. Non dobbiamo permettere che il nostro umore, le nostre emozioni altalenanti, circoscrivano i nostri importanti obiettivi della vita; occorre assicurarsi di aver serenamente interiorizzato la nostra determinazione a perseguire i nostri progetti. Kèdma, PRIMA: ma quando si arriva alla conclusione che questa è la strada giusta, è necessario buttarsi a capofitto (senza serenità) nel progetto e non consentire che i molti ostacoli lungo la strada sabotino l’esecuzione dei nostri sogni. Occorre convincersi e sussurrarsi: Vai avanti! Sii il primo e anticipa il gioco. Se si rimanda e si procrastina, qualcun altro ci batterà. Così abbiamo il programma in 12 passi di Ismaele verso una buona vita: 1) corpo pulito, esercizio fisico, nutrizione adeguata e piccole gioie; 2) ascolto, silenzio e tolleranza; 3) pensare fuori dagli schemi, essere fiduciosi, organizzarsi, riflettere sulla strategia e non voltarsi indietro. Evitare La Caduta Quando riflettiamo su queste 12 tappe, notiamo che un elemento cruciale forse l’elemento più importante manca dall’impressionante lista derivata dai nomi dei figli di Ismaele: il significato, lo scopo della nostra esistenza. La vita umana ha bisogno di uno scopo. Quando siamo privi di uno scopo interiore, è estremamente difficile mantenere anche solo una di queste 12 tappe le quali richiedono molta disciplina e concentrazione. A un certo punto è inevitabile fermarsi e chiedersi: Qual è lo scopo di tutto questo?” A questa domanda non si può rispondere con le lezioni di un personal trainer, la conoscenza di come relazionarsi con gli altri o la capacità di essere concentrati, determinati e lavorare fino a tardi. Per questo basilare motivo la Torà conclude il racconto di questi 12 figli affermando: Sono caduti in presenza dei loro fratelli. Anche la vita più equilibrata nella salute, relazioni sociali e nel lavoro, se è priva di significato interiore, di uno scopo essenziale potrebbe portare la persona a sbagliare e a fallire. Se manca l’ossigeno se manca la capacità di scendere nelle profondità dell’essenza della vita, che mantiene la persona ispirata e motivata a vivere bene, è difficile garantire che il proprio percorso in questo modo si incanali per i giusti scopi e non per obiettivi inutili o dannosi. I dodici passi di Ismaele catturano uno strato importante, ma superficiale dell’esistenza. Ci dice come vivere all’interno dei ritmi della natura e della biologia. Qui la Torà non ci sta insegnando come trascendere la natura. Per questo avremo in seguito i nomi delle dodici tribù, i dodici figli di Giacobbe, i cui nomi rappresentano il vero progetto per vivere e non solo per una vita fine ed equilibrata, ma anche per vivere con il Divino, con la misteriosa essenza che è nascosta nella realtà. Questo è il vero scopo della creazione del mondo che è la missione di Giacobbe e suoi dodici figli! Tratto da uno scritto di Y.Y. Jacobson basato sul commento di Mei Hasheluakh (Rav Mordechai Yosef Leiner di Ishbitz) 

LA GIUSTA COMPAGNIA

 

Eli’èzer e la sua carovana partono per Aràm. Si fermano presso un pozzo, alla periferia di Kharàn, la città di Nakhòr, fratello di Avrahàm, mentre delle donne stanno attingendo l’acqua da un pozzo. Eli’èzer, prega Hashèm di guidarlo verso la donna giusta per Yitzkhàk, quella disposta ad accogliere la sua richiesta di attingere l’acqua dal pozzo, per lui e il suo seguito.

La Benevolenza

[Eli’èzer pregò] «Fai in modo che la ragazza alla quale dirò: “Inclina la tua brocca perché io beva” e che dirà: “Bevi e io abbevererò anche i tuoi cammelli”, sarà quella che Tu avrai designato per il Tuo servo Yitzkhàk. (24, 14)

Dato che ad Hashèm non manca nulla, la generosità è il modo principale con cui Lui si relaziona con il mondo. Per la stessa ragione, la generosità è il marchio naturale delle persone che si sentono strettamente collegate ad Hashèm. Al contrario, il segno distintivo del male è l’egoismo. Per quante cose una persona malvagia possa possedere nella vita rimarrà sempre insoddisfatta poiché si stacca dalla natura divina, e il suo ego lo spinge solo a prendere e mai dare. 

Perciò, Eli’èzer cerca una donna per Yitzkhàk che mostri gentilezza. Quando Rivkà va oltre, nell’adempiere alla specifica richiesta di Eli’èzer, offrendosi anche di abbeverare i suoi cammelli, capisce che lei è una persona timorata di Hashèm e quindi una moglie perfetta per il figlio di Avrahàm. Dimostrando gentilezza verso il prossimo, anche noi veniamo “accoppiati” con “partner migliori”, che siano anime gemelle, amici, soci in affari e attività nella vita.

Un caro Shabbat Shalom           Rav Shlomo Bekhor

Anche questa settimana vi proponiamo un estratto della parashà tratto dal libro “Saggezza Quotidiana” fondato sugli insegnamenti del Rebbe e dei suoi predecessori.

Il nome della quinta porzione del libro della Genesi è tratto dalle sue prime parole, “La vita di Sarà – Khayè Sarà” e inizia con la morte e la sepoltura della matriarca. Il racconto prosegue con il servitore di Avrahàm, Eli’èzer che promette di far sposare la pronipote di Avrahàm, Rivkà (Rebecca), con Yitzkhàk, figlio del suo padrone. Questo racconto è seguito da quello del matrimonio di Yitzkhàk e Rivkà e dalle fasi conclusive della vita di Avrahàm: il nuovo matrimonio con Hagàr, la sua morte e l’allontanamento di suo figlio Yishmaèl dalla sua famiglia e dalla propria missione divina.

Il brano scelto per voi quest’oggi ci insegna l’importanza di avere sempre fiducia in Hashèm e di essere generosi. Chi si comporta in tale modo verrà sempre ripagato con la cosa più importante per la vita umana: “la giusta compagnia”.

Eli’èzer e la sua carovana partono per Aràm. Si fermano presso un pozzo, alla periferia di Kharàn, la città di Nakhòr, fratello di Avrahàm, mentre delle donne stanno attingendo l’acqua da un pozzo. Eli’èzer, prega Hashèm di guidarlo verso la donna giusta per Yitzkhàk, quella disposta ad accogliere la sua richiesta di attingere l’acqua dal pozzo, per lui e il suo seguito.

La Benevolenza
[Eli’èzer pregò] «Fai in modo che la ragazza alla quale dirò: “Inclina la tua brocca perché io beva” e che dirà: “Bevi e io abbevererò anche i tuoi cammelli”, sarà quella che Tu avrai designato per il Tuo servo Yitzkhàk. (24, 14)

Dato che ad Hashèm non manca nulla, la generosità è il modo principale con cui Lui si relaziona con il mondo. Per la stessa ragione, la generosità è il marchio naturale delle persone che si sentono strettamente collegate ad Hashèm. Al contrario, il segno distintivo del male è l’egoismo. Per quante cose una persona malvagia possa possedere nella vita rimarrà sempre insoddisfatta poiché si stacca dalla natura divina, e il suo ego lo spinge solo a prendere e mai dare.
Perciò, Eli’èzer cerca una donna per Yitzkhàk che mostri gentilezza. Quando Rivkà va oltre, nell’adempiere alla specifica richiesta di Eli’èzer, offrendosi anche di abbeverare i suoi cammelli, capisce che lei è una persona timorata di Hashèm e quindi una moglie perfetta per il figlio di Avrahàm. Dimostrando gentilezza verso il prossimo, anche noi veniamo “accoppiati” con “partner migliori”, che siano anime gemelle, amici, soci in affari e attività nella vita.

Un caro Shabbàt Shalom

Rav Shlomo Bekhor

Il Primo Programma di Life Coaching della Storia in 12 Passaggi
E il Perché non ha Funzionato?

Suddivisione dei Figli
Non sarebbe una cattiva idea per i discendenti contemporanei di Yishmaèl (Ismaele) e per tutti noi riflettere sui singoli nomi dei suoi 12 figli che divennero tutti prìncipi e padri delle nazioni ismaelite. Come è scritto nella Torà, nella porzione di questa settimana, Khayè Sarà – La Vita di Sarà, (Genesi 25, 13 – 18): Questi sono i nomi dei figli di Yishmaèl secondo i loro nomi in ordine di nascita. Poi la Torà continua elencando nomi dei figli dividendoli in tre gruppi, in tre versetti separati. Ogni divisione nella Torà non è casuale!
Primo gruppo di 4 figli: Il primogenito di Ismaele era Nevayòt (che poi ebbe) Kedàr, Adbeèl, Mivsàm”. Secondo gruppo di 3 figli: Mishmà, Dumà e Massà. Infine, la Torà elenca i 5 figli dell’ultimo gruppo: Khadàd, Temà, Yetùr, Nafish e Kèdma.
La Torà prosegue con il raccontare in che zona del Medio Oriente si insediano e conclude, nell’ultimo versetto della parashà, con una frase dal significato stranamente ambiguo: “Sono CADUTI in presenza di tutti i loro fratelli”. Così il grande commentatore della Torà Abrahàm ibn ‛Ezra traduce la parola ebraica “nafàl” letteralmente, che vuole dire “caduta”.
La Torà non è un libro di storie bensì un manuale di vita, perciò cosa dovrebbe insegnarci questo episodio? È un semplice dettaglio incidentale? Sicuramente no, poiché, la Torà non include dettagli incidentali, neanche di una genealogia. Anche se la Torà registra molti fatti genealogici e storici, non è fondamentalmente un libro di storia o genealogia, ma come indica il suo stesso nome, Torà-horaà, è un libro di istruzioni-horaà, leggi al fine di progettare e indirizzare la vita degli uomini. La registrazione dei familiari di Ismaele, quindi, non è solo una registrazione di meri fatti genealogici. Piuttosto, come ogni frase e parola presente nella Torà, anche l’elenco dei figli di Ismaele fa parte di una sorta di tabella di marcia per il nostro viaggio in questo mondo chiamato vita. Pertanto possiamo chiederci, ma qual è la rilevanza dei 12 nomi dei figli di Ismaele? Perché lui ha dato ai suoi figli questi nomi particolari? E infine, perché nella Torà i 12 nomi sono suddivisi in tre distinti gruppi numericamente diversi: un gruppo da quattro, uno da tre e l’ultimo da cinque?

Il Primo Programma Di Vita In Dodici Passaggi
La risposta la troviamo utilizzando i quattro livelli o metodologie ermeneutiche di esegesi della Torà nell’ebraismo: con Peshàt s’intende il significato semplice o contestuale del testo; Rèmez è il significato allegorico; Deràsh include il significato metaforico e Sod rappresenta il significato nascosto.
Quindi partendo dalla spiegazione Rèmez, ovvero allegorica con l’indispensabile ausilio dei significati nascosti, riportiamo gli insegnamenti di grandi maestri per spiegare come questi nomi rappresentano il programma verso una vita sana e ben bilanciata in 12 tappe. La guida di Ismaele al buon vivere copre le tre componenti principali della vita: la salute, le relazioni e il lavoro.

PRIMA CATEGORIA
A) SALUTE. Il primo gruppo dei figli di Ismaele, composto da quattro nomi, rappresenta la parte dedicata ai quattro passaggi verso una buona salute:

1) Nevayòt: questo nome in ebraico significa VUOTO (cf Esodo 27, 8). Ciò indica la necessità di mantenere il corpo (visto come una sorta di vaso) pulito dal cibo spazzatura e dalle sostanze dannose per l’organismo umano. Il corpo non è un bidone della spazzatura. Il corpo deve rimanere pulito, libero e leggero, limpido e pieno di vivacità ed energia.
2) Kedàr: il significato della parola ebraica Kedàr è CALORE. Questo rappresenta la necessità di fare regolarmente degli esercizi fisici per mantenere una temperatura corporea adeguatamente calda per avere una buona circolazione sanguigna.
3) Adbeèl: il significato di questo nome è NON ABBUFFARSI. Anche se si mangiano alimenti nutrienti e sani si dovrebbe consumare solo la quantità necessaria per la nostra salute, senza esagerare.
4) Mivsàm: la traduzione ebraica di questo nome è SPEZIE. Oltre alle buone abitudini alimentari e all’esercizio fisico regolare, si dovrebbero aggiungere un po’ di spezie e di condimento alla nostra vita fisica, arricchendola e dandole brio e gioia. Questo si ottiene godendoci a volte la vita, senza esagerare (vedi sopra) e sapendoci concedere dei momenti dove possiamo mangiare cibi di qualità, bere bevande pregiate, frequentare splendidi luoghi all’aria fresca della natura e godere dei suoi profumi, ecc.

SECONDA CATEGORIA
B) RELAZIONI. Il secondo gruppo dei tre figli di Ismaele rappresenta la guida in tre passaggi verso relazioni efficaci, sia in casa, sia nel lavoro.

1) Mishmà: nome che significa ASCOLTARE, prestare attenzione, ossia coltivare l’abilità di ascoltare veramente un altro essere umano, questo è il fondamento di ogni relazione.
2) Dumà: nome che significa SILENZIO. Il secondo passo verso la creazione di un buon rapporto consiste nella capacità di rimanere in silenzio. Non sempre è necessario rispondere alle critiche del nostro coniuge; o non sempre occorre dare una risposta a una domanda che ci rivolgono. A volte è bene rimanere in silenzio. Non bisogna sentirsi morire se non spariamo la prima risposta che ci viene in mente. Il nostro silenzio, a volte, può anche concederci un’intuizione inaspettata. Le persone di successo, infatti, ascoltano più di quanto parlino.
3) Massà: nome che letteralmente significa “FARDELLO”. Esso simboleggia il terzo passo essenziale nello sviluppo di relazioni equilibrate che resistono al trascorrere del tempo, vale a dire la pazienza e la tolleranza. La capacità di tollerare e contenere i fardelli, i pesi di un altro essere umano, per quanto possono essere imperfetti e viziati.

TERZA CATEGORIA
C) LAVORO E PRODUTTIVITÀ. Una volta che la salute del nostro corpo e le nostre relazioni sono in ordine, possiamo affrontare il terzo livello rappresentato dal gruppo finale dei cinque figli di Ismaele. Quest’ultima è la parte del programma in dodici tappe che affronta in cinque fasi/nomi le problematiche del lavoro e della produttività. Diversamente dalle precedenti due aree tematiche, i cinque nomi devono essere letti e compresi in un’unica sequenza: Khadàd in aramaico significa novità; Temà indica meraviglia; Yetùr è una linea retta; Nafish significa serenità; infine, Kèdma significa prima e davanti (Questo è il motivo per cui est è chiamato Kedem in lingua ebraica, dal momento che il sole prima sorge lì). Questo è il programma in cinque passaggi di Ismaele verso il lavoro e il successo:

1) Khadàd, NOVITÀ: In primo luogo, occorre essere molto motivati per intraprendere un percorso nuovo e originale, la proverbiale strada poco battuta. In quanto bisogna superare la paura del fallimento ed essere pronti a correre rischi per aprire nuovi orizzonti. Superare anche la paura di non essere originali e creativi.
Temà, MERAVIGLIA: eppure ogni pioniere e imprenditore incontrerà delle resistenze. Le persone intorno a noi inevitabilmente alzeranno le spalle con stupore e meraviglia (Tema), criticandoci per le nostre fantasie irrealistiche, per l’arroganza giovanile o per la nostra stupidità e immaturità. Molti prevedranno e auspicheranno il nostro fallimento. E noi cosa facciamo, come ci comportiamo?
Yetùr LA LINEA RETTA: a questo punto, come la geometrica semplicità e perfezione di una linea retta occorre assicurarsi di avere un piano ben organizzato e strutturato e perfetto, come una linea retta, per bilanciare la creatività affinché essa non ci porti fuori strada.
Nafish, SERENITÀ: è inoltre necessario fare un passo indietro, rilassarsi e ripensare i nostri piani e i nostri obiettivi in uno stato d’animo più sereno e tranquillo possibile. Non dobbiamo permettere che il nostro umore, le nostre emozioni altalenanti, circoscrivano i nostri importanti obiettivi della vita; occorre assicurarsi di aver serenamente interiorizzato la nostra determinazione a perseguire i nostri progetti.
Kèdma, PRIMA: ma quando si arriva alla conclusione che questa è la strada giusta, è necessario buttarsi a capofitto (senza serenità) nel progetto e non consentire che i molti ostacoli lungo la strada sabotino l’esecuzione dei nostri sogni. Occorre convincersi e sussurrarsi: Vai avanti! Sii il primo e anticipa il gioco. Se si rimanda e si procrastina, qualcun altro ci batterà.

Così abbiamo il programma in 12 passi di Ismaele verso una buona vita: 1) corpo pulito, esercizio fisico, nutrizione adeguata e piccole gioie; 2) ascolto, silenzio e tolleranza; 3) pensare fuori dagli schemi, essere fiduciosi, organizzarsi, riflettere sulla strategia e non voltarsi indietro.

Evitare La Caduta
Quando riflettiamo su queste 12 tappe, notiamo che un elemento cruciale forse l’elemento più importante manca dall’impressionante lista derivata dai nomi dei figli di Ismaele: il significato, lo scopo della nostra esistenza. La vita umana ha bisogno di uno scopo. Quando siamo privi di uno scopo interiore, è estremamente difficile mantenere anche solo una di queste 12 tappe le quali richiedono molta disciplina e concentrazione. A un certo punto è inevitabile fermarsi e chiedersi: Qual è lo scopo di tutto questo?” A questa domanda non si può rispondere con le lezioni di un personal trainer, la conoscenza di come relazionarsi con gli altri o la capacità di essere concentrati, determinati e lavorare fino a tardi.
Per questo basilare motivo la Torà conclude il racconto di questi 12 figli affermando: Sono caduti in presenza dei loro fratelli. Anche la vita più equilibrata nella salute, relazioni sociali e nel lavoro, se è priva di significato interiore, di uno scopo essenziale potrebbe portare la persona a sbagliare e a fallire. Se manca l’ossigeno se manca la capacità di scendere nelle profondità dell’essenza della vita, che mantiene la persona ispirata e motivata a vivere bene, è difficile garantire che il proprio percorso in questo modo si incanali per i giusti scopi e non per obiettivi inutili o dannosi.
I dodici passi di Ismaele catturano uno strato importante, ma superficiale dell’esistenza. Ci dice come vivere all’interno dei ritmi della natura e della biologia.
Qui la Torà non ci sta insegnando come trascendere la natura. Per questo avremo in seguito i nomi delle dodici tribù, i dodici figli di Giacobbe, i cui nomi rappresentano il vero progetto per vivere e non solo per una vita fine ed equilibrata, ma anche per vivere con il Divino, con la misteriosa essenza che è nascosta nella realtà.
Questo è il vero scopo della creazione del mondo che è la missione di Giacobbe e suoi dodici figli!

Tratto da uno scritto di Y.Y. Jacobson basato sul commento di Mei Hasheluakh (Rav Mordechai Yosef Leiner di Ishbitz)

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5° Khayè Sarà: COME VINCE ELIEZER IL SUO CONFLITTO INTERIORE?
Conoscere ed Esternare i Problemi per Risolverli

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Nella porzione della Torà di questa settimana, Khayè Sarà (Bereshìt 24, 1), è scritto che “Avrahàm (Abramo) era anziano e avanzato nei giorni”. Questo passo della Genesi ci permette di capire come il nostro Patriarca ha usato ogni giorno della sua vita al meglio. Analogamente, noi possiamo imparare come usare i nostri giorni al meglio e capire come essi ci preparano per la vita del Mondo a venire, o “Paradiso”.
Viene insegnato (Mishnà Avòt 4:17), “[Anche] un momento di pentimento e buone azioni in questo mondo è superiore all’intera vita del Mondo a venire”.
Eppure questo concetto sembra commentato in modo strano nell’ importante testo Chassidico Ighèret Hakòdesh 29, dove si afferma che – in relazione al Paradiso dove i giusti si crogiolano nel piacere dello splendore della Presenza Divina – la funzione del pentimento e delle buone azioni è che essi si trasformano in “indumenti spirituali” che consentono all’anima di resistere alla “radiosità della Divina Presenza” con la quale sarà premiata nel Mondo a venire.
In effetti, lo Zohar afferma – commentando la frase “…avanzato nei giorni” citata sopra – “Nei “giorni” superni [spirituali] guai alla persona che manca nei “giorni” nel Mondo a Venire, perché quando avrà bisogno di vestirsi con quei “giorni”, il “giorno” che ha danneggiato [nella vita] mancherà a quell’indumento”.
Queste affermazioni sembrano implicare che la cosa principale è il Mondo a Venire, poiché questo mondo serve solo come preparazione, come luogo per ottenere gli “strumenti” necessari, per così dire, per la vita in Paradiso. In tal caso, qual è il significato dell’insegnamento che “anche un solo momento di pentimento e buone azioni in questo mondo è superiore all’intera vita del Mondo a Venire”?
(continua sotto)

Ti riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.

Shabbat Shalom

Rav Shlomo Bekhor

Virtual Yeshiva
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KHAYE SARA
Nuova lezione atomica 20/11/2019 parasha 5° Khayè Sarà
COME VINCE ELIEZER IL SUO CONFLITTO INTERIORE?
Conoscere ed Esternare i Problemi per Risolverli
Nella Torà alcune lettere, vocali e melodie rappresentano un diverso mondo spirituale, dei tre mondi creati, ossia ognuna di esse rivela un differente aspetto della Torà: alcune dimensioni vengono rivelate solo nelle melodie, alter nelle lettere o nelle vocalizzazioni.
Tra le melodie-taamìm della Torà ne troviamo una molto strana, “in tutti i sensi”, lo SHALSHÈLET, una nota insolita: va su e giù, su e giù, come se non fosse in grado di passare alla nota successiva. La forma strana, il suono unico e ancora più strano è che in tutta la Torà questa nota compare solo 4 volte.
Fu il grande commentatore rabbino Joseph Ibn Caspi (autore di 28 libri sulla filologia della Torà) del XVI secolo (nel suo commento a Bereshìt 19, 16) a capire bene il significato che essa trasmette, vale a dire uno stato psicologico di incertezza e indecisione.
La notazione grafica di SHALSHÈLET sembra una sequenza di lampi, un movimento a zig-zag, un segno che va ripetutamente avanti e indietro. Trasmette un movimento congelato – in cui il protagonista è lacerato dal conflitto interiore:
LO SHALSHÈLET È LA MUSICA DELL’AMBIVALENZA.
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Al seguente link troverai la pagina web con la lezione sulla nostra parashà:
dal seguente link si può scaricare il file audio immediatamente, senza aprire la pagina web:
COME TROVARE L’ANIMA GEMELLA?
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UNA VITA PARADISIACA

(continua da sopra)
Per capire la risposta, dobbiamo prima discutere su cosa si intende per “radianza della Divina Presenza” con cui le anime si dilettano in Cielo e cosa si intende con l’insegnamento che il pentimento e le buone azioni in questo mondo si trasformano in “abiti” che consentono all’anima di resistere a tale splendore.
Esiste, infatti, una differenza fondamentale nel grado di rivelazione del Divino tra questo mondo e il Mondo a Venire. Non dovrebbe sorprenderci che la rivelazione di Hashèm sia palese nel Mondo a Venire. D’altra parte, la Sua presenza si fa sentire anche in questo mondo; in effetti Lui è la forza spirituale che porta in essere l’universo e senza il quale nulla potrebbe esistere. Tuttavia, la bontà Divina in questo mondo è completamente nascosta: si possono vedere gli effetti della presenza di Hashèm, non si può “vedere” la Sua presenza ed essenza in modo palese.
Per comprendere meglio la maniera in cui Hashèm anima questo mondo, essa può essere paragonata a come l’anima interagisce con il corpo. Tutte le funzioni del corpo sono “potenziate”, per così dire, dall’anima: se la mano si muove, se l’occhio vede, o la bocca parla ecc.; la capacità di fare ciò, è il risultato della vitalità dell’anima, che permea ogni organo e lo pervade delle sue abilità particolari.
Tuttavia, è chiaro che l’anima stessa non è divisibile in organi. L’anima non ha “componente occhio, mano” ecc.; è un’entità puramente spirituale alla quale non si possono attribuire facoltà come la vista o la parola. Forse si può paragonare, questo rapporto con quello che intercorre, ad esempio, tra una batteria e lo smartphone, dove ogni parte di tale dispositivo è costruita in modo da facilitare la sua particolare funzione: lo schermo, i tasti, i circuiti ecc. Comunque, nessuna di queste componenti potrebbe funzionare da sola! Tutte hanno bisogno di energia, della batteria! È da questa che l’energia fluisce in ogni parte e consente a ogni singola sezione di svolgere la funzione per la quale è stata costruita. Tuttavia non si può dire che la batteria stessa abbia una di queste funzioni.
Questo è il motivo per cui la Torà dice (Isaia 6, 3): “Tutta la terra è piena (dello splendore) della sua gloria”. La cosa importante da capire in questo versetto è che ciò che riempie la terra non si può nemmeno dire che sia la gloria di Hashèm in sé, ma è solo un suo riflesso. Hashèm nella Sua essenza è così esaltato al di sopra della creazione che tutto ciò che gli essere creati possono percepire è “solo” un riflesso oscuro della sua gloria e nulla più.
Questo è ciò che il Talmud intende con l’espressione (Meghillà 31a): “Nel Suo alto luogo in cui trovi la grandezza di Hashèm, lì trovi la Sua UMILTÀ”. La gente pensa che Hashèm sia “fantastico”, perché ha creato questo universo vasto e maestoso. Questo è un errore fondamentale! La “grandezza” di Hashèm stesso è qualcosa che noi mortali siamo assolutamente inadeguati a comprendere. Certamente Hashèm è “grande” – sebbene in un modo al di là della nostra comprensione – ma la sua grandezza non deriva dall’aver creato l’universo. Questo sembra solo una “difficoltà” per noi, ma per Dio è letteralmente “niente”. Invece, quando lodiamo Hashèm per aver creato l’universo, anche se abbiamo in mente tutto il meraviglioso splendore della creazione, ciò che stiamo veramente facendo è lodare Dio per essersi “abbassato”: si è reso “umile”, per così dire, nell’utilizzare anche solo una minima parte della sua forza creativa in ciò che, per Lui, è assolutamente insignificante. Non è la grandezza di Hashèm, ma “l’umiltà” di Dio, – il fatto che Egli si abbassa per il nostro bene – che è messo in evidenza dalla contemplazione anche degli più aspetti più impressionanti della creazione. Pertanto la frase del Talmud, “Nel posto in cui trova la sua grandezza, lì trovi la Sua umiltà” non esprime altro che la Sua volontà di “abbassarsi” a quel livello: Il vero “Sé” di Hashèm, per così dire, semplicemente non è rivelato in questo mondo.
Dio e il “Mondo Futuro”
Al contrario, nel mondo a venire, il piacere che le anime provano dal “crogiolarsi nel fulgore della Presenza Divina” deriva dal fatto di poter apertamente percepire, non Hashèm stesso, ovviamente, ma la luce che “irradiata” da Hashèm che dà vita a tutti e tutto.
Ora, possiamo capire un ulteriore punto. Come è possibile che una anima – un’entità emanata – sia in grado di percepire e comprendere l’essenza stessa della Divinità? È vero, l’anima è “una parte di Hashèm in cielo”, ma lo è più per quanto riguarda l’origine e la fonte spirituali dell’anima che quando l’anima abita un corpo, anche mentre si crogiola nella radiosità della Presenza Divina.
La risposta la troviamo nello studio della Torà e nell’osservanza pratica delle mitzvòt (“buone azioni”) che in questo mondo consentono a una persona di mettersi in relazione con le rivelazioni spirituali del Mondo a venire. Le mitzvòt sono la volontà di Hashèm: abbiamo messo i Tefillìn, perché è la Sua volontà; facciamo beneficenza per lo stesso motivo, ecc.
Ora, come spiegato altrove, Hashèm non ha un “corpo”, ovviamente, tuttavia, ci ha creati in modo tale che, attraverso la Torà possiamo arrivare a capire qualcosa di Lui. In particolare la “volontà”, l’aspetto più alto di una persona, trascende tutte le altre facoltà, anche quella elevata della “ragione”. Una persona, infatti non ha bisogno di una ragione logica per desiderare qualcosa, poiché semplicemente la vuole. Qui si parla dei veri desideri innati (vivere, avere una casa, avere un coniuge, procreare) che sono al di sopra della logica e non hanno bisogno di essere spiegati o razionalizzati, come spiegato ampiamente nella chassidùt.
Quindi, quando si afferma che le mitzvòt sono la “volontà” di Hashèm, si intende che la loro fonte spirituale è l’aspetto più alto della bontà Divina. Tuttavia, paradossalmente, questa alta spiritualità si esprime in forma pratica, fisica: la mitzvà dei tefillìn, ad esempio, richiede della pelle bovina legata al braccio e alla testa; gli tzitzìt sono fatti di lana di pecora e così via… anche per le altre miztvòt.
Questo paradosso rappresenta il fatto che le mitzvòt consentono di collegarsi con Hashèm stesso. La “volontà” di Dio – la fonte delle mitzvòt – è la stessa cosa con Hashèm stesso, ed è inesprimibilmente superiore alla mera rivelazione della benignità chiamata “ziv Shekhinà”, la radiosità, o splendore, della Divina Presenza. Esprimendo la volontà di Hashèm nell’osservare le mitzvòt – in particolare quelle che comportano un’azione fisica – ci uniamo a Hashèm con un’unità meravigliosa e potente che non ha paragoni in nessun fenomeno terrestre, e molto di più, anche di quello che può essere sperimentato in cielo. Nel Mondo a venire, le anime sono esposte solo alla radiosità della Presenza Divina, mentre in questo mondo abbiamo l’opportunità inestimabile di eseguire concretamente le mitzvòt e quindi essere legati e uniti al Sé di Dio.
Questo spiega perché i nostri Saggi insegnano che: “Anche un momento di pentimento e buone azioni in questo mondo è superiore all’intera vita del Mondo a venire”. Tuttavia, in un altro senso, il Mondo a venire ha un vantaggio su questo mondo: qui, non possiamo avvertire la luce Divina con cui ci stiamo unendo attraverso la Torà e le mitzvòt; sarebbe impossibile resistere a essa. Nel mondo a venire, invece, lo splendore della divinità è letteralmente percettibile, il che provoca la grande gioia delle anime quando si trovano in quel luogo santo. Ed è proprio il fatto che quelle anime hanno precedentemente trascorso del tempo in questo mondo, impegnate nell’osservanza della Torà e delle mitzvòt, che consente loro, sebbene entità emanate, di resistere a quella rivelazione. Perciò le mitzvòt formano una sorta di involucro, o indumento, attorno all’anima che gli consente di “sopravvivere” all’esposizione diretta alla bontà divina.
Unirci a Hashèm
Ora, in un’altra prospettiva, viene insegnato che l’amore e il timore di Hashèm che hanno motivato una persona mentre eseguiva le mitzvòt sono come “ali” che servono per elevare e portare in cielo la cosa più importante: le mitzvòt stesse. Questo concetto possiamo comprenderlo alla luce di ciò che abbiamo detto sopra, vale a dire, che le mitzvòt ci uniscono letteralmente a Hashèm stesso. Perché, come discusso sopra, il verso “Tutta la terra è piena della sua gloria” implica che solo la “gloria” di Hashèm, ma non Dio stesso, è racchiuso in questo mondo. Quindi, è altrettanto vero che non c’è certamente posto in Paradiso o in terra privo di Hashèm stesso. In effetti, accanto a Lui, non esiste nient’altro (anche il suo “splendore”). In modo simile si può parlare della “luce solare” solo quando brilla sulla terra, ma alla sua fonte – nel globo del sole – c’è una cosa sola: il sole, non la “luce del sole”. Tuttavia, come spiegato sopra, gli esseri creati sono capaci di percepire, almeno, un riflesso della “gloria” di Hashèm, e questo è ciò che si intende dicendo che l’intero mondo è pieno di quel riflesso.
Una persona ha la capacità di trascendere i limiti e i vincoli di questo mondo, nel senso che, conoscendo che l’Essenza stessa di Hashèm è ovunque (anche se non possiamo percepirla), possiamo desiderare ardentemente di unirci con quella essenza per non rimanere impantanati nella limitata percezione di Dio altrimenti a noi disponibile.
Quindi l’impulso per lo studio della Torà e l’osservanza delle mitzvòt sono le nostre “ali” che elevano il nostro servizio di Hashèm fino al punto in cui esso è eseguito – senza nessun motivo apparente – ma semplicemente per adempiere alla Sua volontà. E questo a sua volta unisce la persona con Hashèm stesso.
Da quanto sopra, emerge che lo studio della Torà e l’osservanza delle mitzvòt in questo mondo sono prerequisiti necessari affinché l’anima raggiunga il suo potenziale di illuminazione spirituale nel Mondo a Venire. Questo è ciò che si intende con l’affermazione che i “giorni” di questa vita formano le “vesti” di cui l’anima avrà bisogno in Cielo: ogni giorno, una persona ha un certo progresso spirituale da compiere, così che nel corso della sua vita, lui o lei avrà completamente “vestito” l’anima. E questa è l’allusione dell’affermazione secondo cui Abramo era “avanzato nei giorni”, ossia ha sfruttato appieno i suoi giorni nel loro massimo potenziale spirituale, creando un abito completo per la sua anima.
Che Hashèm, nella sua infinita bontà, ci consenta di realizzare le nostre massime potenzialità in tutti i giorni della nostra vita così da anticipare, presto ai nostri giorni, l’arrivo di Mashiàkh.
La porzione di Torà di questa settimana inizia con la triste storia della scomparsa della prima matriarca ebraica: Sarà.
Suo marito Abramo inizia a cercare un luogo di sepoltura per Sarà, per se stesso e per le future coppie di patriarchi e matriarche del popolo ebraico (Genesi 23). Abramo negozia un accordo con un uomo chiamato Efron, a cui paga un’enorme quantità di denaro, ben 400 Shekalim (equivalenti al valore di 9.120 grammi di argento puro), per un campo a Hebron, su cui sorgeva la “caverna di Makhpelà” o la “caverna doppia” (così chiamata poiché era una grotta adatta per la sepoltura delle coppie).
Proprio come programmato da Abramo, i patriarchi e le matriarche (eccetto Rakhel) di Israele furono sepolti in quella grotta: Sarà, Abramo, Rebecca, Isacco, Lea e Giacobbe.
L’edificio costruito su di essa rimane, fino ad oggi, uno dei luoghi più sacri dell’ebraismo ed è anche tenuto in alta stima dai musulmani. Immediatamente dopo questa storia, la Torà narra di come Isacco incontra e sposa la sua anima gemella Rebecca. Questa è la sezione della Torà conosciuta come “la porzione dei matrimoni”, poiché viene letta, in molte comunità sefardite, prima di uno sposalizio.
Confronti Paradossali!
La sequenza degli eventi è un punto cruciale nella Torà: servono sempre a dimostrare una tesi o ispirare un ideale. Come possiamo apprezzare la contrapposizione tra questi temi paradossali: la morte e la sepoltura di Sarà nella “grotta di Makhpelà” e l’unione della vita di Isacco e Rebecca; un evento triste accanto alla gioia massima?
Quando Mosè presentò la Torà al popolo ebraico, diede loro anche un’interpretazione orale, per chiarire e spiegare le parti più controverse ed enigmatiche. Questa tradizione orale è stata successivamente documentata nella Mishnà e nel Talmud.
Il matrimonio è una di quelle parti della Torà non chiare che richiedono un’interpretazione.
La Torà parla di “un uomo che sposa una donna”, ma non specifica i mezzi legali per contrarre il matrimonio. Il Talmud ci offre la possibilità, attraverso la tradizione orale, di colmare il divario. Una simile espressione, usata quando si parla del matrimonio, si trova anche nella Torà quando si narra dell’acquisto della grotta di Makhpelà da parte di Abramo. Attraverso un classico metodo d’interpretazione della Torà, conosciuto come “gzerà shavà” (due casi, apparentemente distinti, possono essere confrontati quando una parola simile è usata in entrambi), possiamo mettere in analogia le due parti: proprio come Abramo ha acquistato il campo e la grotta per mezzo del denaro; così anche uno sposo deve dare denaro o un oggetto di valore alla sua sposa, per rendere legalmente valido il matrimonio.
Fino ad oggi, questa legge è la base di ogni matrimonio ebraico. Quando lo sposo pone l’anello sul dito della sua sposa e dichiara “sei santificata a me…” l’uomo e la donna entrano nell’alleanza del matrimonio. Perché proprio questo rito? Perché esso deriva dalla formula legale utilizzata da Abramo per acquistare la grotta di Makhpelà tramite del denaro.
Questa è la classica metodologia talmudica, ben nota a qualsiasi studente. Eppure può sembrare strana, se non inappropriata. Perché deriviamo le leggi del matrimonio da una storia di morte e sepoltura? Come è possibile confrontare il fatto di trovare un coniuge con l’acquisto di una tomba? A un cinico, tutto questo, potrebbe ricordare una frase di Woody Allen: “Il matrimonio è la morte della speranza”. Il confronto è così strano e bizzarro che ci obbliga a guardare più in profondità, a guardare le “grotte” segrete dei nostri rapporti con gli altri.
La Torà e la Mistica ebraica parlano dell’esistenza di due dimensioni in ogni relazione: l’elemento palese, situato “sopra il suolo” e la componente nascosta, sepolta “sotto il suolo”, travestita e velata. Nel nostro lessico moderno possiamo definirli come relazioni consapevoli rispetto a quelle subconscie.
Il primo livello della relazione è creato da pensieri, emozioni e sentimenti coscienti: “Ti amo perché mi sento bene con te; ti amo perché ti percepisco come il partner della mia vita”. Cosa succede se questi potenti sentimenti scompaiono?
Anche la relazione, naturalmente, soffre. Quando la causa non c’è più, i suoi effetti seguiranno. Queste dinamiche sono comuni in molti matrimoni: quando la passione esplode allora l’amore arriva fino al cielo, l’unione è splendida e vibrante; ma quando le emozioni appassionate e le travolgenti attenzioni per l’altro si dissolvono, il legame si allenta e la fedeltà piano, piano scompare. La coppia può ancora essere sposata sulla carta; internamente, tuttavia, sono come divorziati purtroppo. A questo punto molti si domandano, perché non completare il processo e tagliare il legame anche ufficialmente? Chi stai ingannando?
Tuttavia la Torà e la Cabbalà si rivolgono anche a un altro aspetto della relazione: quella sepolta sottoterra, nelle grotte interne delle anime che si guardano “faccia a faccia” (panim el panim). Questa è la vera connessione di due anime gemelle legate assieme, non tanto perché consapevolmente sperimentano una relazione cosciente, ma piuttosto perché sono connesse intrinsecamente, indipendentemente dai sentimenti coscienti. Due metà hanno come unica ragione per unirsi il fatto che sono UNA SOLA entità che si è divisa in due, per cui l’unione è naturale e innata, senza bisogno di giustificazioni.
Un classico esempio è il rapporto tra genitori e figli. Il rapporto con la madre non è creato dai nostri coscienti sentimenti verso di lei; al contrario, i sentimenti verso la madre sono il risultato del nostro legame subconscio con lei. Nei suoi confronti possiamo anche provare sentimenti negativi o addirittura, a volte, dobbiamo difenderci da lei, ma nulla cambierà il fatto che lei è nostra madre, un pezzo della nostra essenza.
Sebbene su un piano diverso, la Torà attribuisce questa dimensione all’unione coniugale. Oltre al matrimonio cosciente, creato dalla scelta razionale ed emotiva di due adulti, c’è un altro livello dell’unione coniugale: una connessione sepolta “sotto il suolo”, che esiste nelle cantine subcoscienti delle psiche dell’uomo e della donna. Un marito e una moglie sono, nelle parole dello Zohar, “due metà di un’unica anima”. Il loro legame è intrinseco ed eterno, innato prima della nascita e quindi non può essere cancellato da nessuna causa: emotiva, intellettuale, economica…
Il legame che proviene dall’inconscio non è creato dalla nostra volontà cosciente; al contrario, i nostri sentimenti coscienti sono generati da questo aspetto nascosto e essenziale del rapporto, che ci lega insieme nelle “camere sotterranee” delle nostre anime.
Se il matrimonio incontra dei conflitti, i “compagni di anima” devono riflettere sul fatto che essi sono uniti nella loro essenza e che le divergenze, sebbene richiedono attenzione e riparazione, non possano compromettere un legame inscindibile.
Il Messaggio di Abramo
Questo è uno dei profondi significati sulla storia di Abramo che lavora duramente per acquistare una tomba di sepoltura per sua moglie e per lui. L’acquisto della grotta allude al “rapporto sotterraneo” che non cessa dopo la morte, poiché non inizia durante la vita. Un tale rapporto non si fonda sulle “spiegazioni” logiche, per giustificare il matrimonio, non risponde alle dinamiche messe in atto dal nostro cervello che tende, invece, a razionalizzare ogni scelta che facciamo.
Questo non significa che un vedovo o una vedova devono rimanere tali in eterno. Abramo stesso si risposa dopo la morte di Sarà e la Torà insegna che l’anima di un coniuge defunto desidera che il partner continui, in questo mondo, a vivere una vita felice e produttiva.
Spesso ciò richiede un nuovo legame matrimoniale. Tuttavia, In nessun modo un secondo matrimonio può rappresentare una mancanza di sensibilità o tradimento verso la memoria del coniuge defunto.
Questo è uno degli aspetti celati ed esoterici che sta dietro alla legge ebraica che confronta le nozze con l’acquisto di Abraham “della grotta”: quando uno sposo posiziona l’anello sul dito della sua sposa, la Torà “gli ricorda” che non sposa il coniuge solo ad un livello cosciente; ma che sta anche entrando in una relazione eterna con lei o lui. Con il matrimonio, l’uomo e la donna accedendo insieme alla “grotta” sepolta, nelle profonde stanze delle loro anime, dove l’unione è senza limiti di tempo o di spazio.
La khupà (baldacchino di nozze) non è solo un’unione di due persone; è anche una riunione di due metà che sono state separate temporaneamente con la discesa delle anime nei corpi fisici, ma in realtà sono anime gemelle.
Ciò spiega anche lo stretto legame tra l’episodio della sepoltura di Sarà e la storia del matrimonio di Isacco e Rebecca. A prima vista, la sequenza sembra essere di cattivo gusto. Tuttavia, dopo una profonda riflessione, il messaggio implicito è chiaro: prima di sposarsi occorre essere consapevoli che ci si sposa con il partner in eterno. Il divorzio non è un’opzione.
Occorre essere determinati che nessuna difficoltà avrà la forza di rompere questo legame. I due partner formano un CUORE UNICO. Il comportamento di Avraham, dopo la scomparsa di Sarà è servita come esempio e guida per Isacco e Rebecca, su come comportarsi nel matrimonio.
Isacco e Rebecca in futuro, come riferisce la Torà, avranno molte vicissitudini; alcune di queste avranno implicazioni storiche drammatiche. Tutte queste difficoltà non gli faranno mai perdere la fedeltà e la fiducia reciproca. Perché? Perché non hanno mai dimenticato la connessione che ha definito il loro rapporto “sotto il suolo”, negli strati subconsci delle loro anime.
La Metafora
Il matrimonio umano è una metafora per il matrimonio tra uomo e Dio. Anche questo matrimonio opera su due livelli. A volte il rapporto con Dio è sopra il suolo”, esposto e rivelato: cosciente, eccitante e arricchente. Ma cosa succede in un momento di “depressione” morale o spirituale? Come reagire quando si sente che il matrimonio con Dio è senza anima e senza vita o addirittura non si è neanche sicuri della sua esistenza?
In un simile momento bisogna ricordare il “rapporto della grotta”, il fatto che noi e Dio possediamo un rapporto nascosto che può essere anche non rivelato, ma è sempre presente. Questa è la scintilla nascosta incisa all’interno delle grotte profonde dell’anima che non potrà mai essere estinta.
Quest’unione non è così eccitante come il rapporto rivelato “sopra la terra”, ma è eterno e molto più solido con radici molto profonde.
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Questo saggio è basato su una lettera inviata dal Rebbe alla signora Sifrah Morozov, che ha perso il marito nella guerra di sei giorni del 1967 per consolarla della perdita del marito.
Questo a enfatizzare l’importanza del matrimonio come un “patto eterno” tra due anime che trascende anche i limiti imposti dalla morte.
(La lettera è pubblicata in Torat Menachem- vol. 2).

Questa Parashà tratta la sepoltura di Sarà che muore all’età di centoventisette anni. Avrahàm acquista a prezzo pieno la Me’aràt Hamakhpelà, a Khevròn, per seppellirvi la moglie. Narra inoltre del giuramento di Eli’èzer riguardante la ricerca della moglie per Yitzkhàk.
Rivkà incontra Yitzkhàk in campagna. Eli’èzer racconta i fatti al padrone Avrahàm e Rivkà viene condotta nella tenda di Sarà, ripristinando i miracoli che accadevano.
Ultimi eventi della vita di Avrahàm e la sua vecchiaia. Avrahàm sposa Keturà e genera altri figli, a cui dà abbondanti doni prima di mandarli via. Avrahàm muore all’età di centosettantacinque anni e viene sepolto anch’egli a Me’aràt Hamakhpelà.
Discendenza di Yshma’èl. Dodici capi. Morte di Yshma’èl.

MIDRASHIM

La Morte di Sarà Bereshit 23, 1-2.
Midrash Bereshìt Rabbà 58-60; Midràsh Haggadòl 23; Talmùd Berakhòt 16; Talmùd Shabbàt 30; Talmùd Sotà 7.
(a pagina 644 del volume Bereshìt edizioni M amash).

La Moglie Giusta Bereshìt 24, 42-45.
Midrash Bereshìt Rabbà 60; Midràsh Haggadòl 24.
(a pagina 646 del volume Bereshìt edizioni ).

SIKOT
La Vera Vita di Sarà.
(a pagina 710 del volume Bereshìt edizioni Mamash).
La Perfezione di Sarà.
(a pagina 712 del volume Bereshìt edizioni Mamash).

Al seguente link troverai la pagina web con la lezione sulla nostra parashà:
http://www.virtualyeshiva.it/2010/10/26/khaye-sara-5771-come-scoprire-il-nostro-inconscio/
dal seguente link si può scaricare il file audio immediatamente, senza aprire la pagina web:
http://www.virtualyeshiva.it/files/10_10_26_khayesara5771_scoprire_inconscio_eliezer_storiaduevolte.mp3

KHAYE SARA 5772: MATRIMONIO : CINQUE CONSIGLI PER RAFFORZARLO
Com’è possibile imparare le regole del matrimonio dall’acquisizione della tomba di Sarà?

KHAYE SARA 5771: COME SCOPRIRE IL NOSTRO SUBCONSCIO?
Psicologia nella Tora.
Psicologia e matrimonio. Un binomio che si esprime pienamente nella storia di Elìèzer e che può esserci di insegnamento in ogni momento della vita.
La storia di Elìèzer, servo di Avrahàm incaricato di trovare la giusta moglie al figlio Yitzkhàk, viene ripetuta due volte nella Torà. Da questa apparente anomalia si apre un percorso interessante, ricco di approfondimenti psicologici e chassidici, che porta all’analisi del comportamento umano e alla sua interpretazione. Tutto è spiegato nelle pagine della Torà, anche le dinamiche del subconscio!

KHAYE SARA 5769: COME TROVARE L’ANIMA GEMELLA?
il valore del matrimonio nella Torà
Una lezione storica IMPERDIBILE di grande insegnamento di vita!
La scelta della “donna giusta”: cosa ci insegna la Torà con il comportamento di Rivkà e la scelta compiuta dal servo Eli’ézer. Il significato del vero amore nella vita coniugale e l’analisi delle ragioni per cui è bene contrarre il periodo tra fidanzamento e matrimonio.

KHAYE SARA 5768: COME RICONOSCERE IL VALORE DEL MATRIMONIO?
Una lezione ricca di approfondimenti cabbalistici che ci porta ad esaminare le particolarià della nostra generazione e il valore del comportamento alla luce della venuta del Messia, presto nei nostri giorni!
Avrahàm lascia tutti i propri averi in gestione al servo Elì èzer, come segno di riconoscimento del valore del matrimonio del figlio Yitzkhàk. Da questo passo della Torà si snoda un percorso interessante, ricco di approfondimenti cabbalistici, che porta alle riflessioni sulla rettificazione del serpente e alle premesse per l’avvento del Messia.

KHAYE SARA 5766: LA MORTE DI SARA, L’INIZIO DI UNA VITA ETERNA?
Da dove deriva il nome delle parashot? Una lezione che narra della morte di Sara e di come da quel momento si manifesti la realizzazione della sua stessa vita!
Si narrano gli eventi relativi alla morte di Sara, approfondendo il significato profondo della realizzazione della sua vita, attraverso gli insegnamenti chassidici e della mistica ebraica, dimostrando l’eterno valore della vita di uno tzaddìq. Il valore dell’avere un figlio, i segni che si lasciano alle generazioni future, la possibilità di valorizzare ogni attimo della nostra vita!

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