SHEMINI 5784: 6 LEZIONI
Questo Shabbàt 6 Aprile 2024, 27 del mese di ADÀR Shenì 5784
leggeremo la Parashà di
Sheminì Lev 9,1-11,47
HAFTARÀ
Italiani Ez. 45:16-46:11
Sefarditi Ez. 45:18-46:15
Ashkenaziti Ez. 45:16-46:18
Si annuncia Rosh Chodesh
In questa settimana si legge la parashà Sheminì in uno Shabbàt molto particolare: lo Shabbàt Hakhòdesh, quello che precede Rosh Khòdesh Nissàn. Nell’occasione riflettiamo sui principali argomenti della parashà Sheminì, in particolare un commento molto interessante e originale del Rebbe (Tratto dal libro Positivity Bias – Atteggiamento Positivo che è in prossima uscita da Mamash) sulla famosa vicenda della morte dei figli di Aharòn, Nadàv e Avihù.
La Parashà Vista dall’Alto
La parashà di Sheminì (Vayikrà da 9, 1 a 11, 47) inizia con una discussione riguardo al servizio nel Tabernacolo nell’ottavo giorno, il primo dopo i sette giorni di “allenamento” in cui il Santuario è stato messo in piedi e provato a farlo funzionare. Il testo racconta che i figli maggiori di Aharòn, Nadàv e Avihù, portarono un’offerta di fuoco non autorizzata e vennero arsi dalla fiamma proveniente dal Sancta Sanctorum. Segue una breve istruzione rivolta ai sacerdoti, volta a ricordar loro che non devono mai entrare nel Santuario in stato di ebbrezza. Poi, viene trattato il completamento del servizio. Il resto della parashà è costituito dalle regole alimentari, in particolare dalle indicazioni riguardo a quali mammiferi, pesci, uccelli e insetti siano o non siano puri a livello spirituale, e quali dunque siano adatti a essere mangiati.
SHEMINI: Tre Riflessioni di Vita
POSITIVITÀ DAVANTI A UNA TRAGEDIA
1) L’inaugurazione
Otto: Sopra la Natura
Dopo sette giorni di duro lavoro per installare il Tabernacolo, l’ottavo giorno (Sheminì) il popolo ebraico merita che la presenza di Dio si riveli in esso. Che cosa si può imparare da questo che possa migliorare il nostro rapporto con Dio? Il Rebbe di Lubavitch scrive che il numero sette corrisponde al mondo nel senso più completo, paragonabile all’ordine reiterato dei sette giorni della settimana. Il numero otto – uno in più di sette – è collegato alla trascendenza, a ciò che è più in alto dell’ordine della natura. Inoltre, il numero sette è collegato alla rivelazione di Dio limitata alla natura, mentre l’otto è considerato come la rivelazione divina non limitata dalle leggi della natura, come avviene in occasione di un miracolo. Tuttavia, così come non vi può essere un valore di otto senza il sette che lo precede, allo stesso modo il livello dell’otto è, di fatto, collegato con le leggi limitate della natura. Ciò è analogo al nostro stesso rapporto con Dio. Sebbene i nostri sforzi siano limitati dalle nostre forze naturali, quando siamo completamente assorbiti dallo sforzo (sette) facciamo sì che un livello di santità illimitato e superiore alla natura (otto) risplenda fino a noi. Questo appare evidente con il Tabernacolo nel deserto: gli sforzi compiuti durante i sette giorni della costruzione costituirono la preparazione necessaria per la rivelazione dell’ottavo giorno.
Qual è l’idea di fondo? Dobbiamo sapere che i nostri sforzi in questo esilio buio sono, effettivamente, la preparazione per l’imminente redenzione. Soltanto attraverso i nostri sforzi di adesso la luce divina potrà risplendere in seguito.
In modo analogo, il nome Shabbàt Sheminì allude a due livelli di servizio divino. Shabbàt è il settimo giorno e costituisce il completamento del processo di creazione. Tuttavia, nonostante ne sia l’apice, lo Shabbàt fa sempre parte di questo processo naturale. Sheminì, che deriva dalla parola ebraica “otto”, indica un livello che trascende la natura e la creazione; l’otto non è limitato dal mondo materiale. Shabbàt Sheminì è la combinazione di questi due livelli. La lezione che ne traiamo è che, dopo aver servito Dio con tutti i mezzi naturali (già un’impresa in sé), bisogna sforzarsi di servire Dio oltre alla realtà naturale e non permettere che le limitazioni del mondo ci colpiscano.
Lo Shla, un famoso saggio commentatore, ci ricorda il famoso assioma del Talmùd basato su un verso della parashà di questa settimana: “Rendetevi santi e sarete santi” (Vayikrà 11, 44). Nel Talmùd (Yomà 39a) è scritto che una persona che provi a santificarsi quaggiù viene aiutata a santificarsi molto di più dall’Alto, sia in questo mondo che nel mondo a venire. “Santificatevi un poco da quaggiù” si riferisce ad attività circoscritte del corpo. “Santificatevi molto più dall’Alto” si riferisce al dono dell’eternità dell’anima.
2) Nadàv & Avihù
Overdose Spirituale
Nadàv e Avihù erano due figli di Aharòn il Sommo Sacerdote. Come raccontato nella Torà, “Essi hanno offerto un fuoco estraneo davanti a Dio, che Egli non aveva comandato”. Ciò suscitò la rapida punizione di Dio, come è detto, “un fuoco uscì da Dio e li consumò, ed essi morirono davanti a Dio”.
Mentre dalla lettura del testo risulta chiara la causa della loro morte, la ragione della loro morte non lo è. La logica divina dietro questa tragedia ha afflitto i commentatori nel corso dei secoli. Ecco alcuni dei motivi che essi offrono, che, se combinati, dipingono un ritratto estremamente negativo di questi due giovani sfortunati:
– Sono entrati nel Santo dei Santi del Tabernacolo senza permesso (Torat Kohanìm).
– Non indossavano tutti gli indumenti necessari mentre svolgevano il servizio sacerdotale (Vayikrà Rabbà 20, 9.).
– Non si sono mai sposati (Ibid).
– Non avevano figli (ibid).
– Erano arroganti e molte donne rimasero nubili, mentre li aspettavano. Dicevano: “Il fratello di nostro padre è un re, il fratello di nostra madre è un principe (Nakhshòn, il capo della tribù di Giuda), nostro padre è un sommo sacerdote e siamo entrambi vice sommi sacerdoti, quale donna è degna di noi?”.
– Offrirono un “fuoco estraneo” (Levitico/Vayikrà 10, 1), cioè un’offerta di incenso non richiesta.
– Presero una decisione su una questione su cui avrebbero dovuto consultare il loro maestro Moshè (Torat Cohanìm).
– Ciascuno di loro agì di propria iniziativa, senza consigliarsi l’un l’altro (Vayikrà Rabbà)
– Hanno svolto il servizio del Tempio mentre erano inebriati.
– Sono entrati nel Santuario senza lavarsi mani e piedi.
– Meritavano già di morire sul Monte Sinai, quando insensibilmente hanno posato i loro occhi sul Divino (Esodo 24, 9-11).
In tutti i casi, questi fratelli sono essenzialmente ritratti come egocentrici, egoisti, amanti del dell’ebrezza spirituale, che meritavano quello che hanno ricevuto. Il Rebbe, tuttavia, evidenzia (Likkutei Sikhòt, vol. 3) e sviluppa un insegnamento dell’Or Hakhayìm (Levitico 16, 1), presente nelle fonti chassidiche. I figli maggiori di Aharòn sono morti per un “bacio di Dio”, una descrizione molto positiva, usata solo per le anime più elevate. Ognuna delle azioni punibili, enumerate nel Midràsh, era radicata in un’unica fonte positiva: intensa passione e desiderio per Dio. Nelle parole del Rebbe: “Si avvicinarono alla luce superna per il loro grande amore per il Santo, e così morirono. Così morirono per il ‘bacio Divino’, come sperimentato dai perfettamente giusti… Questo è il significato del verso, Si sono avvicinati a Dio e sono morti. Da questa prospettiva, diventa chiaro che Nadàv e Avihù sono morti per un’overdose spirituale, per un eccesso di luce trascendentale”. La tradizione ebraica insegna che ognuno è qui per una ragione, che è quella di elevare e santificare il mondo materiale, non solo di trascenderlo.
Pur non perdonando il loro approccio di indulgenza spirituale illimitata e irresponsabile, possiamo e dobbiamo emulare la volontà di Nadàv e Avihù di rinunciare a tutto, anche alla vita stessa, alla ricerca della verità spirituale. Con i nostri piedi saldamente piantati sulla terra, le nostre anime sono libere di raggiungere le altezze per portare la luce infinita del Divino nella nostra vita quotidiana e nei nostri compiti (Tratto dal libro Positivity Bias – Atteggiamento Positivo)
3) Regole Alimentari
Insetto Santo
In questa parashà si trova un concetto proprio della cultura ebraica, incredibile e privo di equivalente al di fuori della sacralità della religione: l’idea di kabalàt ol malkhùt Shamàyim, ovvero di “accettare il giogo del Cielo”. Kabalàt ol è un modo di agire che deriva dal nostro obbligo nei confronti di Dio, più ancora che dall’amore o dal timore che proviamo verso di Lui.
Il nome della parashà, Sheminì, ovvero “Ottavo”, si riferisce all’ottavo giorno dall’edificazione del Tabernacolo – che costituì dunque il primo giorno di servizio effettivo – giorno in cui il popolo ebraico si prostrò vedendo il fuoco divino che scendeva e consumava le offerte a Dio. Fu un momento di autentica elevazione, poiché gli ebrei assistettero a una eccezionale rivelazione divina. Poco dopo questo evento morirono i due figli di Aharòn, due sacerdoti la cui attrazione verso Dio era talmente forte da provocare la dipartita della loro anima. La loro scomparsa fu un’ulteriore dimostrazione che, a quell’epoca, il livello spirituale del popolo ebraico era elevatissimo, tanto che il resto del popolo dovette sforzarsi per impedire alla propria anima di sfuggire dal corpo a causa della forte sete spirituale. Dopo la narrazione di questi eventi la Torà impartisce le regole alimentari, tra le quali si nota il divieto di mangiare “esseri striscianti”. Solo una persona che si trovasse a un livello spirituale estremamente basso riuscirebbe a mangiare queste creature impure (e solitamente non appetibili). Comunque occorre rispettare il divieto dei cibi solo perché ci è stato ordinato nella Torà e non perché è logico. Apparentemente questa parte della Torà racchiude in sé due estremi spirituali: dalle rivelazioni divine straordinarie e dall’elevata sensibilità spirituale si passa alle scelte alimentari più basse.
Che collegamento c’è tra queste cose? Il Rebbe di Lubavitch spiega come l’accostamento di questi due estremi venga a insegnarci un concetto chiave che – sottolineiamo nuovamente – è estraneo al mondo laico.
Anche Se Capisco…
Il servizio a Dio si basa su kabalàt ol – letteralmente “accettare il giogo (divino)”. Questo concetto supera di gran lunga l’obbedienza e la lealtà comunemente intese. Kabalàt ol è la nostra capacità di compiere le mitzvòt da un livello che supera la comprensione della divinità. Si potrebbe pensare che kabalàt ol sia il modo in cui serviamo Dio quando non ne siamo spiritualmente consapevoli, ovvero con un approccio al compimento delle mitzvòt indipendente dalla comprensione di esse. Non è affatto così! Kabalàt ol si applica anche a chi abbia raggiunto una certa elevazione spirituale, che comprende a fondo Dio e le cui emozioni sono pure. Le emozioni e l’intelletto elevati non sono sufficienti. Ognuno si deve domandare se compie le mitzvòt solamente perché comprende che sono causa di grandi effetti cosmici, che risanano l’anima, che uniscono estremi spirituali contrastanti.
Questi motivi sono buoni. Nonostante ciò, oltre e al di sopra di questo, una persona deve compiere mitzvòt perché Dio lo ha ordinato. Quando una persona per fare qualcosa fa affidamento sul proprio intelletto e sulle proprie emozioni limitate e fallibili corre un certo pericolo di cadere dalle proprie sommità spirituali a profondità impure. D’altro lato, quando scegliamo kabalàt ol come causa ultima che ci spinge a compiere mitzvòt, ci poniamo in relazione con l’infinita volontà di Dio. In un certo senso si tratta della nostra “polizza di assicurazione spirituale”, che ci impedisce di andare alla deriva. Sheminì ci insegna che kabalàt ol è un processo obbligatorio per ogni ebreo. Iniziamo oggi! Rendiamo kabalàt ol parte della nostra vita.
In memoria di mio padre Yaakov ben Shelomo
לעילוי נשמת אבי מורי ורבי ועטרת ראשי
יעקב בן שלמה ורחל
Vayakhel Pekude e Shemini
CHI RINGRAZIA CHI?
In questo momento particolare e difficile dove potrebbe sembrare che nulla vada bene e dove sentimenti negativi quali lo sconforto, tristezza e depressione sono in agguato, mi è venuta in mente una frase del Talmud. Questa ci insegna che anche per OGNI RESPIRO che facciamo dobbiamo ringraziare Hashèm. Come è scritto nell’ultimo verso dei Salmi: “Ogni anima loderà il Signore” la parola neshamà-anima ha le stesse lettere e la stessa composizione della parola neshimà-respiro, anche perché i due concetti anima-respiro sono profondamente intrinsechi.
Molti di noi infatti, prima dell’arrivo di questa epidemia, si lamentavano per cose abbastanza futili: non avere la macchina nuova, la lavatrice che non funziona bene o dove passare le vacanze estive etc…
Questo ci insegna a non DARE TUTTO PER SCONTATO, poiché in realtà anche per ogni respiro dobbiamo dire grazie. In altre parole dovremmo dire grazie a Dio ogni istante.
Non a caso una delle basi dell’ebraismo è la riconoscenza e la gratitudine! Prima di tutto verso il Creatore che ci dà tutto ciò che abbiamo.
Alla fine tutto è scritto nella Torà e il nostro dovere è prendere gli insegnamenti che ci ha dato il Padre Eterno e applicarli nella nostra vita. Quando Hashèm vede che apprezziamo quello che ci dà, allora ci dona molto di più e ci offre la cosa più importante: la redenzione di Mashìakh, presto nei nostri giorni, Amen.
Anche Hashèm Vuole Una Casa!
Le nazioni vanno in guerra per occuparle, le famiglie impegnano una somma considerevole del loro reddito, anche per la durata di trent’anni, per acquistarne una. I Saggi del Talmud vanno oltre e dicono: “Un uomo che non possiede una casa non è uomo”.
La casa è molto più di un semplice tetto che ci protegge dalle piogge, di muri che ci separano da estranei non voluti, di una cucina nella quale prepariamo le pietanze e di un letto per dormire. Anche i centri commerciali, gli hotels e i ristoranti possono compiere quelle funzioni, meglio di qualsiasi altra residenza. Ma solo a casa una persona si sente veramente “a suo agio”. La casa è il luogo dove si possono fare delle “facce buffe” davanti allo specchio, indossare un vecchio maglione verde bucato e mangiare sottaceti con burro di arachidi. Solo perché ne abbiamo voglia!
Anche Hashèm desidera una casa, un luogo dove può essere completamente “Se Stesso” ovvero manifestare la Sua essenza Divina. Ma perché Hashèm ha creato il mondo fisico? Cosa può dare a Dio la nostra vita grossolana e limitata, la nostra esistenza piena di conflitti, che i mondi spirituali superiori non possono dare, al punto di creare questo mondo dove il male e la materia hanno il sopravvento?
I Maestri della Chassidùt rispondono con un midràsh: “Hashèm creò il mondo materiale perché voleva una dimora. Hashèm disse all’uomo: “Ho creato la saggezza, la comprensione e la conoscenza, e in queste creazioni dimora la Mia mente. Ho creato l’amore, la giustizia e la compassione, e fra questi risiede il Mio carattere. Ho creato la bellezza, lo splendore e la maestà, e in questi investo la Mia personalità. Ma nessuno di questi attributi è la Mia casa. Perciò Ho creato la materia fisica – la cosa meno divina che ho potuto ideare – così avrei avuto una dimora dove non ho ruoli da interpretare e nemmeno caratteristiche per Me da progettare. Solo la Mia Volontà a cui adempiere.
Quando prenderai il tuo oro (simbolo degli eccessi materiali), il tuo argento (simbolo dell’imperturbabile ricchezza) e il tuo rame (i centesimi della tua sussistenza al povero) e li userai per creare una realtà conforme alla Mia Volontà, farai la Mia casa nel Mio mondo”.
Il Tabernacolo come legame tra uomo e Hashèm
La narrazione concernente il Tabernacolo si suddivide in tre fasi in quattro parashòt della Torà: il comando di edificarlo, come figura nelle parashòt Terumà e Tetzavè; la fabbricazione degli arredi, degli utensili e di tutti gli altri elementi
In Vayak’hèl; l’edificazione stessa del Tabernacolo in tutti i dettagli, con la nube della Gloria divina che si posa su di esso e quindi sul popolo in Pekudè. Questo ordine rispecchia quello con il quale viene a crearsi il legame fra l’uomo e Dio:
a) dapprima il comando divino, che risveglia l’uomo e gli dà la forza e i mezzi per creare questo legame dall’alto verso il basso;
b) poi segue l’operato dell’uomo, con cui egli si santifica e trascende la propria esistenza meramente materiale (dal basso verso l’alto);
c) infine il legame si completa, saldo e forte nel tempo, con Hashèm che si posa sull’uomo, lo eleva dall’alto e lo santifica con le Sue forze illimitate in maniera sublime, molto di più di quanto l’uomo potrebbe arrivare (Pekudè).
L’incontro fra ciò che proviene dall’alto e ciò che invece si innalza dal basso, fra Dio e l’uomo, è ciò che purifica il mondo materiale rendendolo una Dimora per Hashèm, dove la Sua luce si possa manifestare pienamente.
Un ottavo innaturale
È questo il nostro lavoro. Seguire l’esempio della Torà e sapere che abbiamo la difficile missione di trasformare il mondo materiale in una dimora per Hashèm. Tuttavia, non siamo soli, poiché per completare questa difficile missione abbiamo l’aiuto “dall’alto” come nella costruzione del Tabernacolo. Certo che lo stimolo iniziale viene da Hashèm, perché noi da soli non possiamo fare una trasformazione così difficile come hai tempi del Tabernacolo dove era “sufficiente…” prendere degli oggetti materiali e farli diventare una casa per il Creatore. Pertanto, dopo questo stimolo iniziale dobbiamo iniziare a lavorare con le nostre forze. Tuttavia il risultato e il premio finale non sono la semplice somma dei nostri sforzi, bensì molto di più sono molto di più.
Quanto detto sopra è simboleggiato dall’ottavo giorno dell’inaugurazione del Tabernacolo. Infatti il Tabernacolo viene montato per sette giorni con tanta speranza della rivelazione dall’alto, ma solo nell’ottavo giorno, il Tabernacolo venne inaugurato gettando le basi del futuro operato del popolo ebraico.
Tuttavia verrebbe da chiedersi, perché proprio l’ottavo? Perché questo numero simboleggia la trascendenza dell’ordine naturale. Pertanto anche l’ottavo giorno doveva trascendere l’ordine abituale delle cose.
Fame Spirituale
Inoltre, osservando la tempistica dell’edificazione del Tabernacolo si nota che dapprima Moshè mise gli arredi al loro posto e li inaugurò per un primo impiego e poi, in un secondo tempo, completò l’edificazione del Tabernacolo stesso. Soprattutto il fatto di offrire i sacrifici sull’altare prima del completamente del Tabernacolo. Perché questa strana cronologia?
Talvolta nelle vita e nell’operato spirituale per costruire una “dimora per Hashèm” è necessario saltare alcune fasi nell’intento di riuscire a compiere quanto più possibile. Citando l’insegnamento presente nel Talmùd (‘Eruvìn 54a): arraffa e mangia, arraffa e bevi!
Tale è la nostra epoca oramai alle soglie dell’avvento del Messia, Pertanto bisogna cercare di guadagnare quanti più meriti, con passi da gigante e grande “appetito” spirituale, talvolta modificando l’ordine abituale delle cose.
Come è scritto nella Torà, “Moshè vide tutta l’opera, ed ecco, l’avevano eseguita come Hashèm aveva comandato; così l’avevano eseguita. E Moshè li benedisse”. (Shemòt 39, 43)
Moshè esaminò attentamente tutti i prodotti finiti. L’espressione “vide… ed ecco che” richiama quella impiegata riguardo alla Creazione del mondo (Bereshìt 1, 31): l’edificazione del Tabernacolo è infatti di valore pari alla Creazione dell’universo (Dà’at Mikrà). Pertanto, Moshè li benedisse dicendo: «Sia volontà [di Hashèm] che la Presenza Divina si posi sulle vostre opere… Possa la grazia di Hashèm Dio nostro essere su di noi…». Si tratta delle parole di uno degli undici capitoli dei Tehillìm composti da Moshè per benedire le 11 tribù ogni salmo per una tribù (da cap. 90 a cap. 100).
In altri termini, con l’inaugurazione del Tabernacolo Moshè diede a Israèl tutte le forze necessarie per affrontare il futuro della sua esistenza, anche quando necessiterà di agire in “disordine” per preparare il mondo, in gran fretta e con numerosi traguardi da raggiungere, alla Redenzione finale.
(Rebbe di Lubàvitch, Likuté Sikhòt vol. XXXI)
Il Più Grande Traguardo Anche Oggi
Rabbi Zalman Sorotzkin raccontò che una volta si trovava alla cerimonia di inaugurazione di un’istituzione per la quale un Rav aveva devoluto spassionatamente un’incredibile quantità di tempo e di energia. Il Rav parlò e fece molti elogi e benedizioni nei confronti dei donatori i cui contributi avevano reso possibile la creazione dell’istituzione.
Rabbi Zalman Sorotzkin era l’oratore successivo e disse: “In realtà i donatori dovrebbero essere quelli che elogiano e benedicono il Rav. Sono stati i suoi sforzi che hanno permesso loro di avere il merito di contribuire a una beneficenza così meritevole. Ma egli seguì le orme di Moshè. Dopo il resoconto completo di tutto ciò che era stato donato per il Tabernacolo, Moshè benedì tutti coloro che avevano preso parte alle donazioni e ai contributi. Avrebbero essi dovuto benedire Moshè per l’opportunità che egli aveva loro dato”.
La stessa cosa vale quando una persona facoltosa aiuta un povero. Quella facoltosa guadagna di più del povero, poiché si tratta di un merito spirituale. Ma cosa vediamo invece nel mondo? Colui che riceve esprime molta più gratitudine al donatore di quanto non faccia quest’ultimo nei suoi confronti perché i valori nel mondo sono opposti alla verità perciò si chiama, nella Cabalà, il mondo della falsità!
Da questo impariamo che quando qualcuno ci si avvicina per dare un contributo a una causa meritevole, dovremmo apprezzare il fatto che ci sta facendo un favore dandoci l’opportunità di partecipare. Questo è un concetto importante che coloro che raccolgono offerte dovrebbero tenere a mente. Dovrebbero essere coscienti di star compiendo un atto benevolo nei confronti dei donatori. Allo stesso tempo devono naturalmente dimostrare loro gratitudine.
Rabbi Moshe Helfan si occupava della raccolta fondi per la Yeshivà di Telzer a Cleveland. In Pennsylvania c’era un agricoltore ebreo che era solito donare una modesta somma ogni anno. Nel 1970 il prezzo della benzina salì e il viaggio fino alla fattoria dell’agricoltore era divenuto più caro dell’ammontare stesso della donazione che egli era solito fare.
Rabbi Helfan disse tuttavia, “Non posso non andare dall’uomo per prendere il suo contributo. Il suo supporto alla yeshivà è per lui un grande merito e non posso privarlo di esso. Ma non posso nemmeno far sostenere alla yeshivà il costo della benzina poiché gliene deriverebbe una perdita. Pertanto, mi recherò dall’agricoltore, ma pagherò le spese di viaggio di tasca mia”.
Quando arriverà Mashiàkh – tra pochissimo – i giochi saranno finiti e non avremo più libero arbitrio per cui non avremo merito per le nostre azioni, e di conseguenza saremo quasi come dei robot e ci pentiremo di questi ultimi momenti che avremmo avuto la facoltà e il dovere di fare la differenza.
Per esempio dice il Talmud: Chi salva una persona è come se avesse salvato il mondo intero. Ci sono persone che si possono salvare fisicamente o spiritualmente e anche psicologicamente.
A volte basta un caloroso buongiorno detto con entusiasmo per “salvare” una persona, specialmente in questo periodo. Speriamo che questa pandemia sia la rettificazione ultima per inCORONAre Mashìakh re del mondo, presto nei nostri giorni.
NO ESTASI SI PARTY
Anche questa settimana vi proponiamo un estratto del libro “Saggezza Quotidiana” edito da Mamash.
Libro che ha il grande pregio di contenere in forma sintetica gli insegnamenti del Rebbe e dei suoi
predecessori che commentano e spiegano ogni singola sezione della Torà.
Oggi affrontiamo l’argomento della trascendenza e del miracolo. Il modo in cui Hashèm si manifesta
in questo mondo non sempre segue le vie naturali. A volte, come nel caso dell’inaugurazione del
Tabernacolo, nell’ottavo giorno, Hashèm si rivela miracolosamente, tanto che le regole normali, che
governano il mondo, sono state ignorate in quel giorno.
Tuttavia, la chassidùt ci insegna che l’ottavo giorno miracoloso è stato possibile solo grazie ai sette
giorni “normali” precedenti. Hashèm, infatti, subordina il Suo intervento miracoloso nella natura in
base al nostro comportamento. Il motivo è che la Sua volontà, lo scopo della creazione che Hashèm
ha voluto, è che l’uomo riveli la Sua presenza in questo mondo di materia seguendo le vie normali
della natura. In altre parole, quando riusciamo a dimostrare a noi stessi e al prossimo che seguendo
la volontà di Hashèm, senza interventi miracolosi, possiamo modificare il mondo che ci circonda e
realizzare la sua volontà, noi compiamo la missione affidataci da Hashèm.
Questo concetto è dimostrato dalla lezione dei figli di Aharòn, Nadàv e Avihù, che trascinati
dall’estasi del momento, nel loro intenso desiderio di legarsi ad Hashèm, si elevano nelle più alte
vette spirituali, anche quando sentono che le loro anime li abbandonano. Tuttavia, non dobbiamo
imitare il loro esempio, poiché, al contrario, è espressamente vietato perseguire un tale trasposto
spirituale suicida. Sebbene sia necessario cercare l’ispirazione e rinnovarla costantemente, il vero
scopo di raggiungere piani sempre più elevati di conoscenza divina è quello di portare la coscienza
che acquisiamo nel mondo, per renderlo sempre più consapevole di Hashèm e trasformarlo nella sua
dimora.
Buon prosieguo di lettura a tutti
*
Sheminì
La Conclusione dei Riti Inaugurali; Kasherùt
La terza sezione del libro di Levitico si apre con la descrizione dell’“ottavo” (sheminì, in ebraico) e
ultimo giorno dei riti inaugurali. Dopo questo, elenca quali animali sono consentiti per il consumo
ebraico.
*
Vayikrà 9, 24 – 10, 11
Dopo la benedizione di Aharòn e la preghiera di Moshè, un fuoco scende dal cielo e consuma le parti
dei sacrifici posti sull’Altare. Israèl rimane estasiato nel vedere la presenza di Hashèm apparire
nuovamente e così apertamente. I loro sforzi nel donare materiale per il Tabernacolo, il lavoro
diligente fatto per costruirlo e il “lavoro” interiore di pentirsi per l’incidente del Vitello d’Oro hanno
dato i loro frutti. Tuttavia, in seguito, due dei quattro figli di Aharòn, Nadàv e Avihù, offrono un po’
d’incenso di loro iniziativa. Con orrore di tutti il fuoco divino discende di nuovo, ma questa volta
sotto forma di due coppie di fiamme che penetrano nelle narici di Nadàv e Avihù, uccidendoli
all’istante.
Gestire l’Estasi
Un fuoco uscì al cospetto di Hashèm e li consumò. (10, 2)
Nadàv e Avihù sono stati trascinati dall’estasi del momento. Nel loro intenso desiderio di legarsi a
Lui, attraverso la loro offerta d’incenso non autorizzata, si elevano nelle più alte vette spirituali, anche
quando sentono che le loro anime li abbandonano. In questa prospettiva, la loro morte non è stata una
punizione, ma il compimento del loro desiderio di dissolversi nell’essenza di Hashèm. Tuttavia, non
dobbiamo imitare il loro esempio, poiché, al contrario, è espressamente vietato perseguire un tale
trasposto spirituale suicida. Sebbene sia necessario cercare l’ispirazione e rinnovarla costantemente,
il vero scopo di raggiungere piani sempre più elevati di conoscenza divina è quello di portare la
coscienza che acquisiamo nel mondo, per renderlo sempre più consapevole di Hashèm e trasformarlo
nella sua dimora.
*
Moshè conforta Aharòn e i suoi figli, per la morte di Nadàv e Avihù. Anche se è normalmente vietato
per un sacerdote che è in lutto officiare, Moshè ordina ad Aharòn e ai suoi due figli sopravvissuti,
El’azàr e Itamàr, di continuare il servizio sacrificale – compreso il mangiare le loro parti designate
dei sacrifici – come eccezione rispetto alla norma.
Destare il Sovrannaturale
[Moshè disse ad Aharòn e ai suoi figli] «Dovete mangiare… [le vostre parti dei sacrifici] perché è
così che mi è stato comandato [da Hashèm]». (10, 13)
Le regole normali, che governano il comportamento dei sacerdoti, sono state ignorate in quel giorno.
Il messaggio essenziale di questo è che Hashèm può trascendere le regole, da Lui stabilite, che
governano la natura. Hashèm ha scelto di rivelare la Sua presenza infinita l’ottavo giorno dei riti
inaugurali, poiché il numero sette indica l’ordine naturale, mentre il numero otto indica la
trascendenza miracolosa dell’ordine naturale.
Tuttavia, sebbene vi sia un salto di qualità da sette a otto, quest’ultimo è anche il risultato e la
continuazione dei sette precedenti. Quindi, non poteva esserci un ottavo giorno “miracoloso”
nell’inaugurazione del Tabernacolo, senza i precedenti sette giorni non miracolosi. Hashèm, infatti,
rende il Suo intervento miracoloso nella natura subordinato al nostro comportamento: dobbiamo fare
tutto il possibile secondo le regole della natura, per prepararci alla rivelazione soprannaturale di
Hashèm.
L’ultima trascendenza dell’ordine naturale avverrà nell’era messianica. Dove, le miracolose
rivelazioni future saranno il risultato dei preparativi che facciamo ora, durante l’era dell’ordine
naturale. Mentre continuiamo a perfezionare il mondo con mezzi naturali, dovremmo tenere a mente
che i risultati dei nostri sforzi saranno al di là di qualsiasi cosa possiamo immaginare, in questo
presente.
Lo Shelà Hakadòsh, un grande maestro e commentatore della Torà, ci ricorda il famoso assioma del Talmùd basato su un verso della parashà di questa settimana: “Rendetevi santi e sarete santi” (Vayikrà 11, 44). Nel Talmùd (Yomà 39a) è scritto che una persona che provi a santificarsi quaggiù in questo mondo viene aiutata a santificarsi molto di più dall’Alto, sia in questo mondo che nel mondo a venire. “Santificatevi un poco da quaggiù” si riferisce ad attività relativamente futili del corpo. “Santificatevi molto più dall’Alto” si riferisce al dono dell’eternità dell’anima.
Il nome della parashà, Sheminì, ovvero “Ottavo”, si riferisce all’ottavo giorno dall’edificazione del Tabernacolo – che costituì dunque il primo giorno di servizio effettivo –, giorno in cui il popolo ebraico si prostrò vedendo il fuoco divino che scendeva e consumava le offerte a Dio. Fu un momento di autentica elevazione, un’eccezionale rivelazione divina.
Poco dopo questo evento morirono i due figli di Aharòn, due sacerdoti la cui attrazione verso Dio, causata della grande rivelazione dell’inaugurazione del Tabernacolo, era talmente forte da provocare la dipartita della loro anime. La loro scomparsa fu una successiva dimostrazione che, a quell’epoca, il livello spirituale del popolo ebraico era elevatissimo, tanto che il resto del popolo dovette sforzarsi per impedire alla propria anima di sfuggire dal corpo a causa della forte sete spirituale.
Dopo la narrazione di questi eventi la Torà impartisce le regole alimentari, tra le quali si nota il divieto di mangiare “esseri striscianti”.
Apparentemente, quindi, questa porzione della Torà racchiude in sé due estremi spirituali: dalle rivelazioni divine straordinarie e dall’elevata sensibilità spirituale si passa alle scelte alimentari più basse.
Che collegamento c’è tra queste cose? Il Rebbe spiega come l’accostamento di questi due estremi venga a insegnarci alcuni concetti chiave.
7 OPPURE 8?
Dopo sette giorni di duro lavoro per installare il Tabernacolo con tutte le sue funzioni, all’ottavo giorno (sheminì) Israèl merita che la presenza di Dio si riveli in esso. Che cosa si può imparare da questo che possa migliorare il nostro rapporto con Dio? Il Rebbe scrive che il numero sette corrisponde al mondo nel senso più completo, paragonabile all’ordine reiterato dei sette giorni della settimana. Il numero otto – uno in più di sette – è collegato alla trascendenza, a ciò che è più in alto dell’ordine della natura.
Inoltre, il numero sette è collegato alla rivelazione di Dio limitata alla natura, mentre l’otto è considerato come la rivelazione divina non limitata dalle leggi della natura, come avviene in occasione di un miracolo. Tuttavia, così come non vi può essere un valore di otto senza il sette che lo precede, allo stesso modo il livello dell’otto è, di fatto, collegato con il sette che è la dimensione della natura. Ciò è analogo al nostro stesso rapporto con Dio. Sebbene i nostri sforzi siano limitati dalle nostre forze naturali, quando siamo completamente assorbiti dallo sforzo (sette) facciamo sì che un livello di santità illimitato e superiore alla natura (otto) risplenda fino a noi.
In altre parole la dimensione dell’otto non è solo il livello che trascende la natura (come di solito viene spiegato), bensì è il livello che è staccato dalla natura ma allo stesso tempo penetra profondamente in essa.
Questo appare evidente con il Tabernacolo nel deserto: gli sforzi compiuti durante i sette giorni della costruzione costituirono la preparazione necessaria per la rivelazione dell’ottavo giorno. Quindi, qual è l’idea di fondo?
E quella di essere consapevoli che i nostri sforzi in questo buio esilio sono, effettivamente, la preparazione all’imminente redenzione. Tuttavia soltanto attraverso i nostri sforzi attuali in questo mondo la luce divina potrà risplendere in seguito. Per questo quando ci sarà l’imminente evento messianico la settimana sarà di otto giorni, perché allora nel mondo si rivelerà il livello “otto”.
In modo analogo vi è una profonda relazione tra lo Shabbàt (il settimo giorno) e Sheminì. Questa relazione allude a due livelli di servizio divino. Shabbàt è il settimo giorno e costituisce il completamento del processo di creazione. Tuttavia, nonostante ne sia l’apice, lo Shabbàt fa sempre parte di questo processo naturale. Sheminì, che deriva dalla parola ebraica “otto”, indica un livello che trascende la natura e la creazione. L’otto, infatti, non è limitato dalla realtà del mondo. E questo Shabbàt Sheminì rappresenta la combinazione di questi due livelli. La lezione che ne traiamo è che, dopo aver servito Dio con tutti i mezzi naturali (già un’impresa in sé), bisogna sforzarsi di servire Dio oltre alla realtà naturale e non permettere che le limitazioni del mondo ostacolino il nostro rapporto con il divino.
Anche Se Non Capisco… Obbedisco!
Tuttavia, una domanda “sorge spontanea”, ma quale sarebbe la strada migliore per far si che gli ostacoli di questo mondo, non impediscano il nostro rapporto con Dio o addirittura non ci portino in una direzione opposta?
Si potrebbe pensare che la strada più forte, sicura e buona sia quella di raggiungere un’elevata conoscenza e comprensione intellettuale che elevi il nostro spirito e quindi ci porti a servire Dio in uno stato alto ed elevato, come i due figli di Aharòn, Nadàv e Avihù. I quali, è bene ricordare, portarono un’offerta di fuoco (incenso) non autorizzata, ossia non obbedirono alla volontà di Dio e per questo furono consumati da fiamme provenienti dal Kòdesh Hakodashìm, Santo dei Santi.
Invece, il servizio a Dio più solido ed efficace, si basa solo su kabalàt ol – letteralmente “accettare il giogo (divino)”. Questo concetto supera di gran lunga l’obbedienza e la lealtà comunemente intese. Kabalàt ol è la nostra capacità di compiere le mitzvòt da un livello che supera la comprensione della divinità. Si potrebbe pensare che kabalàt ol sia il modo in cui serviamo Dio quando non ne siamo spiritualmente consapevoli, ovvero con un approccio al compimento delle mitzvòt indipendente dalla comprensione di esse. Non è affatto così! Kabalàt ol si applica anche a chi ha già raggiunto una certa elevazione spirituale, che comprende a fondo Dio e le cui emozioni sono pure. Tuttavia, le emozioni e l’intelletto elevati non sono sufficienti.
Pertanto, ognuno si dovrebbe domandare se serve Dio e compie le mitzvòt solamente perché comprende che così facendo causa di grandi effetti cosmici e che risana la sua anima. Anche se questi motivi sono buoni, nonostante ciò, oltre e al di sopra di questo, occorrerebbe arrivare allo stato spirituale in cui si serve Dio e si compiono le mitzvòt solo perché Lui lo ha ordinato così. Infatti, quando una persona per fare qualcosa fa affidamento sul proprio intelletto e sulle proprie emozioni (a volte sinonimo di instabilità e volubilità) corre un certo pericolo di cadere dalle proprie sommità spirituali a profondità impure, proprio come il “mangiare esseri striscianti”.
D’altro lato, quando scegliamo kabalàt ol come causa ultima che ci spinge a compiere mitzvòt, ci poniamo in relazione con l’infinità volontà di Dio. In un certo senso si tratta della nostra “polizza di assicurazione spirituale”, che ci impedisce di andare alla deriva. Sheminì ci insegna che kabalàt ol è un processo obbligatorio. Quindi, perché non Iniziamo oggi? Rendiamo kabalàt ol parte della nostra vita!
In memoria di mio padre Yaakov ben Shelomo
לעילוי נשמת אבי מורי ורבי ועטרת ראשי
יעקב בן שלמה ורחל
L’ALTRO LATO DEL SIDDUR
Il famoso cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal, a 91 anni, partecipò a un Congresso di rabbini europei. Ringraziandoli per il premio conferitogli raccontò un episodio accadutogli a Mauthausen, poco dopo la liberazione del campo. Rabbi Eliezer Silver, un eminente rabbino del Nord America, era giunto a portare aiuto e conforto ai sopravvissuti. Dopo la visita al campo Rabbi Silver invitò i sopravvissuti a partecipare a un servizio religioso. Wiesenthal rifiutò di andare, spiegando che durante la prigionia un ebreo religioso, mettendo a repentaglio la propria vita, era riuscito a far entrare un Siddur nel campo di concentramento. Wiesenthal dapprima aveva ammirato il suo coraggio, ma era rimasto inorridito quando aveva scoperto che costui “noleggiava” il Siddur in cambio di cibo. Molti ebrei avevano rinunciato al loro ultimo pezzo di pane pur di avere tra le mani quel libro per un paio di minuti. «Se questo è il comportamento di un ebreo religioso, non voglio aver nulla a che fare con un libro di preghiere!», concluse Wiesenthal. Rabbi Silver gli toccò dolcemente la spalla e disse: «Uomo sciocco! Perché guardi l’ebreo che ha usato il suo Siddur per togliere cibo dalle bocche degli affamati, e non pensi ai molti che hanno dato il loro ultimo pezzo di pane per usare un Siddur? Questa è la fede. Questo è il vero potere del Siddur!». Wiesenthal abbracciò Rabbi Silver e da quel giorno partecipò al Servizio.
Anche questo periodo di quarantena può essere visto o come un nemico che ci ha tolto la libertà di muoverci, oppure come un mezzo per farci ritrovare noi stessi, il nostro equilibrio interiore e la nostra armonia famigliare e insegnarci il valore di tutto quello che abbiamo e che davamo per scontato…
Anche il peggio può essere un grande dono:
È SOLO UN QUESTIONE DI PROSPETTIVA!
SINTESI PARASHÀ
Questa riflessione possiamo trovarla nella parashà di questa settimana all’ottavo (Sheminì) giorno di iniziazione di Aharon e dei suoi figli viene inaugurato il Mishkàn, il santo Tabernacolo dove risiederà la presenza divina.
In un momento così importante, nel quale spirito e materia si uniscono, vorremmo fare una digressione al momento in cui Hashèm chiede ordinò a Moshe è di costruire il Tabernacolo, richiesta che avviene in Shemot 25, 8:
“E mi faranno un santuario e Io risiederò in mezzo a loro”
L’espressione ebraica “in mezzo a loro”, betokhàm, ha un doppio livello di lettura, infatti può essere interpretata anche come “DENTRO di loro”.
Da qui la tradizione evince la presenza di due santuari, uno materiale (esteriore) che l’essere umano è tenuto a erigere attraverso le opere delle proprie mani, poi vi è anche un santuario interiore, lo spazio sacro costruito attraverso la preghiera e lo studio della Torà.
Non è certo un caso che i mistici danno alle lettere ebraiche l’appellativo di avanim – pietre. Il tempio di Gerusalemme era fatto con l’opera delle mani dell’uomo ed era in pietra, allo stesso modo attraverso le parole della Torà, anch’esse fatte di “pietre incise su pergamena”, possiamo costruire un santuario interiore dove la presenza divina può dimorare.
L’anima ebraica è intimamente legata alle lettere della Torà e da queste può essere consacrata e risvegliata, questo è il profondo motivo per cui il Mishkàn viene inaugurato l’ottavo giorno (sheminì).
In ebraico la parola shemone – otto, ha le stesse lettere di shemen – olio, il sacro unguento con cui si ungevano i cohanìm e gli arredi del tabernacolo per consacrarli ad Hashèm, ma shemone possiede anche le stesse lettere di neshemà – anima. Inoltre, sempre le stesse lettere formano il nome ebraico di uno dei figli di Yossèf, Menashè, il cui significato è “dimenticare” le afflizioni che l’esilio portò a Yossèf.
Il Santuario interiore viene consacrato nel momento in cui poniamo le lettere che compongono la Torà “come sigilli sulla nostra mano e come frontali ai nostri occhi”, in quell’esatto momento la forza spirituale delle lettere ebraiche “unge” e consacra la nostra anima, le nostre afflizioni dovute all’esilio vengono così “dimenticate”, il nostro corpo materiale viene illuminato e permeato dallo spirito che rinnova ogni giorno, attraverso la preghiera, la sua unione con il creatore.
LUTTO o GIOIA?
Il primo giorno di Nissàn fu per Aharon un giorno di grande gioia, ma anche di grande tristezza. Gioia per l’inaugurazione del Mishkàn, tristezza perché quel giorno hanno perso la vita due dei suoi quattro figli.
Nel corso dei secoli, i nostri maestri hanno cercato una spiegazione per la morte di Nadav e Avihu. Secondo alcuni, entrambi i giovani sono morti per essersi avvicinati ubriachi all’altare. Per altri sono stati puniti per non aver purificato le mani e i piedi prima di compiere il servizio divino. Un’altra opinione sostiene, invece, che si trattò del castigo per aver voluto introdurre una nuova norma, mettendo così in discussione l’autorità di Moshè e Aharòn.
Al di là dei motivo della loro morte, tramandando questo episodio la Torà ci trasmette un profondo insegnamento. I figli di Aharòn andarono a offrire un fuoco “estraneo” che nessuno aveva loro ordinato. Il fine che essi perseguivano – avvicinarsi a Dio – era legittimo, ma il mezzo attraverso il quale agirono non lo fu. Essi tentarono di avvicinarsi più di quanto era stato loro ordinato e lo zelo eccessivo, costò loro la vita.
Attualmente nel mondo, ci sono persone sinceramente convinte di avvicinarsi a Dio, di cercare la propria strada, assumono atteggiamenti portati all’estremo. Oggigiorno basta aprire un giornale per rendersi conto del proliferare del fanatismo e delle sue disastrose conseguenze: si arriva a uccidere in nome di Dio. La Parashà di Sheminì ci insegna che il fanatismo è un atteggiamento sbagliato.
Dobbiamo cercare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le nostre forze; ma questa ricerca deve essere serena ed equilibrata, e soprattutto deve permetterci di sviluppare le nostre risorse migliori, in armonia con tutto ciò che ci circonda.
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SHEMINI
PUNIZIONE PARI ALLA COLPA!
Perché Iyov-Giobbe viene punito così fortemente?
Al seguente link potrai scaricare la lezione della Parashà di questa settimana:
www.virtualyeshiva.it/files/08_03_27_shemini5768_nadav_avihu_iyov_diplomazia.mp3
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Per ascoltare le altre lezioni sulla parashà:
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Se ascolti le lezioni è doveroso dedicare parte della decima a mantenere viva questa grande opera di divulgazione di Torà.
Aiutando Virtual Yeshiva si diventa soci nella diffusione della parola di Hashèm ed è un segno di riconoscenza per chi insegna e così potremo diffondere insieme molti più valori di vita e insegnamenti.
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Per saperne di più si può scrivermi una mail o collegarsi al seguente link:
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Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor
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QUANDO LO STUDIO DELLA TORÀ
È SOLO A METÀ DEL GUADO!
“Ci sono solo due cose che sono infinite: l’universo e la stupidità umana” – Albert Einstein.
http://www.virtualyeshiva.it/
SHEMINI 5771 – QUANDO LO STUDIO DELLA TORÀ È SOLO A METÀ DEL GUADO!
“Ci sono solo due cose che sono infinite: l’universo e la stupidità umana” – Albert Einstein.
SHEMINI 5770 – LIBERO ARBITRIO O TELECOMANDATI?
Da una semplice regola di impurità dei liquidi che vengono in contatto impariamo un incredibile insegnamento del rapporto con Hashem.
SHEMINI 5768 – PUNIZIONE PARI ALLA COLPA!
Perché Iyov-Giobbe viene punito così fortemente?
SHEMINI 5765 – L’OTTAVO GIORNO E L’ERA MESSIANICA.
La prospettiva messianica del legame tra l’ottavo giorno, dopo l’edificazione del Santuario, e gli attributi di kasherut degli animali.