KI TAVO 5784 : 8 LEZIONI
Questo Shabbàt 21 Settembre 2024, 18 del mese di ELUL 5784
leggeremo la Parashà di Ki Tavò
Deuteronomio 26: 1 – 29: 8
HAFTARÀ ITALIANI:
Giosuè 8: 30 – 9: 27.
HAFTARÀ MILANESI, TORINESI, SEFARDITI e ASHKENAZITI:
Isaia 60: 1 – 22.
KI TAVO
Sappiamo che ogni insegnamento della Torà è anche un manuale di vita.
Da questa settimana troviamo tanti concetti dal precetto delle primizie. In primis troviamo il seguente insegnamento della vera identità di Israel.
***
Un uomo armato, un folle, irrompe improvvisamente nella casa di due coniugi.
Puntando il fucile verso la donna, le chiede il suo nome. La donna terrorizzata mormora: “Elisabetta”. “Questa è la tua serata fortunata”, risponde l’uomo armato. “Non riesco proprio a uccidere qualcuno che porta il nome di mia madre, che la sua anima riposi in pace. Mia madre era una donna speciale. Non ti sparerò”.
Poi punta il fucile alla testa del marito e gli chiede: “Come ti chiami?” tuonò l’uomo armato. “Il mio nome è Harry”, risponde il marito terrorizzato, “ma tutti mi chiamano Elisabetta!”.
Oggi Siete Diventati un Popolo
Questo è uno strano versetto. Gli Israeliti hanno vagato nel deserto per quarant’anni. È passata un’intera generazione da quando sono stati liberati dalla schiavitù egiziana. Mosè sta parlando al popolo, settimane prima della sua dipartita, e dice loro: «Presta attenzione e ascolta Israele! Oggi sei diventato un popolo per il Signore, il tuo Dio (Devarìm Ki Tavò 27, 9)
Oggi siete diventati un popolo? Questo è strano, non sono forse già un popolo libero da quattro decenni. Oltretutto, anche prima, mentre erano in Egitto, erano già un popolo distinto dagli altri. Pertanto come può Moshè negare la lunga e ardua storia della sua nazione? Immaginate se in un discorso sullo stato dell’Unione il Presidente degli Stati Uniti dichiarasse: “Oggi siete diventati un popolo!” Gli americani, naturalmente, si offenderebbero. George Washington, Thomas Jefferson, Benjamin Franklin e John Adams sono stati insignificanti? Pertanto, come può Moshè affermare senza mezzi termini: “Oggi siete diventati un popolo”?!
SULLA DEFINIZIONE DELL’IDENTITÀ EBRAICA
Quando il Rebbe di Klausenburg Ordinò che le Maledizioni Fossero Lette ad Alta Voce
Rashi turbato da questa domanda, risponde che Moshè stava dando un messaggio che “Ogni singolo giorno, dovrebbe sembrarti come se in quel momento stessi entrando in un patto con Hashèm”. L’ebraismo, infatti, dovrebbe essere fresco e nuovo, ogni giorno. Tuttavia, il significato chiaro sembra suggerire che Moshè stesse dicendo che proprio ora, mentre erano pronti a concludere i loro anni nel deserto ed entrare nella Terra Promessa, sarebbero diventati un popolo.
La Genesi della Nazionalità
Ho ascoltato una meravigliosa riflessione dell’ex rabbino capo di Israele, il rabbino Israèl Mèir Lau che si chiese: “Quando è stata la prima volta che noi ebrei siamo stati definiti una nazione? Chi ci ha conferito per primo il titolo di Nazione? In tutta la Genesi non siamo mai chiamati popolo; siamo stati chiamati sempre come una famiglia, i figli d’Israele, ossia i figli di Giacobbe che in seguito fu chiamato Israele. Chi, allora, decise di trasformarci da famiglia in popolo?”
La risposta è controintuitiva e sbalorditiva, ma profondamente rivelatrice, poiché a fare ciò fu il Faraone, il tirannico imperatore d’Egitto, all’inizio di Shemòt (1, 8 – 10). Fu lui a definirci per primo come un popolo: “E sorse sull’Egitto un nuovo re che non aveva conosciuto Yossèf. Egli disse ai suoi sudditi: «Ecco che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e potente di noi. Orsù, meditiamo riguardo a questo (popolo) affinché non si moltiplichi e, qualora avvenga una guerra, non si aggiunga anch’esso ai nostri nemici e combatta contro di noi e lasci il paese»”.
Il faraone quindi predispone un programma sistematico di genocidio per la nazione in crescita che, teme, prenderà il controllo dell’Egitto. Infatti, nella porzione di questa settimana, Ki Tavò (26, 5) la Torà afferma: “I nostri padri scesero in Egitto e là divennero una nazione…”. In Egitto siamo definiti come un popolo, quindi questo titolo ci è stato lasciato in eredità dal re egiziano.
Sono passati 130 anni da quando il faraone ci ha definiti una nazione. E ora, nel deserto, Moshè dichiara: “Oggi siete diventati un popolo!” Come è possibile? Perché Moshè avrebbe detto al popolo che sono diventati una nazione oggi, più di un secolo dopo che il faraone aveva definito gli ebrei come una nazione?
Che Cosa È un Ebreo?
La Torà, in modo sottile e sofisticato, affronta una delle grandi domande che avrebbe interessato il popolo ebraico nel corso della storia: cosa significa essere ebreo, qual è il filo conduttore che lega tutti gli ebrei? Ci sono due possibili risposte a questa domanda: una è data dal Faraone, l’altra da Moshè.
Il Faraone ci definisce come un gruppo che rappresenta una sfida per l’Impero egiziano. Ciò che ci distingue come popolo è che il Faraone è minacciato da noi ed è determinato a liberare il mondo dalla nostra influenza. Ciò che ci lega come popolo è il fatto che il Faraone ci odia. Ciò è stupefacente! La nostra prima menzione in assoluto come popolo (un’unità collettiva all’interno dell’umanità) è nel contesto dell’antisemitismo, quando il monarca egiziano dichiara che “Ecco questa nazione, i figli di Israele, rappresentano una minaccia per noi”. Da questo punto di vista la definizione della nostra identità è quella di un gruppo o popolo che scatena un odio profondo. Pertanto, secondo questa concezione, essere ebrei significa che qualcuno là fuori ci disprezza…!
La definizione di Moshè della nostra identità di popolo è radicalmente diversa. “Diventerete un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Shemòt 19, 6), ci dice sul monte Sinai. O con le sue parole in Ki Tavò: “Oggi siete diventati un popolo e osserverete tutte le mitzvòt di Dio”. Da quel momento in poi siamo legati insieme da una visione comune per costruire un mondo santo, per concedere al creato la dignità di uno scopo, per costruire un mondo fatto di moralità, compassione e amore. Ciò che unisce la nostra identità è l’avere delle fondamenta basate su un patto d’amore, con l’impegno condiviso per riconoscere l’immagine di Dio in ogni essere umano e per rivelare l’unità dell’umanità sotto un unico Creatore.
Ciò che ci unisce come popolo, dice Moshè, non è il fatto che il Faraone ci odi, ma che Dio ci ama e ci ha scelti come suoi ambasciatori per civilizzare e santificare il pianeta. Se oggi esiste la democrazia nel mondo è SOLO perché 3.336 anni fa è stato dato sul monte Sinai il primo codice di leggi e di rispetto verso il prossimo. Fino a quel momento il mondo era solo dominato da tiranni che schiavizzavano i deboli. Solo dopo il dono della Torà il mondo ha iniziato a cambiare gradualmente, tanto che oggi possiamo godere di una società democratica grazie alla Torà. Infatti, come spiegato in un’altra lezione, con il dono della Tor inizia il processo di tikkùn, rettifica, per creare equilibrio e civiltà nel mondo.
Ecco perché Moshè è così irremovibile, dichiarando: “OGGI siete diventati un popolo”. Non ieri, ma oggi. E come se Moshè dicesse “so che, con il trascorrere dei secoli, alcuni potrebbero essere tentati di definire la propria identità in termini di antisemitismo. So che alcuni di voi potrebbero permettere al faraone di definire il significato di essere ebrei”, ma NO dice Moshè. “Non permettete ai ‘faraoni della storia’ di definire il significato di essere ebrei, poiché OGGI SIETE DIVENTATI UN POPOLO”. Oggi, dopo quarant’anni di studio della Torà nel deserto, interiorizzandone la sua visione sul Sinai, possiamo finalmente apprezzare ciò che ci unisce come popolo: il coraggio di vivere con la consapevolezza dell’Unità; la dedizione al progetto divino per la vita, illuminando il mondo tramite la luce della Torà e delle mitzvòt; la prontezza a diventare fari di spiritualità per tutta l’umanità.
Cosa ci Unisce?
Il famoso saggio babilonese del IX secolo, il rabbino Sa’adyà Gaon, si trovò di fronte a questa domanda: in mancanza di uno stato sovrano e di un’identità nazionale, sparsi in tutto il mondo, cosa ci definisce come popolo? Cosa lega l’ebreo del Marocco all’ebreo di Spagna? L’ebreo dell’Iraq all’ebreo di Francia? Cosa li rende parte di un’unica nazione?
La sua risposta è stata questa: gli ebrei in Marocco e in Spagna non condividono la stessa terra, cultura, identità nazionale, lingua, governo e clima sociale, cibo, costumi… Cosa li rende, allora, un UNICO popolo? Come possono essere visti come parte di una nazione? È perché sono entrambi disprezzati nei loro paesi? La risposta è perché amano, respirano e vivono la stessa Torà: “Oggi siete diventati un popolo” e non come quando siete usciti dall’Egitto dove non avevate ancora la Torà come fulcro del popolo e dove il faraone aveva un’errata percezione del senso del popolo ebraico.
Destino Condiviso
Si parla spesso del fatto che tutti gli ebrei sono uniti dal fatto che gli antisemiti ci odiano. Mengele (medico e membro delle SS uno dei più spietati criminali nazisti) ha mandato ogni tipo di ebreo alle camere a gas. Questo è vero, ma manca qualcosa. Questa definizione è quella che ci ha dato il Faraone. Nella sua mente contorta eravamo “il popolo dei figli d’Israèl”, una nazione differente dalle altre certo, ma nel senso dispregiativo del termine: il nostro sangue è meno rosso e il nostro onore meno apprezzato, tanto che la nostra libertà può essere calpestata. Pertanto, ogni discriminazione contro di noi è giustificata.
Circa ottant’anni fa, abbiamo vissuto la stessa sorte. Gli ebrei di Berlino e Varsavia hanno condiviso lo stesso destino. Chassidìm, Litvak, Ashkenazìm, Sefarditi, ebrei della Bulgaria, Grecia, Ucraina e Italia; comunisti di sinistra e sionisti di destra, riformatori ed ebrei ortodossi, sono stati tutti decimati malvagiamente con lo “stesso zelo”.
Arriva Moshè e dice al popolo ebraico: “Oggi siete diventati un popolo!” Dobbiamo scoprire una visione più profonda ed eterna che possa unirci. Non si può ispirare i nostri figli a rimanere orgogliosi ebrei se la loro unica comprensione dell’identità ebraica sono i pericoli che sopportiamo. Difficile voler far parte di un popolo del genere? Inoltre, quando si vive in un paese che tratta tutti i suoi cittadini con pari dignità, cosa ci permette di rimanere ebrei?
Questa è la domanda a cui dobbiamo rispondere oggi: chi ci definirà ebrei? Il faraone o Mosè? Tito o Rabbi Akiva? I crociati o Rashi? Richard Wagner o il Gaon di Vilna? Julius Streicher o il Rebbe di Lubavitch? I bambini ebrei che studiano la Torà o i mullah dell’Iran?
Saremo per sempre vincolati solo da un “destino” che ci costringe a definirci solo quando affrontiamo un nemico comune; oppure saremo vincolati da sogni e ideali condivisi eterni? La nostra identità si fonda sulle tragedie avvenute o dai nostri ideali che cerchiamo di realizzare in questo mondo?
Come dice il grande maestro Rabbi Saadya Gaon:
L’antisemita non può creare l’ebreo; la Torà (e Dio) deve creare l’ebreo.
Dillo più Forte!
Il rabbino Shlomo Riskin, oggi rabbino capo di Efràt, Israele, ha raccontato questa esperienza personale della sua giovinezza a Brooklyn, New York: “Non ero mai stato in quella particolare sinagoga prima, né avevo mai pregato con i chassidìm. Ma il Rebbe di Klausenberg (vedi foto), il rabbino Yekusiel Yehudà Halberstam (1905-1994), era particolarmente noto come un santo maestro chassidico che aveva ridato vita ai suoi chassidìm sopravvissuti all’Olocausto dentro e intorno al Beth Moses Hospital, nella sezione Bedford Stuyvesant di Brooklyn. E così, una mattina d’estate del 1952, durante lo Shabbàt di Ki Tavò, sono partito da casa mia in Hart Street per un “mondo” fatto da vestiti neri e cappelli di pelliccia rotondi, desideroso di avere l’opportunità di essere in presenza di un uomo veramente santo e di sperimentare un rito chassidico”.
“Ora la lettura della Torà di Ki Tavò è scandita da 53 versetti che elencano le punizioni in serbo per Israele quando abbandonano l’insegnamento di Dio: ‘Se non obbedisci al Signore tuo Dio e a tutti i Suoi comandamenti e statuti, allora queste maledizioni verranno su di te… Dio ti colpirà con la consunzione e con la febbre e con un’infiammazione e con un’estrema combustione e con la spada… Dio trasformerà la tua pioggia in polvere… E i tuoi cadaveri saranno cibo per tutti gli uccelli del cielo e per le bestie della terra. Dio ti colpirà con la pazzia e la cecità e una confusione di cuore. Dio farà venire contro di te una nazione da lontano, dall’estremità della terra, che piomberà giù come un’aquila, una nazione di cui non capisci la lingua. Una nazione arrogante e altezzosa che non ha rispetto per il vecchio né misericordia per il giovane.’” (Devarìm 28, 15 – 50).
È facile capire perché l’usanza ebraica prescrive che questi versetti siano letti a bassa voce. Questa Tokhakha (“ammonimento”) non è qualcosa che siamo molto ansiosi di sentire, ma se dobbiamo sentirlo come parte del ciclo della Torà, allora anche le parole sussurrate, senza il solito canto, sono già abbastanza scioccanti.
“Sono arrivato nell’enorme sala studio prima ancora che iniziasse il servizio mattutino e, sebbene fossi l’unico ragazzo nella congregazione a non indossare un vestito nero, mi sono sentito travolto dall’intensità delle persone che pregavano, ondeggiavano e gridavano come se sospettassero che l’Onnipotente non avrebbe potuto ‘prestare orecchio’, per così dire, a un servizio più silenzioso del cuore.”
“Poi venne la lettura della Torà. In conformità con l’usanza, il lettore della Torà iniziò a cantare gli ‘ammonimenti’ sussurrandoli. E inaspettatamente ma inequivocabilmente, la parola yiddish ‘hekher’ (più forte) arrivò dalla direzione del leggio su cui il Rebbe di Klausenberg era appoggiato.”
“Il lettore della Torà smise di leggere per qualche istante; i fedeli alzarono lo sguardo dai loro khumashìm, una sorta di silenzio interrogativo e persino leggermente scioccato. Avevano compreso correttamente l’invito del loro Rebbe? Stava ordinando al lettore della Torà di andare contro un’usanza consolidata e di cantare la Tochacha (ammonimenti) ad alta voce?”.
“Il lettore della Torà continuò a leggere a bassa voce, apparentemente concludendo che non aveva sentito ciò che pensava di aver sentito. Allora il Rebbe di Klausenberger, per confutare ogni dubbio, batté sul suo leggio, si voltò verso la congregazione sbalordita e gridò in yiddish, con un’espressione di dolore sul volto e il fuoco che gli ardeva negli occhi: ‘Ho detto più forte! Leggi questi versetti ad alta voce! Non abbiamo nulla da temere, abbiamo già sperimentato le maledizioni. Lasciamo che il Padrone dell’Universo le ascolti. Lasciamo che sappia che le maledizioni ci sono già accadute e che sappia che è tempo per Lui di inviare solo le benedizioni!’”.
“Il Rebbe di Klausenberg si voltò verso il muro e il lettore della Torà continuò a cantare lentamente ma stavolta ad alta voce. Tremavo, con le lacrime che mi rigavano le guance, il corpo bagnato di sudore. Avevo sentito che il Rebbe aveva perso la moglie e 11 figli nell’Olocausto… Le sue parole mi bruciarono nel cuore”.
“Non riuscivo quasi a concentrarmi sulla conclusione della lettura della Torà. ‘È tempo che Lui mandi le benedizioni!’”.
“Dopo la fine del servizio, il Rebbe si alzò per parlare. Le sue parole furono di nuovo brevi e dirette, ma questa volta i suoi occhi erano caldi d’amore, lasciando un’espressione indelebile nella mia mente e anima.
“‘Miei amati fratelli e sorelle’, disse, ‘fate le valigie’. Dobbiamo fare un’altra scossa, speriamo l’ultima. Dio promette che le benedizioni che devono seguire le maledizioni arriveranno ora”.
Poi ha parlato della benedizione per la Terra d’Israele, la patria eterna del popolo ebraico”.
Alcuni anni dopo il Rebbe fondò Kiryàt Sanz – Klausenberg a Netanya, dove il rabbino di Klausenberg costruì una grande comunità e l’acclamato centro medico Laniado.
Non possiamo essere una nazione che si sofferma sulle “maledizioni” che ci sono capitate. Naturalmente, dobbiamo ricordare il nostro passato e combattere con incrollabile chiarezza e passione contro ogni nemico che desidera portare odio e maledizione al nostro popolo, Dio non voglia. Non dobbiamo mai dimenticare che l’Iran, Hamas e tutti i jihadisti fondamentalisti non fanno distinzione tra l’ebreo chassidico più di destra e l’ebreo liberale più di sinistra. Vogliono che entrambi siano maledetti e braccati. Dobbiamo quindi unirci come veri fratelli e difendere il nostro popolo di Israele, la nostra patria, la giustizia e la pace.
Ma le nostre maledizioni non devono mai definirci. Le nostre benedizioni devono ispirarci e catapultarci all’azione.
In effetti, “è tempo che Egli ci mandi le benedizioni!” È tempo che Egli mandi le benedizioni più grandi e vitali, la benedizione di Mashìakh e la nostra vera e completa redenzione ora, amen!
Tratto da uno scritto di Y. Y. Jacobson
Qualche anno fa sempre in questo periodo di fine agosto la Ferrari ha vinto il gran premio del Belgio pur non essendo stata la più veloce nelle prove. Perfino Hamilton che era in pole position è arrivato secondo e non riusciva a capacitarsi della velocità della Ferrari. A Maranello gli ingegneri Ferrari si complimentano della loro bravura che ha portato alla vittoria. Ci sono delle logiche per razionalizzare questa vittoria senza dubbio, ma nella vita la sola bravura non è sufficiente: ci vuole anche la FORTUNA. Una pezza che viene dal Creatore che decide tutto. Dio ci chiede di fare del nostro meglio, in questo modo saremo meritevoli di accedere a questa fortuna e alla pezza che deve aggiungere Lui.
La Ferrari ha meritato la fortuna dal cielo perché ha fatto qualcosa di molto importante.
La Parashà di questa settimana ci insegna quali sono le condizioni per meritare la benedizione divina, questa potrebbe essere una delle spiegazioni “segrete” della vittoria della Ferrari.
Quando il successo viene attribuito solo alla bravura umana, questo ci stacca dalla “fortuna” che ognuno ha bisogno per vincere. Spesso sentiamo frasi come: questa partita la porta era stregata e non entrava una palla in rete! Non basta essere i più forti per vincere bisogna avere un “tocco” da Hashèm, quest’ultimo è il fattore più importante.
La chiave del successo, ci insegna la Torà, è di ricordarsi di essere umili e quindi di condividere con gli altri la benedizione che Dio ci ha donato. La natura inferiore dell’uomo è quella di gratificare solo se stesso, perciò il ricco rischia di dimenticare il povero, perché è il ricco che ha guadagnato non Dio e allora può illudersi di fare quello che vuole dei suoi soldi. Poi finisce che si illude di essere più contento se tiene tutto per se stesso, ma in realtà più si dà agli altri più si guadagna; più si dà agli altri e più si è felici.
Noi abbiamo il dover di preparare il recipiente, che è come arare il terreno, ma se la pioggia non scende, la nostra fatica non serve a niente.
Nel gran premio di questa settimana la Ferrari ha disegnato il suo marchio “cavallino rampante” sul musetto della macchina sotto il ponte Morandi con scritta NEI NOSTRI CUORI, come segno di solidarietà alla città di Genova e ai poveri morti innocenti. Quando una delle più importanti case automobilistiche, trova l’umiltà di abbassarsi e ricordare chi è caduto in basso e si trova in difficoltà dando solidarietà, questo è il migliore trampolino per ricevere la benedizione dall’alto e vincere sempre nella vita.
Questo lo vediamo nella porzione settimanale della Torà di Ki Tavò. La parashà comincia affrontando due obblighi del contadino: portare i suoi primi frutti al Santuario e ringraziare Hashèm, affinché benedica la sua terra. Al contadino è comandato di essere pieno di gioia e felicità come risultato di tutta l’abbondanza che Hashèm gli ha conferito.
Successivamente la Torà cambia argomento e inizia a descrivere un altro obbligo del contadino: la decima dei suoi raccolti per i poveri, agli orfani e le vedove, da dare ogni tre anni.
COME ESSERE VINCENTI
Per cui la sequenza dei concetti è: il precetto delle primizie, successivamente la gioia nel portarle, infine fare atti solidali verso il prossimo.
Qual è la relazione che si instaura tra la mitzvà della gioia (felicità) e quella della tzedakà-opere benevoli?
Secondo il Bàal Haturìm, la relazione tra questi due concetti è che noi possiamo assicurarci la felicità solo se ci preoccupiamo e provvediamo alle necessità dei poveri e dei bisognosi.
Non c’è esempio migliore della connessione tra felicità e tzedakà della festa di Purim. Durante questa festa beviamo vino, partecipiamo a un pasto molto abbondante e raggiungiamo la vetta della gioia tramite balli e canti. Anche nel mezzo di tutti questi festeggiamenti ci è comandata una speciale mitzvà: dare tzedakà ai poveri.
Nell’ebraismo felicità e tzedakà sono spesso collegate, poiché l’unico vero modo per sentirci bene dentro è quando abbiamo la certezza che attorno a noi non ci siano persone che soffrono o patiscano la fame. Come può una persona sentirsi contenta se il suo vicino è affamato?
Troviamo perfino una legge pratica che dice questo: se una persona durante un pasto passa da un buon vino a un vino ancora migliore deve fare la benedizione di “Hatov Vehametiv” – il buono e il migliore. Ma questo vale solo a condizione che si beva in compagnia, solo allora si manifesta vera gioia per aver cambiato da un buon vino a uno migliore. Un grande magnate che si trova sul suo Yacht da 50 metri e beve da solo il migliore vino al mondo non può fare questa benedizione in quanto non è veramente felice. Probabilmente penserà di esserlo, ma in realtà non sarà mai felice come un uomo che beve con amici.
Un’altra ragione che spiega il motivo per cui per essere felici bisogna dare agli altri è la seguente: la benedizione, e quindi la gioia e felicità, provengono da Hashèm solo quando Egli vede che ci preoccupiamo del benessere degli altri. Solo quando dimostriamo interesse per i nostri fratelli Hashèm dimostra altrettanta attenzione nei nostri confronti, come dice il salmo 121, “Hashèm è la tua ombra”: Così come tu ti muovi nei confronti degli altri Lui, Hashèm, si muove nei tuoi confronti.
La parola usata per le offerte per il Tabernacolo è VENATNU ונתנו- “e daranno”. Questa parola è palindroma, ovvero si può leggere ugualmente sia da destra che da sinistra: quando una persona aiuta gli altri fa il migliore investimento al mondo, allora ciò che ha fatto torna indietro e dal Cielo daranno anche a lui. Per questo questa parola può essere letta in entrambe le direzioni: quando daranno donazioni, avranno indietro tanta benedizione e guadagno. In questo modo possiamo vedere come la Tzedakà ci aiuta a sentirci felici, poiché tramite essa Hashèm ci garantisce una benedizione speciale, gioia e felicità.
Perciò leggiamo di portare le primizie all’inizio di Ki Tavò a condizione che siamo felici, allegri e grati per il raccolto che Dio ci ha donato. Ma per ottenere una vera gioia continua la Torà ci dice anche di non dimenticarci del povero, la decima del tuo guadagno appartiene a lui. Solo così potrai veramente essere felice quando porterai le primizie.
Scarpe Bucate O Scarpe Infangate?
Rabbi Eliyahu Chaim, il Rav di Lodz, apriva la sua casa ai visitatori provenienti da ogni dove.
Una sera un viaggiatore stanco venne a fargli visita. Rav Eliyahu Chaim, mentre si recava nella camera dell’ospite per verificare se era tutto a posto, notò che le sue scarpe erano bucate e lacerate. Attese finché l’uomo non si fosse addormentato, poi entrò in punta di piedi nella stanza, prese con sé le scarpe lacerate e le sostituì con le proprie.
La mattina successiva l’ospite si alzò e si vestì di fretta, non realizzando cosa Rav Eliyahu Chaim avesse fatto. Era partito presto per riprendere il suo viaggio, e, dal momento che le strade non erano ben lastricate, le sue scarpe si coprirono presto di fango. Pertanto, non riuscì a vedere e accorgersi delle sue “nuove” scarpe. Quando Rav Eliyahu Chaim realizzò che il suo ospite se n’era andato senza far caso allo scambio, fu MOLTO contento. “Non sarebbe meraviglioso se non se ne accorgesse mai” egli pensò. “Allora non solo non dovrà soffrire per delle scarpe rovinate, ma non saprà mai di aver accettato della tzedakà”.
Questa, naturalmente, è la Tzedakà di grado più alto. I nostri saggi infatti sostengono che la più alta forma di tzedakà sia appunto quando colui che la riceve non sa da chi proviene e, in questo modo, non si sente imbarazzato nell’atto di accettarla.
Dice il Talmùd: “Se sei un donatore generoso non avrai mai problemi” (Derekh Eretz Zota 2).
“Ogni giorno Hashèm loda l’uomo ricco che distribuisce tzedakà in privato” (Pesakhìm 112).
Quando guadagniamo, diamo almeno la decima al prossimo, saremo più felici noi e tanto più benedetti!
Avere un corpo sano ed equilibrato è una delle nostre missioni in questo mondo.
Ma non per metterci in mostra o per divinizzare la bellezza del corpo come gli elleni, quanto piuttosto per valorizzare il dono della vita che abbiamo ricevuto da Hashèm, per essere sani e realizzare al meglio la nostra missione in questo mondo.
Il Maimonide nella sua grande opera Yad Hakhazaka ci illumina su come mantenere un corpo sano, e tra queste regole ci sono due insegnamenti che mi hanno cambiato la vita e non smetterò di ripeterli:
1. Alzarsi da tavola quando si ha ancora spazio nello stomaco, ovvero mai riempirsi completamente. Paradossalmente ci si dovrebbe alzare quando si ha ancora un po’ fame. In inverno almeno il 25% della nostra capienza dello stomaco deve rimanere libera, in estate il 38% circa.
2. Non bisogna mangiare solo perché è l’ora di mangiare ma solamente quando si ha fame. In altre parole si deve fare in modo che quando sarà l’ora del pasto lo stomaco sia vuoto, evitando di mangiucchiare continuamente. Se non si è stati attenti meglio ritardare il pranzo o la cena finché si avrà fame.
Chi fa attenzione alla qualità dei cibi che mangia (bio etc.) deve fare ancora più attenzione alla loro quantità, che è più dannosa.
Promette il Maimonide che chi è attento alla quantità del cibo, che non sia eccessiva, non vedrà gran parte delle malattie.
Non a caso invece di augurare buon appetito si usa augurare nella tradizione ebraica idish: es gezunter heit, ovvero di mangiare con consapevole moderazione e BUONA SALUTE!!!
TENERSI IN BUONA SALUTE FA PARTE DEL NOSTRO SERVIZIO DIVINO (RAMBAM)
ECOLOGIA NELLA TORÀ
Nella parashà (Ki Tavo) di questa settimana, troviamo uno dei comandamenti più “verdi” della Torà: la mitzvà di Bikurim, i “primi frutti”, che si porta a Shavuòt.
Se vivi nella terra di Israele e nel tuo frutteto è cresciuto uno dei frutti speciali con cui la terra è stata benedetta (uva, fichi, melograni, olive o datteri) devi adempiere al precetto, comandato dalla Torà nella porzione settimanale, di selezionare i frutti maturi, di metterli in un cesto e portarli al Tempio Santo come dono per il Cohen (sacerdote).
Una magnifica ed emozionante cerimonia ha sempre accompagnato la “performance” di questa tradizione annuale. La Mishnà, nel trattato di Bikurim, fornisce una rappresentazione molto dettagliata e folcloristica:
a) Come si separano i Bikurim? Una persona scende nel suo campo e se vede un fico, un grappolo d’uva o un melograno che sono maturi; li lega con una stringa e dichiara: “Questi sono Bikurim!”.
b) Come si portano i Bikurim? Tutti gli agricoltori che vivono nei villaggi circostanti si riuniscono in un unico villaggio e dormono nelle strade (essenzialmente era una sorta di festival all’aperto). Al sorgere del sole, un incaricato dichiara: “Saliamo a Sion, al Signore nostro Dio!” E quindi tutti partono verso Gerusalemme.
c) Durante l’intero viaggio cantano il verso dei Salmi (122, 1): “Ho gioito quando mi hanno detto, andiamo verso la casa di Dio”. In testa a tutti vi è un bue con le corna ricoperte d’oro e con una corona di foglie di oliva sulla sua testa (da notare che perfino il bue che conduceva la strada era parte della celebrazione). Il suono del flauto li precede, fino a Gerusalemme.
d) Mentre si avvicinano a Gerusalemme, mandano dei messaggeri per notificare al popolo di Gerusalemme del loro arrivo e iniziano a decorare i loro cesti. I governanti, i prefetti e i tesorieri del tempio sono lì ad accoglierli. Quando gli agricoltori entrano nei portali di Gerusalemme, cominciano a cantare il versetto dei Salmi (ibid): “Le nostre gambe sono presso le tue porte o Gerusalemme”. Tutti gli artigiani di Gerusalemme escono per salutarli dicendogli: “Fratelli! Benvenuti!”
e) Arrivati alla città santa, con il suono del flauto che li precede fino al Monte del Tempio, ognuno pone il suo cesto sulla spalla. Anche il re Agrippa [l’ultimo re Giudeo prima della distruzione del Tempio e della diaspora ebraica nel 68 e.v.] pone il suo cesto sulla spalla ed entra fino alla Corte del tempio [Azarà] dove i leviti cominciano a cantare.
f) Ogni agricoltore, con il suo cesto di frutta, nel cortile del tempio dice al Cohen: “Io dichiaro oggi al Signore, tuo Dio, che sono venuto nella terra che il Signore ha promesso ai nostri antenati”. Il Cohen allora sollevava il cesto di frutta, e l’agricoltore, con voce alta e festosa, pronunciava questa dichiarazione: “Mio padre [Giacobbe] era un Arameo vagabondo, e scese in Egitto con poche persone e visse lì e divenne una grande nazione, potente e numerosa. “Ma gli Egiziani ci hanno trattati crudelmente e ci hanno afflitto, e hanno imposto un duro lavoro su di noi. Così abbiamo gridato al Signore, Dio dei nostri padri, che ha sentito la nostra voce e ha visto la nostra afflizione, il nostro travaglio e la nostra oppressione. Poi ci ha portati fuori dall’Egitto con una mano potente e braccio disteso, con grande terrore e con miracoli. E ci ha condotti in questo luogo, e ci ha dato questa terra, una terra dove scorre latte e miele. E ora, beh, ho portato il primo dei frutti del suolo che tu, o Signore, mi hai dato”.
g) Il Cohen restituisce il cesto al donatore il quale lo mette vicino all’altare del tempio, poi si prostra e esce. Si rimane tutta la notte a Gerusalemme per tornare a casa il giorno successivo.
Abbiamo letto questa descrizione e possiamo sentire, come se fossimo presenti, la gioia e l’eccitazione che cresce lentamente quando i contadini si riuniscono e cominciano ad andare verso Gerusalemme. Sentiamo l’estasi della celebrazione e il senso di cameratismo nell’arrivo dei Bikurim al Santo Tempio. I governanti, i dignitari e persino il re hanno partecipato alla festa. La musica non si fermava e l’energia era elettrizzante. Un’occasione importante, una scena IMPERDIBILE.
UN SEMPLICE CONTADINO PER UN EVENTO GRANDIOSO
Un povero contadino, un ragazzo o un vecchio, porta qualche frutto in un modesto cestino a Gerusalemme come un dono al sacerdote che, lavorando nel tempio, viene sostenuto dalla comunità. È un gesto gentile e una bella azione. L’agricoltore non sta portando tutto il suo raccolto: dona solo uno, due o tre frutti (forse più, forse meno). La sua offerta non è insolita nella sua generosità. Il suo frutteto può, infatti, produrre frutti piccoli e impoveriti, oppure anche grandi e deliziosi frutti. Di solito prende alcuni fichi, un po’ qua e un po’ la e li porta a Gerusalemme. Cose come queste accadono milioni di volte al giorno nel mondo: i contadini consegnano i loro frutti a case, negozi e mercati.
Quindi cosa significa un tale benvenuto? Perché un cerimoniale così grande e sfarzoso? Che cosa ha creato un’esplosione così, apparentemente, esagerata e drammatica? Addirittura un corteo con un flauto e un toro con le corna d’oro che li conduce fino ai dignitari del Tempio che li vengono a salutare?
Quello che è ancora più sorprendente è il fatto che ognuno di questi coltivatori non solo è venuto a consegnare il suo regalo al Cohen. No! Ognuno di loro, ENTRA NEL TEMPIO SANTO, lo spazio più sacro al mondo, e fa una dichiarazione potente che ripercorre l’intera storia ebraica.
Immaginate un’analoga situazione ai giorni nostri. Negli Stati Uniti ad esempio, una volta l’anno, una persona consegna i frutti della nuova stagione alla sinagoga locale, da somministrare ai poveri. Dopo aver preso la scatola di frutta sulle sue spalle pronuncia una simile dichiarazione con una voce piena di passione:
“Era l’anno 1775 quando le Trecento Colonie iniziarono una ribellione contro il governo britannico e proclamarono la loro indipendenza. Il 4 luglio 1776, il Secondo Congresso Continentale, ancora riunito a Filadelfia, dichiarò l’indipendenza degli “Stati Uniti d’America” nella “Dichiarazione d’Indipendenza”. In essa i nostri Padri Fondatori hanno scrissero:
“Quando nel corso degli eventi umani diventa necessario che un popolo sciolga i vincoli politici che lo hanno legato ad un altro e che assuma tra le altre potenze della terra, il posto distinto e uguale a cui le leggi della natura e di Dio dà diritto, un rispetto dignitoso per le opinioni dell’umanità richiede che esso debba dichiarare le cause che lo spingono alla separazione.
Riteniamo queste verità per se stesse evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore con alcuni diritti inalienabili, fra cui la vita, la libertà e la ricerca della felicità…”
“E qui sono oggi – James Smith il terzo, in questa bella città, portando frutti a questo uomo speciale…” UN PÒ STRANO, NO?
Eppure questo accadeva con ogni cesto di frutta che veniva consegnato al tempio. Un semplice agricoltore presenta un cesto di frutta al Cohen e comincia un’eloquente dichiarazione sull’intera storia ebraica: dalla genesi in Egitto fino alla sua agricoltura nella terra d’Israele dei suoi giorni!
DIO VUOLE LA NOSTRA ESSENZA
Eppure è proprio questa esperienza che ci offre uno sguardo sopra un concetto essenziale dell’ebraismo. Non sono solo le esperienze importanti, drammatiche e sconvolgenti che meritano di essere notate da un punto di vista storico. Piuttosto quando un coltivatore lavora duro tutto l’anno nel suo campo, arando, seminando, irrigando, sorvegliando e finalmente raccogliendo e raccogliendo; e poi questo contadino riempie un cestino di pochi frutti semplici da offrire nel Tempio, questo è il paradigma dell’ebraismo un evento importante.
“Desidero poter vedere il mondo in un granello di sabbia e tenere l’infinito nel palmo della mano!”. Disse William Blake. Essere in grado di guardare un cesto tenuto nel palmo di un semplice contadino e vedere l’infinito in questa stessa esperienza. Questa è all’essenza dell’ebraismo!
È vero che questo cesto può contenere solo poche uve, ma questi frutti sono SUOI! Li ha cresciuti LUI con il sudore e le lacrime e quando li porta a Gerusalemme, come dono all’Onnipotente, tutti noi partecipiamo alla celebrazione. L’agricoltore è chiamato a entrare nel Tempio Santo e fare la sua offerta personale a Dio. Quando fa la sua dichiarazione è disposto a farla con gusto e fervore, mentre tutti intorno, compresi tutti i grandi saggi e sacerdoti, rimangono in SILENZIO e ASCOLTANO.
PERCHÉ CIÒ CHE CONTA NON È QUANTO PORTI, MA IL FATTO CHE VIENE DA TE. LI C’È IL TUO CUORE, LA TUA PASSIONE, LA TUA ANIMA.
Non ha caso il dono più piccolo in quantità come le primizie è quello più festeggiato in qualità. Perché se ci fosse stato un volume consistente di frutta avremmo valorizzato il lato materiale del dono. Perciò la Torà ci dice di risaltare il dono più piccolo, perché in questo caso non siamo traviati dal materialismo e possiamo avere una prospettiva diversa da quella standard, perciò in questo caso la QUALITÀ e il FERVORE, non sono occultate dalla QUANTITÀ di MATERIA.
UN GRAPPOLO D’UVA PORTATO CON TANTA FATICA E FATTO CRESCERE CON MOLTA PASSIONE RAPPRESENTA LA TOTALITÀ DELLA PERSONA, OSSIA IL SUO INFINITO. DI CONSEGUENZA QUESTO RISVEGLIA L’INFINITO DIVINO.
“Anche se una grande orchestra continua da sola basta che tu possa contribuire con un verso”, scrive Walt Whitman. Quello che conta di più non è quanto lungo o poetico è il versetto, ma che sia il TUO versetto. Esso contiene il tuo contributo individuale; la tua verità, la tua musica, le corde del tuo cuore.
Ciò che conta in ultima analisi, la Torà ci insegna, non è tanto quello che stai donando o creando nella vita, piuttosto se quello che stai sviluppando è veramente tuo. Mettiti in gioco. Non hai bisogno di portare cestini grandi e fantasiosi. Tutto quello che DIO VUOLE È IL TUO CESTINO, la tua voce distinta, la tua ballata, il tuo battito cardiaco.
PREGHIERE MONOTONE?
Dopo la distruzione del Tempio non ci sono più i Bikurim. Ma comunque i precetti nascondono dei messaggi di vita eterni che non hanno limiti di tempo. Qual è la cosa più vicina che ci hanno lasciato al giorno d’oggi?
Il Midràsh dice: “Mosè vide che il tempio sarebbe stato distrutto e che i Bikurim si sarebbero interrotti, quindi ha stabilito le tre preghiere giornaliere”. In particolare la prima preghiera del giorno che è la più importante.
Proprio come i Bikurim sono il primo e il frutto più fresco del raccolto (la primizia), la preghiera è il primo momento più fresco della mia giornata.
Ma il confronto va molto più in profondità. Sulla superficie, non c’è niente di più potenzialmente noioso delle preghiere quotidiane. Le stesse preghiere giorno dopo giorno, le stesse parole, la stessa congregazione noiosa, lo stesso rabbino monotono e le stesse persone che spesso dormono durante la predica.
Viene la Torà e ci dice che possiamo vedere tutto ciò in modo molto diverso. Le nostre preghiere possono essere come il cesto di frutta di un agricoltore impoverito o come il cesto di frutta del ricco agricoltore. Tutto questo non ha importanza, ciò che conta è che sia TUO. Quando sei leale con Dio, quando parli con il TUO cuore, la TUA verità, i TUOI sentimenti, quando ti presenti con la TUA voce, allora tutti gli angeli di tutti i mondi diventano silenziosi per ascoltare la tua dichiarazione quotidiana nel Tempio.
Quello che vale di più è che parli con la tua voce autentica. Solo così le nostre preghiere, proprio come i Bikurim, diventano un’occasione straordinaria di unire la nostra essenza spirituale con la sua radice divina.
UN LEONE FURIOSO
Il Baal Shem Tov (Besht), uno dei pensatori più profondi nella storia ebraica (1698-1740), il cui compleanno è celebrato il 18 di Elul (questo lunedì). Il Besht raccontò questa storia:
una volta il leone è diventato furioso con tutti gli altri animali della giungla. Dal momento che il leone è “il re degli animali”, il più potente e dominante, la sua ira ha suscitato profonda paura nei cuori degli altri animali. “Cosa dovremmo fare?” mormorarono tutti gli animali in una riunione di emergenza. “Se il leone scatena la sua rabbia, siamo tutti finiti”. “Nessuna preoccupazione”, è venuta la voce della volpe, conosciuta come la più furba degli animali. “Nel mio cervello sono memorizzati 300 storie, aneddoti e vignette. Quando le racconterò al leone, il suo umore sarà trasformato”. Un’ondata di gioia investe tutti gli animali quando vedono che la volpe placa il leone con le sue storie.
VOLPE DIMENTICA
Durante il viaggio nella giungla, la volpe si volta improvvisamente verso uno dei suoi amici animali e dice: “Sai, ho dimenticato 100 delle mie storie divertenti”. Le voci sulla perdita di memoria della volpe si diffondono immediatamente. Molti animali sono presi da una profonda trepidazione, ma l’intervento del signor Orso tranquillizza tutti: “Nessuna preoccupazione” disse. “Duecento vignette di una volpe brillante sono più che sufficienti per divertire quel leone arrogante”.
Poco dopo, quando la moltitudine degli animali si avvicina nuovamente al leone, la volpe si volge improvvisamente a un altro compagno: “Ho dimenticato altri 100 dei miei aneddoti. La paura degli animali si fa più forte, ma presto arriva la voce rassicurante del signor Cervo: “Nessuna preoccupazione”. “Cento storie di volpi bastano a catturare l’immaginazione del nostro semplice re leone”.
Pochi istanti dopo, tutte le centinaia di migliaia di animali sono nella grotta del leone. Il leone si alza e pieno di potere e gloria e getta uno sguardo feroce su tutti i suoi sudditi.
L’INCONTRO
Quando arriva il momento della verità, tutti gli animali guardano verso la loro grande speranza la volpe avvicinarsi al leone per eseguire la grande missione di riconciliazione. In quel momento la volpe si volta verso gli animali e dice: “Mi dispiace, ma ho dimenticato le mie ultime 100 storie. Non ho niente da dire al re”.
Gli animali entrano in isteria. “Sei una bugiarda viziosa”, esclamano piangendo. “Ci hai ingannato completamente, cosa dobbiamo fare ora?”
“Il mio lavoro,” risponde la volpe con calma, “era quello di convincervi a venire fino alla tana del leone, ho compiuto la mia missione! Ora voi siete qui, adesso ognuno di voi può parlare con la propria voce e ristabilire il proprio rapporto personale con il re”.
MANCANZA DI UNA RELAZIONE PERSONALE
Questa storia, ha concluso il Baal Shem Tov, illustra un problema comune nella religione istituzionalizzata. Veniamo in sinagoga a Rosh Hashanà o Yom Kippur, o in qualsiasi altro periodo dell’anno, e ci affidiamo alle “volpi” (i cantori e i rabbini) per servire come nostro rappresentante di fronte al Re dei Re. “Il sermone del rabbino oggi è stato incredibile”, spesso proclamate dopo i servizi. “È davvero fantastico”. O, “Quel cantore? Il suo canto ha appena sciolto la mia anima”.
Queste “scorciatoie” spesso diventano le “volpi” che ci fanno illudere che possono fare il lavoro al nostro posto.
Tuttavia, prima o poi, ci rendiamo conto che le “volpi”, con tutto il dovuto rispetto, non hanno realmente ciò che serve per rinnovare la nostra relazione compromessa con il re AL POSTO NOSTRO. Ognuno di noi deve scoprire la propria voce interiore e la sua passione e lo spirito interiore, e parlare con Dio con un carattere distinto e unico.
Cantori e rabbini durante le Feste (e il resto dell’anno) dovrebbero considerarsi come volpi del Besht: la loro funzione è di persuadere e ispirare la gente a lasciare il proprio EGO, la sfera di autosufficienza e intraprendere un viaggio verso qualcosa di più profondo e più genuino. Ma ognuno di noi deve infine entrare nello spazio di Dio (Santuario) con le SUE gambe e la cesta sulla SUA spalla.
Questo è il messaggio che possiamo trasportare dai doni dei cesti di Bikurim nel nostro quotidiano. Quest’anno a Rosh Hashanà e Yom Kippur, non facciamo affidamento sulle volpi. Parliamo direttamente con Dio. Con le proprie parole, con la PROPRIA anima.
Cuore a cuore, dal posto più vero e sincero che abbiamo direttamente al nostro Padre in Cielo all’essenza più vera.
IL DIALOGO PIÙ BELLO È QUANDO IL FIGLIO RICONOSCE SUO PADRE E GLI PARLA CON TUTTO IL CUORE SENZA INFINGIMENTI!
Un caro Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor
In memoria del mio carissimo amico Rav Haim Moshe Mordechai ben Dovber Shaikevitz
e del mio maestro Rav Ghershon Mendel ben Haim Meir Garelik
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La Torà ci insegna che ogni primizia del raccolto che Hashèm ci ha donato dobbiamo portarla al Santuario di Yerushalàyim così da manifestare gratitudine per il bene che abbiamo ricevuto…
Quale insegnamento di vita impariamo dal precetto delle PRIMIZIE della parashà di questa settimana?
Alcuni significati profondi dalle primizie…
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È l’attributo della generosità e ALTRUISMO. Questo messaggio è intrinseco in tutti i doni che Hashèm ci ordina di dare ai sacerdoti, ai levì e ai poveri per insegnare agli uomini che non bisogna prendersi cura solo di se stessi, ma che occorre sempre ricordare che ci sono anche poveri e bisognosi, poiché in realtà tutto ciò che possediamo appartiene a Dio. Lui, infatti ci ha dato i “nostri beni” solo in custodia, affinché possiamo distribuirli ai meno abbienti: ognuno che ha più del minimo del suo fabbisogno base è solo un “cassiere” di Hashèm.
(continua sotto)
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Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor
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TRE DIVERSE RIBELLIONI CONTRO I GENITORI A CONFRONTO:
MIRIAM, BATIA E REUVEN!
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6 VITAMINE DI VITA IMPARIAMO DALLE PRIMIZIE
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Si impara a CONTROLLARE il proprio ISTINTO animalesco. Quando una persona scende nel suo campo e vede un fico succoso lo vorrebbe mangiare, dopo aver aspettato tanto a lungo per vedere i frutti maturi nel suo campo, poiché all’uomo piace il frutto del SUO campo più di tutti i frutti del mondo. Ma qui, ci ricorda la Torà, che non si può godere di questo dolce frutto al palato, ma lo si lega con la gomma e si fa un segno per portarlo al Tempio di Yerushalàyim e mangiarlo li, affinché si possa abituarsi a controllare i propri istinti.
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Sviluppare l’attributo dell’UMILTÀ: il grande imprenditore terriero doveva sollevare le primizie sulla sua spalla e portarle al Monte del Tempio. E perfino il RE doveva seguire questa prassi, per dimostrare che non si vanta del suo successo, ma riconosce che tutto il mondo apparitene solo ad Hashèm.
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Quando si portano le primizie bisogna GIOIRE tanto per uscire d ‘obbligo. Ovvero quando si aiuta il prossimo e quando si è grati per il bene ricevuto da Hashèm occorre saper ringraziare con un sorriso, altrimenti non è un vero “Grazie”.
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Controllare il proprio EGO. Quando si portano le primizie – bikurìm la Torà ci prescrive di leggere dei brani che raccontano gli eventi dolorosi della storia di Israèl. Questo come ricordo che anche nel momento del benessere non bisogna dimenticare i problemi passati che ci hanno permesso di arrivare a gioire adesso. Questo è un ottimo insegnamento in quanto evita di riempirsi di ego per via del successo del nuovo raccolta e della prosperità appena ricevuta. Quindi, così impariamo a rimanere umili e mantenere un ottimo equilibrio sociale e famigliare.
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Si dimostra che tutto proviene da Hashèm che solo lui è il VERO PADRONE del mondo e che la frutta non è il frutto della nostra fatica (scusate il gioco di parole)…
Da un estratto dell’Iggheret HaKodesh, inizio dell’Epistola 16, su cosa si intende per aiutare il prossimo…
Il Talmùd parla di un ruscello che ha origine in una città e scorre attraverso un’altra città. Se non fornisce abbastanza acqua potabile per entrambe le città, i diritti idrici appartengono agli abitanti della prima città. Lo stesso vale per l’acqua di cui entrambe le città hanno bisogno per il loro bestiame o per lavare i loro vestiti. Se, tuttavia, la seconda città ha bisogno di acqua potabile per i suoi cittadini, mentre la prima città ha bisogno solo dell’acqua per lavare i panni, prevalgono le esigenze della seconda città.
Vediamo quindi che se i rispettivi bisogni, tra noi e il prossimo, non sono esattamente uguali, allora non si può pensare che le nostre esigenze o quelle della nostra famiglia hanno la precedenza. Questo anche in una situazione in cui i nostri bisogni sono del tutto reali e tutt’altro che frivoli.
Tuttavia di fronte ai genitori che invocano il pane per i loro piccoli e la legna e gli abiti per proteggersi dal freddo, ciò ha sicuramente la precedenza sui bisogni validi, ma non essenziali della propria famiglia. Allo stesso modo la seconda città ha la precedenza sull’acqua della città dove nasce il ruscello, perché ne fa un uso più importante, ossia per soddisfare dei bisogni basilari e essenziali per la vita degli abitanti.
In memoria di Yaakov ben Shlomo e Rachel
Questa settimana la Ferrari ha vinto il gran premio del Belgio pur non essendo stata la più veloce nelle prove. Perfino Hamilton che era in pole position è arrivato secondo e non riusciva a capacitarsi della velocità della Ferrari. A Maranello gli ingegneri Ferrari si complimentano della loro bravura che ha portato alla vittoria. Ci sono delle logiche per razionalizzare questa vittoria senza dubbio, ma nella vita la sola bravura non è sufficiente: ci vuole anche la FORTUNA. Una pezza che viene dal Creatore che decide tutto. Dio ci chiede di fare del nostro meglio, in questo modo saremo meritevoli di accedere a questa fortuna e alla pezza che deve aggiungere Lui.
La Ferrari ha meritato la fortuna dal cielo perché ha fatto qualcosa di molto importante.
La Parashà di questa settimana ci insegna quali sono le condizioni per meritare la benedizione divina, questa potrebbe essere una delle spiegazioni “segrete” della vittoria della Ferrari.
(continua sotto)
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Il nuovo libro dei Numeri è stato completato e siamo in fase di impaginazione finale BH.
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