SUKKOT, SHEMINI ATZERET e SIMKHAT TORÀ 5785, 13 IMPERDIBILI LEZIONI!!

13 Ottobre 2024 0 Di HaiimRottas

Questo nuovo anno, 5785, la festa di SUKKOT – CAPANNE va dalla sera del 16 OTTOBRE 2024, 15 Tishrì 5784 fino alla sera dell’ 25 Ottobre 2024, 23 Tishrì 5785 (gli ultimi due giorni sono SHEMINI ATZERET e SIMKHAT TORÀ).

Continuiamo a caricare le nostre batterie dell’anima con felicità per tutto l’anno.

Giovedì 17 OTTOBRE  15 TISHRÌ

Sukkòt 1° giorno

PARASHÀ
I° Sefer Lev 22, 26 – 23, 44
II° Sefer Num 29, 12:16

HAFTARÀ
Zacc. 14, 1;21 22:1-51

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Venerdì 17 OTTOBRE TISHRÌ 16

Sukkòt  2° giorno

PARASHÀ
I° Sefer Lev 22, 26 – 23, 44
II° Sefer Num 29, 12:16

HAFTARÀ
Italiani: I Re 7, 51-8, 16
Sefarditi/Ashkenaziti: I Re 8, 2-21

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SABATO 19 OTTOBRE TISHRÌ 17

Shabbàt Chol Hamo’èd  (mezza festa)

PARASHÀ
1° Sèfer: Esodo 33, 12-34, 26
2° Sèfer: Numeri 29°, 17-22
HAFTARÀ
Ezechiele 38°, 18-39°-10

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(Mercoledì 23 OTTOBRE TISHRÌ 21)
Hoshanà Rabbà (mezza festa)  Vigilia di Sheminì ‘Atzéret

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Giovedì 24 OTTOBRE TISHRÌ 22

Sheminì ‘Atzéret

PARASHÀ
I° Sefer Deut 15, 19 – 16, 17
II° Sefer Num 29, 35-30, 1

HAFTARÀ
I Re 8, 54 – 9, 1

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Venerdì 25 OTTOBRE

23 TISHRÌ     Simchàt Torà

PARASHÀ
I° Sefer Deut 33,1 – 34, 12
II° Sefer II° Gen 1 – 2, 3
III° Num 29, 35 – 30, 1

HAFTARÀ
Italiani/Ashkenaziti: Gios. 1, 1-18
Sefarditi: Gios. 1-9

Abbiamo finito Kippur un giorno che siamo come gli angeli che non mangiano e non bevono e adesso siamo pronti a entrare sotto l’ombra di Dio nella Sukka un luogo talmente santo che secondo alcune opinioni è più santo del Santuario di Gerusalemme (ma solo per i 7 giorni). Non a caso Sukkòt viene solo dopo Kippur perché solo l’elevazione di Kippur possiamo entrare nell’ombra di Dio, come lo chiama lo Zohar hakadosh ZILA DEMEHEMNUTA.

Riflessione Sukka: CAPANNA = MOGLIE

esce la sensazione di quanto sia gioioso consumare un pasto sotto la sukkà con canti e balli , una gioia indescrivibile quasi una sorta di PARADISO TERRESTERE; in particolare se non ci sono i smartphone “guastafeste” visto che durante i giorni di festa e Shabbàt non si possono toccare.
Tutto l’anno ragioniamo con parametri di misura innati (ma contorti) che vogliono farci credere che FELICITÀ vuole dire ABBONDANZA MATERIALE. Più elegante e lussuosa è la barca più ci sentiremo al settimo celo. Più alta è la cilindrata della Ferrari e più ci sentiremo sicuri.
Poi arriva Sukkòt e ci rovina queste “certezze”: entriamo in una semplice capanna per di più bucata dove la pioggia ci bagnerebbe e ci sentiamo sotto l’ombra e la protezione di Hashèm o meglio “ci sentiamo da Dio”. Una sensazione di gioia interiore che è superiore anche alla più elegante Yacht al mondo. La materia è falsa è illusoria. Oggi c’è ma domani chi lo sa. Quando tutta la nostra vita orbita in funzione del raggiungimento della materia, non possiamo avere quella beatitudine che solo la semplicità della sukkà ci dona.
Per molte persone queste parole possono sembrare esagerate, ma chi non prova non può capire. E chi prova una sola volta, magari con scetticismo o senza staccarsi dal resto del mondo, rischia di trovarsi nella sukkà SOLO fisicamente, senza entrare realmente in questo paradiso terrestre. Perché può accadere questo? Perché l’amore per la materia rischia di essere così forte da non permettere di staccarci da essa.
Questo è uno dei messaggi di questa bellissima festa la più allegra dell’anno: resettare il nostro epicentro verso valori assoluti e spirituali.
Non a caso questa festa richiede la presenza di tanti ospiti fino al punto che in ogni sukkà vengono a trovarci delle persone illustri: i patriarchi, Moshè e Aharòn fino a Yossef e David in PERSONA, più gli ospiti Chassidici Baal Shem tov, Admur Hazakèn…
Questo perché la vera contentezza si raggiunge quando c’è un gruppo unito e senza un capo. Nessuno si sente ospite, quando si è consci che solo Dio è il VERO padrone. Questa maturità la si acquisisce solo tramite la semplicità della sukkà.
Per questo dice il Talmud che tramite la sukkà si è degni di avere protezione e benedizione tutto l’anno. Solo quando si comprende che Lui è l’unico sostegno si è degni di essere accompagnati dal Creatore tutto l’anno.
L’ombra della sukkà viene chiamata l’ombra di Dio e nutre la nostra fede. Anche la matzà di Pèssakh nutre la nostra fede, solo che sei mesi fa la crescita è più a livello spirituale ed è l’inizio del percorso di evoluzione della nostra fede, mentre a sukkòt la nostra fede è alimentata capendo che l’unica protezione è il Padre Eterno. Poiché usciamo dalle nostre protezioni illusorie: il tetto di cemento, il lussuoso lampadario… e confidiamo solo in lui mangiando e vivendo per una settimana sotto la sua protezione.

ORGOGLIO FA TROPPO MALE
Questo insegnamento è una medicina molto importante. L’uomo di natura si sente importante perché tocca a lui di portare il sostentamento e la “pagnotta” a casa. Questo successo che ha l’uomo può rischiare di darli la sensazione sbagliata di essere “Dio sulla terra”. Questo è una malattia molto dannosa, visto che i più grandi disastri dell’umanità vengono da un eccesso di ego.
È ampiamente documentato che i più grandi uomini d’affari sono caduti solo a causa della sensazione di sicurezza eccessiva nelle loro decisioni imprenditoriali senza un’accurata attenzione dei rischi.
Per questo Hashem ha donato all’uomo la donna: la migliore medicina per curare il grande pericolo dell’ego. La moglie che ha una natura opposta porta un equilibrio al sentimento di onnipotenza dell’uomo. Per questo Dio in Genesi dice ad Adamo che gli darà un AIUTO CONTRO DI LUI.
Andando contro il marito, l’uomo raggiunge il TIKKUN e il bilanciamento del suo orgoglio naturale. Se la moglie chiede di buttare la spazzatura alle 22.00 dopo una stressante giornata di lavoro e aver chiuso contratti milionari, non bisogna vedere questo come un’offesa alla grande fatica compiuta bensì come una medicina FONDAMENTALE per curare il potenziale ego che potrebbe formarsi per via del successo ottenuto (proprio come la sukkà).
Bisogna concepire il dono della moglie che viene contro l’uomo come un aiuto. Solo allora la vita coniugale non è più una lotta di chi vince, ma si trasforma in una sukkà: un luogo e un’occasione di rettificazione. Come dice il Maimonide che l’unico sentimento che l’uomo ha in eccesso è l’orgoglio; per quanto lo si abbassi non è mai abbastanza.
Sukkot è incompatibile con la rabbia che viene solo dall’ego. È scritto: La cosa principale è non arrabbiarsi…
Non a caso troviamo tante storie della festa di Sukkòt inerenti all’equilibrio della coppia e al contenimento dell’ego. La seguente storia può insegnarci tanto nel matrimonio e fino a che punto non bisogna arrabbiarsi:
Il Chafetz Chaim, una delle colonne portanti dell’ebraismo della prima metà del secolo scorso, quando era vecchio sposò la sua seconda moglie.
Mentre il Sukkot si avvicinava, il grande maestro costruì la sukkà nel posto dove veniva allestita regolarmente ogni anno.
Quando sua moglie vide questo, gli disse: “penso che sarebbe stato meglio mettere la sukkà dall’altra parte del cortile”.
Quando il grande zaddìk sentì questo, non disse una parola nonostante il suo lavoro e il suo tempo preziosissimo e l’abitudine di costruire la sukkà per decenni in quel posto, immediatamente smontò la sukkà e la ricostruì nel luogo indicato dalla moglie.
Dopo che la sukkà era nel nuovo posto, sua moglie uscì di nuovo, guardò attentamente, poi si rivolse a suo marito e disse: “in effetti ho sbagliato, il primo posto dove hai SEMPRE messo la sukkà era decisamente migliore”.
E ancora il Chafetz Chaim la smantellò e la mise in piedi nel primo luogo!!! SANTA PAZIENZA!!!
Per mostrarci quanto è importante la “pace della casa”.
È meglio costruire e distruggere la sukkà più volte che arrabbiarsi, anche una sola volta!
Il successo nella vita passa SOLO tramite la moglie che è la sukkà quotidiana che ci accompagna sempre e tramite l’unione della coppia!

FELICITÀ… NON È UN BICCHIERE DI VINO E UN PANINO

Secondo lo Zohar la Sukkà/capanna durante i sette giorni di festa è il posto più santo al mondo, come se fosse il Santuario di Gerusalemme, poiché nella Sukkà Hashèm ci abbraccia fortissimo sui quattro lati (come un vero abbraccio) in quanto Lui è presente nelle nostre capanne in maniera rivelata proprio come nel Santuario. Inoltre, questo santo luogo, la nostra capanna, non solo ci eleva, ma ci dona molte altre forze spirituali: sette “vitamine” fondamentali per la nostra anima come l’umiltà e di conseguenza la “Felicità”, l’unità, sicurezza in Hashèm etc.
La Sukkà, infatti rappresenta il luogo in cui noi siamo capaci di essere felici al di fuori dal nostro “materialismo quotidiano”. Quando una persona vive per una settimana in un luogo semplice ed essenziale come la Sukkà, impara a non dare niente per scontato ad apprezzare che tutto viene da Hashèm e quindi imparare ad apprezzare ci che si ha. Il maggior problema della società moderna è il dare tutto per scontato e per dovuto come una famosa storia recente di uno che un paziente dismesso dall’ospedale ha pianto quando ha ricevuto un conto lauto da pagare per l’ossigeno che ha ricevuto quando stava male. I dottori gli hanno chiesto se piangeva perché non aveva da pagare o perché non aveva la copertura medica? Il guarito ha risposto che non ha problemi economici ma che per settanta anni ha respirato senza rendersi pagare alcun conto al Padre Eterno e senza neanche ringraziarlo a dovere. Non a caso dice l’ultimo versetto nei salmi ogni anima loderà Dio, e il Talmud ci insegna che il versetto allude anche a ogni respiro visto che anima-neshamà sono le stesse lettere di respiro-neshimà.

Gioire Quando Si È in Difficoltà
Una volta un uomo si lamentava del fatto che la sua cassa fosse piccola, brutta ed angusta. Disperato decide di andare a chiedere un consiglio e un aiuto al grande e saggio Rabbino del suo villaggio. Il Grande Rav, con suo immenso stupore gli consigliò di mettere una mucca dentro la sua piccola casa per una settimana. L’uomo incredulo non sapeva cosa pensare, ma alla fine decise di dar retta al Grande Rabbino. Avere una mucca dentro una casa così piccola fu per l’uomo una esperienza tremenda: escrementi e cattivo odore notte e giorno; muggiti continui gli rendevano il sonno impossibile; e poi la piccola casa sembrava ancora più piccola. Passata la settimana manda via la mucca e appena rientra nella sua casa l’uomo comprese cosa voleva fargli capire il Rabbino: ora la sua casa gli sembrava una immensa e comodissima reggia.

Felicità dall’Esterno o dall’Interno?
Nell’ebraismo il concetto di felicità è diverso da tutte le altre filosofie del mondo. La parola in ebraico “in felicità”-בשמחה e quella di pensiero-מחשבה hanno le stesse lettere. Questo ci insegna come in realtà “la ricerca della felicità” fondata su una continua ricerca di quello che ci manca è una strada illusoria e sbagliata che non porta a nulla. Noi abbiamo il potere di decidere se avere una mega villa perché questo viene deciso in cielo. Noi dobbiamo lavorare su come essere felici in ogni circostanza e questo ci porta la benedizione perché la chiave della benedizione è la felicità e la gratitudine e in più quando siamo felici siamo produttivi e troviamo le energie per raggiungere i nostri sogni.
Questo ci dice il legame delle parole felicità e pensiero nella Torà: la felicità si fonda sul nostro approccio positivo alla vita sul nostro approccio mentale e sulla nostra attitudine e non da quanti zeri ci sono nel nostro conto bancario. Sull’essere sempre soddisfatti di quello che abbiamo e di saper godere di questo, senza cercare sempre di commisurare la nostra felicità e soddisfazione sul QUANTO abbiamo o non abbiamo. I desideri dell’uomo, essendo illimitati, non possono mai essere appagati, pertanto se fondiamo la nostra felicità su essi non riusciremo mai a raggiungerla. Come ricorrere un cavallo di una giostra in groppa a un cavallo della giostra.

Approfittiamo del grande dono della Sukkà per farci abbracciare nostro padre in cielo e di conseguenza anche noi abbracciarlo.
Grazie a questa festa noi riusciamo a ridurre le nostre aspettative, ad accontentarci di quanto abbiamo e quindi impariamo a essere felici sempre. Non a caso nella Torà è scritto per ben tre volte che la festa di Sukkot è una festa di felicità quindi diciamo nella preghiera il periodo della felicità e per questo Sukkot è considerata la più gioiosa tra le feste.
Auguro a tutti una bellissima e gioiosa festa di Sukkot e che quest’anno possa essere ancora più felice con l’arrivo di Mashìakh.

ACQUA TRASPARENTE COME L’INFINITO

Una delle ricorrenze più notevoli della festa di Sukkòt, al tempo del Sacro Tempio di Yerushalàyim, era la cerimonia in cui dell’acqua veniva prima attinta da una sorgente sotterranea e poi versata sull’altare in occasione dei sacrifici festivi. Tale cerimonia era considerata un evento così importante da essere condotta con gioia e celebrazioni illimitate. Il Talmud racconta che oltre a cantare e ballare, i personaggi più importanti e più santi d’Israèl si destreggiavano con il fuoco ed eseguivano giochi, come espressione della loro indescrivibile gioia.
Ancora oggi, sebbene non possiamo più versare quell’acqua sull’altare del Santuario, ricordiamo questa cerimonia con canti e balli gioiosi durante la festa di Sukkòt. In effetti, l’intera festa è così strettamente legata al tema della gioia, pura e incontenibile, che la Torà si riferisce a essa con la frase “il periodo della nostra gioia”.
Tuttavia rimane poco comprensibile il motivo per cui la cerimonia del prelievo dell’acqua è considerata un’occasione così incredibilmente gioiosa? Oltretutto, rimane da spiegare perché il versamento dell’acqua sull’altare era considerato così importante, rispetto ad un altro rito (che si teneva anch’esso a Sukkòt) come versare il vino sull’alare? Quest’ultimo, infatti, era compiuto tutto l’anno e non solo durante la festa di Sukkòt, invece l’acqua viene versata solo di Sukkòt.
Inoltre il comandamento di versare il vino sull’altare è espressamente menzionato nella Torà in più punti, mentre il comandamento di versare l’acqua a Sukkòt è scritto in codici (versetti da Bemidbàr 29, 19) stato trasmesso oralmente da Dio a Moshè sul monte Sinai (vedi Talmud, Sukkà 34a; Zevakhìm 110b), quindi non espressamente scritto nella Torà. Pertanto, non sarebbe stato logico ritenere più importante e gioioso il rito del vino, rispetto a quello dell’acqua?
Per comprendere le domande di cui sopra, occorre esaminare il significato spirituale sottostante sia al versamento del vino che a quello dell’acqua.

Vino Intelligente
Due sono le caratteristiche principali del vino secondo la Torà: “Rallegra Dio e gli uomini” e che “Quando entra il vino, escono i segreti”. Queste due qualità “indurre gioia e rivelare segreti”, sono correlate, perché la fonte spirituale del vino (le qualità spirituali e la radice superiore da cui si concretizza il vino fisico in questo mondo) è l’attributo divino di Binà-Intelletto e comprensione.
Questo termine è, ovviamente, una metafora intesa a trasmettere un concetto celeste, ossia il fatto che vi sono due principali livelli spirituali, in relazione all’attività dell’intelletto umano, in cui la rivelazione divina si manifesta. Nel primo, quello più elevato, chiamato comunemente Saggezza-Khokhmà, l’idea è presente e completa, e anche se non è così rarefatta ed esaltata da rimanere al di là della nostra capacità di percepirla, tuttavia noi riusciamo solo a intuire la spiegazione, senza riuscire a comprenderla veramente. Questo concetto può essere compreso con l’analogia dello stadio intellettuale umano in cui vi è solo il germe di un’idea, l’intuizione iniziale, che si è manifestato nella coscienza della persona, ma, sebbene l’idea sia tutta lì, essa non è ancora del tutto alla sua portata.
Il successivo livello “inferiore” della manifestazione divina è analogo alla facoltà umana di “comprendere”. Questa facoltà intellettuale è quella che contempla il germe informe di un’idea, Khokhmà, scandagliandone le ramificazioni fino a quando l’idea, prima elusiva e inarticolata, è ora completamente sviluppata. Questo livello spirituale, successivo a Khokhmà, è chiamato Binà-Comprensione, il livello con il quale Hashèm si manifesta in un modo a noi “più vicino”. Come se il “germe” o “punto” dello stadio Khokhmà, Sapienza, fossero stati “aperti” e “riempiti” in modo che possiamo comprendere pienamente l’idea o il concetto racchiusi in esso.
Per tornare al vino, il motivo per cui rende felici le persone e fa emergere i loro segreti più intimi è perché esso rispecchia le caratteristiche spirituali della sua sorgente e “modello celeste”, dell’attributo divino di Binà, Comprensione, che rivela i segreti precedentemente nascosti all’interno di Khokhmà, Sapienza. Ed è anche per questo che porta gioia: la gioia risulta dalla rivelazione di ciò che è stato precedentemente nascosto. La tipica reazione di un essere umano quando finalmente raggiunge una vera comprensione di un argomento che gli era sfuggito. La soddisfazione intellettuale, in effetti, la vera esultanza, non viene dal sapere che “ho l’idea giusta da qualche parte dentro di me”, ma dal padroneggiarla finalmente e comprenderla a fondo. Il vino, che simboleggia l’attributo spirituale di Binà, riflette quindi la qualità di far emergere il nascosto, il segreto, così come la gioia che ne deriva.
Mentre il vino veniva versato sull’altare del Santuario, i Leviti cantavano canti di lode a Dio. Ciò è appropriato, poiché il vino rappresenta la rivelazione del nascosto e la funzione dei Leviti includeva il portare la parte nascosta del divino a una rivelazione esplicita.
Per riassumere i punti salienti: il vino simboleggia l’attributo spirituale di Binà, un alto livello di manifestazione divina. Il vino ha quindi le qualità di rallegrare e di far emergere segreti, poiché queste sono anche qualità di Binà. Il versamento del vino era associato ai leviti e al canto, poiché entrambi hanno anche aspetti di rivelare ciò che è nascosto. Quindi rimane la domanda del perché la libagione dell’acqua sull’altare era considerata un evento molto più importante e gioioso?

Sapienza Bagnata
D’altra parte, a Sukkòt si versa anche l’acqua sull’altare. Questo simboleggia l’attributo divino di Khokhmà che, come spiegato sopra, è più elevato del livello spirituale di Binà. Ecco perché la cerimonia dell’acqua era associata al servizio dei cohanìm: la funzione dei leviti era quella di stimolare il popolo per elevarlo a un livello spirituale superiore, un tipo di servizio che può essere descritto come procedere “dal basso verso l’alto”; la funzione sacerdotale era quella di far scendere le benedizioni sul popolo “dall’alto verso il basso”, proprio come una delle caratteristiche principale dell’acqua: la sua naturale tendenza a scorrere il più in basso possibile.
Per questo il servizio dei cohanìm era condotto in silenzio, come simbolo dell’occultamento, un attributo di Khokhmà, caratterizzato, come detto sopra, dal fatto che la conoscenza presente a questo livello, elevatissima e completa, rimane tuttavia “nascosta” all’intelletto umano il quale può coglierla solo a livello di intuizione. Invece il suono e il canto dei leviti, durante il loro servizio, rappresenta lo “svelamento” della Sapienza Khokhmà e la capacità di padroneggiare e comprendere fino in fondo la, potenzialmente infinita, luce contenuta in Khokhmà, attraverso il livello Binà, Intelligenza.
E proprio come i cohanìm erano considerati superiori ai leviti, come è scritto (Numeri 18, 2): “Ed essi [i leviti] si uniranno a voi [i cohanìm] e vi serviranno”; così era considerato superiore il versamento di acqua sull’altare poiché si collega a Khokhmà il livello più elevato, rispetto al versamento del vino che si collegava a “solo” a Binà.

Dolce e Più Dolce
Tenendo presente quanto sopra, possiamo anche apprezzare perché il versamento del vino è espressamente scritto nella Torà, mentre il versamento dell’acqua non lo è.
La “Torà scritta”, o Tanàkh (composta dal Pentateuco, dai Profeti e dagli Agiografi) è stata composta da Dio in modo tale che ogni singola lettera rappresenta anche misteri indicibili di alto significato spirituale. Per questo motivo la legge ebraica è molto chiara, circa il fatto che in un rotolo della Torà, ogni singola lettera deve essere scritta correttamente. In questo contesto, la Torà scritta è associata all’attributo divino di Binà, anch’esso caratterizzato dall’espressione in lettere. Per esempio, quando un’idea è ancora nello stadio tenue e occultato di Khokhmà non può essere articolata, nemmeno all’interno della propria mente, poiché si è incapaci di esprimere questo concetto o idea con il pensiero, parole e lettere. Tuttavia, quando questo concetto è stato “abbassato” al livello di Binà-Comprensione, esso si può esprimere con le parole o lettere.
Diversamente nella Torà orale (che originariamente doveva essere trasmesso oralmente e che è stato successivamente messo per iscritto solo per evitarne la perdita a causa delle persecuzioni) la specifica lettera non assume un significato così importante da invalidare tutto il testo o il libro. Il motivo è che a livello della Torà orale non ci si focalizza sulla perfezione della singola lettera o parola, poiché la Torà orale è associata a Khokhmà dove rimane solo la meditazione su un concetto e non sulle lettere. Questa focalizzazione sull’idea è al contrario la ragione spirituale dietro la forma non scritta della Torà orale, che è un’espressione di un livello spirituale così elevato che non può essere limitato all’interno di parole specifiche.
Questo è il significato dell’espressione (Shir Hashirìm Rabba I): “Le parole degli scribi, (un appellativo per i Saggi della Torà orale), sono più dolci per Me [Dio] persino del vino della Torà”. Come evidenziato sopra, la Torà Scritta è associata a Binà, che è simboleggiata dal vino, quindi la frase “il vino della Torà” si riferisce alla Torà scritta in generale. La citazione di cui sopra, implica che la Torà orale, “le parole degli scribi”, è più “cara” a Dio, in un certo senso, della Torà scritta, poiché la Torà orale discende dal livello di Divino di Khokhmà, un livello spirituale molto più elevato di quello di Binà, la fonte della Torà Scritta.

Ed è per questo che il versamento dell’acqua di Sukkòt generava una gioia così illimitata e indescrivibile. La rivelazione del livello di Binà, vino, è intrinsecamente gioiosa e, come notato sopra, era eseguite con il canto: la rivelazione manifesta della “conoscenza” divina. Ma a Sukkòt sperimentiamo attraverso l’acqua che scorre sull’altare un livello altrimenti impossibile da raggiungere di rivelazione di Dio: il livello spirituale di Khokhmà, è normalmente impossibile da rivelare completamente, ci è tuttavia eccezionalmente conferito a Sukkòt per via della sua santità intrinsica. Ciò provoca un grado di gioia assolutamente al di là dei confini, al punto che, come dicevano i nostri saggi, “Chi non ha assistito alla celebrazione dell’attinzione dell’acqua non ha mai assistito alla vera gioia nella sua vita”.

Infinitamente Semplice come Hashèm 
Da quanto detto sopra possiamo trarre una fondamentale lezione di vita sulla “semplicità”. La sukkà ha la fondamentale caratteristica di essere una costruzione semplice, eppure in essa permane per tutto il periodo delle feste una santità incredibilmente elevata. Lo stesso possiamo dire sulla cerimonia dell’attinzione dell’acqua (e non vino). Possiamo immaginare qualcosa di più semplice di questo? Eppure, abbiamo scritto sopra, essa è legata all’elevatissimo livello spirituale di khokhmà. Il segreto di questo è che proprio nelle cose semplici, come l’acqua e la sukkà, noi vediamo rivelato l’infinito di Dio, poiché riusciamo a scorgerne l’essenza, senza essere contaminati dalle nostre facoltà e gusti, ossia i nostri limiti umani. Per questo motivo il livello della cerimonia del vino era inferiore, poiché il vino è un prodotto elaborato che richiede un “buon gusto”, ossia l’elaborazione dei sensi umani del desiderio: mi piace, non mi piace o mi piace di più o meno di un altro vino, e ci sarà sempre un altro vino ancora più buono che metterà in dubbio la nostra felicità. Lo stesso a dirsi per una casa: essa può essere bella con lampadari e tappeti di collezione ecc. In questo ambito vi sono delle inevitabili gerarchie dovute alla limitata soggettività umana. Invece, la semplicità di una dimora come la capanna trascende da queste logiche, una capanna è una capanna, questo è la sola cosa che conta. Così l’acqua genera una felicità maggiore al vino perché è al di sopra di un gusto e qualcosa di infinito e perciò può riflettere l’infinito.
In maniera analoga è la presenza infinita di Hashèm, non è possibile stabilire in essa dei criteri umani logici, come buono o non buono, grande o piccolo ecc.
Pertanto godiamoci la gioia incredibile delle “nostre capanne” e riflettiamo su quanto Hashèm sia sempre presente in questo mondo e nelle nostre vite, soprattutto quando mettiamo da parte i nostri desideri che a volte fanno da velo alla nostra gioia.

Un adattamento di un Maamàr in Likuté Torà di Rabbi Shneur Zalman

 

B’H’ Una delle ricorrenze più notevoli della festa di Sukkòt, al tempo del Sacro Tempio di Yerushalàyim, era la cerimonia in cui dell’acqua veniva prima attinta da una sorgente sotterranea e poi versata sull’altare in occasione dei sacrifici festivi. Tale cerimonia era considerata un evento così importante da essere condotta con gioia e celebrazioni illimitate. Il Talmud racconta che oltre a cantare e ballare, i personaggi più importanti e più santi d’Israèl si destreggiavano con il fuoco ed eseguivano giochi, come espressione della loro indescrivibile gioia.

Ancora oggi, sebbene non possiamo più versare quell’acqua sull’altare del Santuario, ricordiamo questa cerimonia con canti e balli gioiosi durante la festa di Sukkòt. In effetti, l’intera festa è così strettamente legata al tema della gioia, pura e incontenibile, che la Torà si riferisce a essa con la frase “il periodo della nostra gioia”.

Tuttavia rimane poco comprensibile il motivo per cui la cerimonia del prelievo dell’acqua è considerata un’occasione così incredibilmente gioiosa? Oltretutto, rimane da spiegare perché il versamento dell’acqua sull’altare era considerato così importante, rispetto ad un altro rito (che si teneva anch’esso a Sukkòt) come versare il vino sull’alare? Quest’ultimo, infatti, era compiuto tutto l’anno e non solo durante la festa di Sukkòt, invece l’acqua viene versata solo di Sukkòt.

Inoltre il comandamento di versare il vino sull’altare è espressamente menzionato nella Torà in più punti, mentre il comandamento di versare l’acqua a Sukkòt è scritto in codici (versetti da Bemidbàr 29, 19) stato trasmesso oralmente da Dio a Moshè sul monte Sinai (vedi Talmud, Sukkà 34a; Zevakhìm 110b), quindi non espressamente scritto nella Torà. Pertanto, non sarebbe stato logico ritenere più importante e gioioso il rito del vino, rispetto a quello dell’acqua?

Per comprendere le domande di cui sopra, occorre esaminare il significato spirituale sottostante sia al versamento del vino che a quello dell’acqua.

Vino Intelligente

Due sono le caratteristiche principali del vino secondo la Torà: “Rallegra Dio e gli uomini” e che “Quando entra il vino, escono i segreti”. Queste due qualità “indurre gioia e rivelare segreti”, sono correlate, perché la fonte spirituale del vino (le qualità spirituali e la radice superiore da cui si concretizza il vino fisico in questo mondo) è l’attributo divino di Binà-Intelletto e comprensione. 

Questo termine è, ovviamente, una metafora intesa a trasmettere un concetto celeste, ossia il fatto che vi sono due principali livelli spirituali, in relazione all’attività dell’intelletto umano, in cui la rivelazione divina si manifesta. Nel primo, quello più elevato, chiamato comunemente Saggezza-Khokhmà, l’idea è presente e completa, e anche se non è così rarefatta ed esaltata da rimanere al di là della nostra capacità di percepirla, tuttavia noi riusciamo solo a intuire la spiegazione, senza riuscire a comprenderla veramente. Questo concetto può essere compreso con l’analogia dello stadio intellettuale umano in cui vi è solo il germe di un’idea, l’intuizione iniziale, che si è manifestato nella coscienza della persona, ma, sebbene l’idea sia tutta lì, essa non è ancora del tutto alla sua portata. 

Il successivo livello “inferiore” della manifestazione divina è analogo alla facoltà umana di “comprendere”. Questa facoltà intellettuale è quella che contempla il germe informe di un’idea, Khokhmà, scandagliandone le ramificazioni fino a quando l’idea, prima elusiva e inarticolata, è ora completamente sviluppata. Questo livello spirituale, successivo a Khokhmà, è chiamato Binà-Comprensione, il livello con il quale Hashèm si manifesta in un modo a noi “più vicino”. Come se il “germe” o “punto” dello stadio Khokhmà, Sapienza, fossero stati “aperti” e “riempiti” in modo che possiamo comprendere pienamente l’idea o il concetto racchiusi in esso.

Per tornare al vino, il motivo per cui rende felici le persone e fa emergere i loro segreti più intimi è perché esso rispecchia le caratteristiche spirituali della sua sorgente e “modello celeste”, dell’attributo divino di Binà, Comprensione, che rivela i segreti precedentemente nascosti all’interno di Khokhmà, Sapienza. Ed è anche per questo che porta gioia: la gioia risulta dalla rivelazione di ciò che è stato precedentemente nascosto. La tipica reazione di un essere umano quando finalmente raggiunge una vera comprensione di un argomento che gli era sfuggito. La soddisfazione intellettuale, in effetti, la vera esultanza, non viene dal sapere che “ho l’idea giusta da qualche parte dentro di me”, ma dal padroneggiarla finalmente e comprenderla a fondo. Il vino, che simboleggia l’attributo spirituale di Binà, riflette quindi la qualità di far emergere il nascosto, il segreto, così come la gioia che ne deriva.

Mentre il vino veniva versato sull’altare del Santuario, i Leviti cantavano canti di lode a Dio. Ciò è appropriato, poiché il vino rappresenta la rivelazione del nascosto e la funzione dei Leviti includeva il portare la parte nascosta del divino a una rivelazione esplicita. 

Per riassumere i punti salienti: il vino simboleggia l’attributo spirituale di Binà, un alto livello di manifestazione divina. Il vino ha quindi le qualità di rallegrare e di far emergere segreti, poiché queste sono anche qualità di Binà. Il versamento del vino era associato ai leviti e al canto, poiché entrambi hanno anche aspetti di rivelare ciò che è nascosto. Quindi rimane la domanda del perché la libagione dell’acqua sull’altare era considerata un evento molto più importante e gioioso?

Sapienza Bagnata

D’altra parte, a Sukkòt si versa anche l’acqua sull’altare. Questo simboleggia l’attributo divino di Khokhmà che, come spiegato sopra, è più elevato del livello spirituale di Binà. Ecco perché la cerimonia dell’acqua era associata al servizio dei cohanìm: la funzione dei leviti era quella di stimolare il popolo per elevarlo a un livello spirituale superiore, un tipo di servizio che può essere descritto come procedere “dal basso verso l’alto”; la funzione sacerdotale era quella di far scendere le benedizioni sul popolo “dall’alto verso il basso”, proprio come una delle caratteristiche principale dell’acqua: la sua naturale tendenza a scorrere il più in basso possibile. 

Per questo il servizio dei cohanìm era condotto in silenzio, come simbolo dell’occultamento, un attributo di Khokhmà, caratterizzato, come detto sopra, dal fatto che la conoscenza presente a questo livello, elevatissima e completa, rimane tuttavia “nascosta” all’intelletto umano il quale può coglierla solo a livello di intuizione. Invece il suono e il canto dei leviti, durante il loro servizio, rappresenta lo “svelamento” della Sapienza Khokhmà e la capacità di padroneggiare e comprendere fino in fondo la, potenzialmente infinita, luce contenuta in Khokhmà, attraverso il livello Binà, Intelligenza.

E proprio come i cohanìm erano considerati superiori ai leviti, come è scritto (Numeri 18, 2): “Ed essi [i leviti] si uniranno a voi [i cohanìm] e vi serviranno”; così era considerato superiore il versamento di acqua sull’altare poiché si collega a Khokhmà il livello più elevato, rispetto al versamento del vino che si collegava a “solo” a Binà.

Dolce e Più Dolce

Tenendo presente quanto sopra, possiamo anche apprezzare perché il versamento del vino è espressamente scritto nella Torà, mentre il versamento dell’acqua non lo è.

La “Torà scritta”, o Tanàkh (composta dal Pentateuco, dai Profeti e dagli Agiografi) è stata composta da Dio in modo tale che ogni singola lettera rappresenta anche misteri indicibili di alto significato spirituale. Per questo motivo la legge ebraica è molto chiara, circa il fatto che in un rotolo della Torà, ogni singola lettera deve essere scritta correttamente. In questo contesto, la Torà scritta è associata all’attributo divino di Binà, anch’esso caratterizzato dall’espressione in lettere. Per esempio, quando un’idea è ancora nello stadio tenue e occultato di Khokhmà non può essere articolata, nemmeno all’interno della propria mente, poiché si è incapaci di esprimere questo concetto o idea con il pensiero, parole e lettere. Tuttavia, quando questo concetto è stato “abbassato” al livello di Binà-Comprensione, esso si può esprimere con le parole o lettere.

Diversamente nella Torà orale (che originariamente doveva essere trasmesso oralmente e che è stato successivamente messo per iscritto solo per evitarne la perdita a causa delle persecuzioni) la specifica lettera non assume un significato così importante da invalidare tutto il testo o il libro. Il motivo è che a livello della Torà orale non ci si focalizza sulla perfezione della singola lettera o parola, poiché la Torà orale è associata a Khokhmà dove rimane solo la meditazione su un concetto e non sulle lettere. Questa focalizzazione sull’idea è al contrario la ragione spirituale dietro la forma non scritta della Torà orale, che è un’espressione di un livello spirituale così elevato che non può essere limitato all’interno di parole specifiche.

Questo è il significato dell’espressione (Shir Hashirìm Rabba I): “Le parole degli scribi, (un appellativo per i Saggi della Torà orale), sono più dolci per Me [Dio] persino del vino della Torà”. Come evidenziato sopra, la Torà Scritta è associata a Binà, che è simboleggiata dal vino, quindi la frase “il vino della Torà” si riferisce alla Torà scritta in generale. La citazione di cui sopra, implica che la Torà orale, “le parole degli scribi”, è più “cara” a Dio, in un certo senso, della Torà scritta, poiché la Torà orale discende dal livello di Divino di Khokhmà, un livello spirituale molto più elevato di quello di Binà, la fonte della Torà Scritta.

Ed è per questo che il versamento dell’acqua di Sukkòt generava una gioia così illimitata e indescrivibile. La rivelazione del livello di Binà, vino, è intrinsecamente gioiosa e, come notato sopra, era eseguite con il canto: la rivelazione manifesta della “conoscenza” divina. Ma a Sukkòt sperimentiamo attraverso l’acqua che scorre sull’altare un livello altrimenti impossibile da raggiungere di rivelazione di Dio: il livello spirituale di Khokhmà, è normalmente impossibile da rivelare completamente, ci è tuttavia eccezionalmente conferito a Sukkòt per via della sua santità intrinsica. Ciò provoca un grado di gioia assolutamente al di là dei confini, al punto che, come dicevano i nostri saggi, “Chi non ha assistito alla celebrazione dell’attinzione dell’acqua non ha mai assistito alla vera gioia nella sua vita”.

Infinitamente Semplice come Hashèm 

Da quanto detto sopra possiamo trarre una fondamentale lezione di vita sulla “semplicità”. La sukkà ha la fondamentale caratteristica di essere una costruzione semplice, eppure in essa permane per tutto il periodo delle feste una santità incredibilmente elevata. Lo stesso possiamo dire sulla cerimonia dell’attinzione dell’acqua (e non vino). Possiamo immaginare qualcosa di più semplice di questo? Eppure, abbiamo scritto sopra, essa è legata all’elevatissimo livello spirituale di khokhmà. Il segreto di questo è che proprio nelle cose semplici, come l’acqua e la sukkà, noi vediamo rivelato l’infinito di Dio, poiché riusciamo a scorgerne l’essenza, senza essere contaminati dalle nostre facoltà e gusti, ossia i nostri limiti umani. Per questo motivo il livello della cerimonia del vino era inferiore, poiché il vino è un prodotto elaborato che richiede un “buon gusto”, ossia l’elaborazione dei sensi umani del desiderio: mi piace, non mi piace o mi piace di più o meno di un altro vino, e ci sarà sempre un altro vino ancora più buono che metterà in dubbio la nostra felicità. Lo stesso a dirsi per una casa: essa può essere bella con lampadari e tappeti di collezione ecc. In questo ambito vi sono delle inevitabili gerarchie dovute alla limitata soggettività umana. Invece, la semplicità di una dimora come la capanna trascende da queste logiche, una capanna è una capanna, questo è la sola cosa che conta. Così l’acqua genera una felicità maggiore al vino perché è al di sopra di un gusto e qualcosa di infinito e perciò può riflettere l’infinito.

In maniera analoga è la presenza infinita di Hashèm, non è possibile stabilire in essa dei criteri umani logici, come buono o non buono, grande o piccolo ecc. 

Pertanto godiamoci la gioia incredibile delle “nostre capanne” e riflettiamo su quanto Hashèm sia sempre presente in questo mondo e nelle nostre vite, soprattutto quando mettiamo da parte i nostri desideri che a volte fanno da velo alla nostra gioia.

Un adattamento di un Maamàr in Likuté Torà di Rabbi Shneur Zalman

Si racconta una storia riguardo al maestro chassidico del 19° secolo, il Rebbe Rashàb, che ricevette la visita di un amico che non vedeva da ben trentasette anni. Ritrovarsi fu strano – i due, una volta intimi amici, sembravano non avere più nulla da dirsi dopo tanto tempo. Poi il Rebbe iniziò a cantare una canzone d’altri tempi. Nel farlo chiuse gli occhi, come trasportato in un altro luogo. In tale stato di elevazione cantò lungamente; poi si fermò, si voltò verso l’amico e disse: “Ti ricordi?” E l’amico rispose: “Si, mi ricordo”. È tutto ciò che si dissero, e una settimana dopo l’amico morì. Più tardi il Rebbe spiegò agli studenti che erano stati testimoni del momento: “Trentasette anni fa, quando ci separammo, cantammo proprio questa canzone. La canzone in un certo senso era una capsula del tempo che ha resistito per noi per tutti gli anni che sono passati. Quando il mio amico disse che ricordava, sapevo che non c’era bisogno di ritrovarsi perché non ci eravamo mai separati – quella canzone ci aveva sollevati in un tempo e un luogo eterni come se quegli anni non fossero mai trascorsi”.
I momenti eterni hanno il potere di trascendere tempo e spazio perché catturano al loro interno la fugace connessione tra il finito e l’infinito. Tali momenti sono doni.
Mentre elaboriamo le esperienze di questa stagione di grandi festività, vogliamo catturare i momenti eterni che sperimentiamo, essere in grado di ricordarli e usarli per ritornare alla vicinanza che sentivamo con la nostra anima e con Dio.
Chiediamoci: Quali momenti eterni abbiamo sperimentato in questa stagione di grandi festività?
Cosa ci vorrà per ricordarli più tardi a piacimento, per essere di nuovo trasportati oltre il tempo e lo spazio?

MOMENTI ETERNI
Gli Ultimi Giorni di Festa: Hosha’na Rabbà – Sheminì Atzèret – Simkhàt Torà

Hosha’na Rabbà: Abbondanza Semplice 
(continua)
Hosha’na Rabbà è l’ultimo giorno di Khol Hamo’èd Sukkòt (quest’anno è Domenica 16 Ottobre) ed è anche l’ultimo giorno per la mitzvà delle quattro specie e della sukkà (nella Diaspora vi sono vari usi riguardo alla mitzvà della sukkà anche a Sheminì Atzèret, ma in ogni caso Hosha’na Rabbà è l’ultimo giorno in cui si dice la berakhà).
Perché si chiama Hosha’na Rabbà? Rabbà significa “molto, numeroso” e proprio in questo giorno si dicono più hosha’nòt che in tutti i giorni precedenti della festa. A Hosha’na Rabbà si esegue il rito della aravà (rami di salice), una specie che viene anche chiamata Hosha’na per via del nome delle preghiere del giorno.
Sebbene la Torà non abbia concesso a Hosha’na Rabbà uno status diverso dagli altri giorni festivi, in questo giorno il popolo di Israele osserva usanze particolari, investendolo di un carattere solenne. I Profeti (Khaggày, Zekharyà e Malakhì) erano soliti prendere una aravà, recitare su di essa una preghiera speciale e poi percuoterla a terra. Diversamente da altri comandamenti rabbinici, sulla aravà non si recita alcuna benedizione; infatti, quando fu instaurata la pratica di “tenere la aravà”, si trattava semplicemente di un’usanza.
Si usa rimanere svegli tutta la notte leggere il libro di Devarìm, recitare tutto il libro dei Tehillìm e “unire” la notte al giorno attraverso la Torà e la preghiera. Le persone devote praticano l’immersione rituale nel mikvé prima dell’alba.
Si indossano abiti festivi e alcuni seguono l’uso di portare indumenti bianchi come a Yom Kippùr, nonché di accendere i lumi avanzati da Yom Kippùr.

Giudizio Finale
A Hosha’na Rabbà avviene il “sigillo del Giudizio finale” che ha inizio a Rosh Hashanà. All’inizio del Giudizio, a Rosh Hashanà e Yom Kippùr, tutti gli abitanti del mondo passano davanti al cospetto di Dio per essere giudicati. Durante la festa di Sukkòt, il mondo nel suo insieme viene giudicato per quanto riguarda l’acqua, per le benedizioni della frutta e del raccolto. Il settimo giorno della festa, Hosha’na Rabbà, è il giorno del “sigillo del Giudizio finale”. Poiché la vita umana dipende dall’acqua, e la fine di una questione è sempre di importanza decisiva, Hosha’na Rabbà è in un certo senso simile a Yom Kippùr. Si prega intensamente e si cerca di pentirsi, come a Yom Kippùr.
I Saggi dicono: “Dio disse ad Avrahàm: ‘Io sono uno, e tu sei uno. Io darò ai tuoi figli un singolo giorno per pentirsi per i loro peccati: Hosha’na Rabbà’. Dio disse ancora ad Avrahàm: ‘Se Rosh Hashanà non farà espiare i tuoi figli, lascia che lo faccia Kippùr. E se neanche Kippùr li farà espiare, lo farà Hosha’na Rabbà’ ”.

Ramoscello e una Foglia
La parola “semplice”, se applicata agli esseri umani o agli oggetti fisici, in genere implica un’assenza di qualcosa. Un uomo semplice, ad esempio, è uno che non è stato dotato della benedizione di una grande intelligenza o di profondità emotiva.
C’è però un’altra applicazione della parola “semplice” – nel significato di puro e unico, in opposizione a qualcosa che consiste di varie parti ed elementi. Quindi Dio viene descritto come “semplice unicità”.
Nel nostro mondo non abbiamo esempi di tale semplice unicità, perché anche l’entità più omogenea è un composto di varie parti, qualità e aspetti. Dio, tuttavia, è decisamente e assolutamente Uno.
Eppure, il Baal Shem Tov fa un parallelo tra la “semplicità” umana – definita da mancanza di apprendimento e di sofisticazione spirituale – e la Divina “semplicità”. Individua per originalità un ebreo semplice, che ha una semplice fede in Dio non riscontrata in correligionari più sofisticati, non perché gli studiosi non posseggano la fede o l’impegno in Hashèm (che è intrinseco in ogni anima ebrea), ma in loro l’innocenza può venire offuscata dalla sofisticazione della loro comprensione.
Ad Hosha’na Rabbà celebriamo l’ebreo semplice, selezionando il semplice ramoscello di salice per un precetto speciale. Infatti, il giorno è chiamato “Giorno del Salice”. Tra le ‘quattro specie’ il ramoscello di salice è simbolo dell’eroe che non eccelle in saggezza né in virtù; è il ramoscello di salice che fa Hosha’na Rabbà.
In linea di massima nell’agitare le ‘quattro specie’ occorre avere in mano almeno due ramoscelli di salice, ognuno con almeno tre foglie, mentre lo speciale precetto di Hosha’na Rabbà si compie con un solo ramoscello di salice, che necessita di una sola foglia.
Questa mitzvà viene considerata tanto importante che i rabbini del Talmud organizzavano il calendario ebraico in modo tale che Hosha’na Rabbà non cadesse mai di Shabbàt, quando sarebbe stato proibito maneggiare i tre ramoscelli o rami.
Hosha’na Rabbà deve essere mantenuto ben al di sopra dei cambiamenti e dai vacillamenti di questo mondo. Se i cicli di tempo minacciano la sua consistenza, dobbiamo deviarli, manipolando il calendario, se necessario, per esser certi che la semplicità del rametto di salice – la semplicità dell’ebreo che pone tutta la sua fiducia in Dio – venga asserita sempre il settimo giorno di Sukkòt.

I Tre Segreti di Hosha’na Rabbà
1) “Ad Hosha’na Rabbà – il settimo giorno del salice – i sacerdoti circondavano l’altare del Tempio tenendo in mano dei salici” (Talmud).
2) “Questo è l’ultimo giorno di giudizio per l’acqua, fonte di ogni benedizione (Levùsh). Il settimo giorno di Sukkòt il giudizio del Mondo è reso definitivo e il Re promulga gli editti” (Zohar).
3) Oggi diamo il benvenuto all’ultimo ospite di Sukkòt, Re David, che rappresenta la regalità/nobiltà (malkhùt).

1) Hosha’na Rabbà, il giorno della Grande Salvezza, applica il sigillo definitivo al Giudizio: il verdetto scritto a Rosh Hashanà e sigillato a Yom Kippur in questo giorno viene reso definitivo.  La ragione di ciò è che Hosha’na Rabbà è il settimo e ultimo giorno di Sukkòt, in cui il mondo viene giudicato per l’acqua, da cui dipende la vita. E dato che “tutto dipende dalla decisione finale”, Hosha’na Rabbà, l’ultimo giorno di Sukkòt, è il giorno in cui viene presa la decisione finale riguardo al giudizio di tutta la vita. E’ di conseguenza un giorno potente, comparato in un certo senso a Yom Kippur, con preghiere e tradizioni aggiuntive.
Anche se la Torà non dà a questo giorno uno status speciale, gli ebrei tradizionalmente vi osservano varie usanze tipiche, e lo hanno investito di carattere solenne.
Come veniva adempiuto il precetto di aravà? C’è un luogo sotto Gerusalemme chiamato Motzà. Lo si raggiungeva e si prendevano rami di salice che poi si ponevano lungo l’altare con la parte alta (dei rami per l’appunto) piegata sull’altare. Veniva poi suonato lo shofàr: un teki’à, un teru’à, e un teki’à. Ogni giorno si girava una volta attorno all’altare e si diceva: “Ana Hashèm Hoshia Na” (Per favore, Dio, conducici alla salvezza), Ana Hashèm Hatzlikha Na (Per favore, Dio, portaci al successo). In quel giorno, cioè Hosha’na Rabbà, si girava sette volte attorno all’altare e quando finivano dicevano: “Tua è la bellezza, oh altare, tua è la bellezza”. Ciò che era fatto durante la settimana veniva fatto a Shabbàt (cioè se Hosha’na Rabbà cadeva di Sabato) ma, a Shabbàt si riunivano le aravòt alla vigilia (di Shabbàt) e si mettevano in bacinelle d’oro perché non si seccassero (Talmud Sukkà 45a).

2) Lo Zohar spiega che a ciò si allude nel verso “E Isacco tornò e riscavò i pozzi d’acqua (Genesi, 26:18). “Pozzi” è scritto con una lettera mancante. Cosa significa “Isacco tornò”? Questo passaggio si riferisce al giorno di Hosha’na Rabbà. Isacco (ghevurà) essendosi seduto sul Trono del Giudizio che inizia il primo giorno del settimo mese (Rosh Hashanà), ora torna per risvegliare le ghevuròt (severità di giudizio) e per concluderle. Quindi riscava il pozzo d’acqua per versare ghevuròt su Israele per stimolare le acque, perché ghevuròt (il loro potere e la loro potenza) fanno cadere in terra l’acqua. In questo giorno risvegliamo le ghevuròt che mandano la pioggia, e giriamo sette volte attorno all’altare e (sate it) con l’acqua di Isacco per riempire il pozzo di Isacco con la sua acqua, e poi tutto il mondo viene benedetto con l’acqua. (Hosha’na Rabbà è il giorno del giudizio per le acque, e questo giorno conclude il giudizio iniziato a Rosh Hashanà). È anche per tale motivo che in questo giorno prendiamo “il salice accanto al torrente” e lo battiamo al suolo per terminare le asperità provenienti dal torrente, che si riferiscono ai pozzi di Isacco… Ad Hosha’na Rabbà le nazioni idolatre terminano la loro benedizioni e vengono sottoposte a giudizio, e Israele termina il suo giudizio ed entra nelle benedizioni. Per il giorno successivo (Sheminì Atzèret), si gioisce privatamente con il Re e si ricevono da Lui benedizioni per l’intero anno e si ottiene qualsiasi richiesta che essi facciano.

3) Malkhùt è la settima emozione, quella finale, che completa lo spettro emozionale completo della nostra relazione con Dio, con noi stessi, con altre persone. Ad ognuno dei primi sei giorni di Sukkòt abbiamo raffinato una delle sette emozioni corrispondenti; ad Hosha’na Rabbà concludiamo ed eleviamo tutte loro (quindi le sette HOSHANOT e i sette giri intorno ai rotoli della Torà) che culminano nella costruzione di Malkhùt, l’incoronazione di Dio come nostro Re che è iniziato a Rosh Hashanà ventuno giorni fa.
Malkhùt si riferisce anche all’inerente dignità e maestà all’interno di ciascuno di noi, per virtù del fatto che ognuno di noi è creato a immagine divina ed è figlio del Sovrano Divino (vedere 3 Tishrè). Nella benedizione odierna, Re David dice essenzialmente: “nessun’arma” può riuscire a minare il nostro valore inerente e indispensabile che risulta dalla nostra unwavering relazione e assoluta connessione con Dio (vedere anche 3 Tishrè).

Sheminì’ Atzèret: Un Giorno Ricco di Essenza

Sheminì Atzèret è la conclusione e il perfezionamento dell’intera stagione festiva. Esso mantiene ciò che la nostra unione con Dio concepisce e che in questo giorno si manifesta; garantisce che seguirà la nascita; incanala tutta l’energia della festa nelle nostre vite in modo che possa dar frutto per tutto l’anno. Questo giorno di festa, da solo, è pieno quindi di enorme potere:
1. è il giorno definitivo di tutti i Giudizi, in cui decreto e verdetto vengono inviati a seguire il loro percorso;
2. è il giorno in cui iniziamo a dire la preghiera per la pioggia – fonte di tutte le benedizioni;
3. vi danziamo con gioia sfrenata per la Torà, per le Seconde Tavole della Legge e per il perdono che abbiamo ricevuto a Kippur.
Sheminì Atzèret è unico perché in questo giorno vengono portate al Tempio le offerte singole (un giovenco, un ariete) a differenza di tutte le altre feste, e specialmente di Sukkòt, in cui tali offerte vengono portate ogni giorno a più riprese. Il Talmud ne spiega il motivo con la parabola di un re:
Dopo aver chiesto ai suoi servi di unirsi a lui in un grande banchetto (le settanta offerte di Sukkòt) l’ultimo giorno il re chiede ai suoi beneamati: “Vi prego, unitevi a me per un semplice pasto, così che io possa compiacermi di voi”.
Dopo aver elevato il mondo intero con le settanta offerte a Sukkòt, Sheminì Atzèret è l’unico giorno in cui tutto il resto viene messo in disparte e noi, la “singola nazione”, siamo soli, in intimità col Re, senza alcun estraneo presente, per un’ultima volta prima di entrare nei bui e freddi giorni invernali.

Questa festa ha diversi significati. La parola ebraica Sheminì significa “ottavo” ma deriva dalla stessa radice di shuman, che significa “grasso” o “ricco”. La parola ebraica “Atzèret” può significare “conservazione/assorbimento” o “limitazione/ripiego” o “riunione/assemblea”. E può significare anche “essenza”. Quindi Sheminì Atzèret rappresenta la ricchezza dell’essenza dell’intero anno, perché questo giorno perfeziona l’energia delle feste di Tishrè e la incanala in tutti i giorni dell’anno.
Rashì, nel suo commento alla Torà, spiega il significato di Sheminì Atzèret con la seguente parabola:
C’era una volta un re che invitò i figli ad un banchetto che durò diversi giorni. Quando arrivò il momento di accomiatarsi, disse loro: “Figli miei, per favore, rimanete con me ancora un giorno – mi è difficile che vi allontaniate…”
Nella parabola il re non dice: “è difficile allontanarmi da voi”, ma “mi è difficile che vi allontaniate”. In effetti Dio è dappertutto e quindi non si allontana mai da noi. Siamo noi che ci allontaniamo da Dio, entrando in uno stato di minore consapevolezza della nostra relazione con Lui.
“Che vi allontaniate” ha anche un altro significato: la separazione tra di noi, che, agli occhi di Dio, equivale al nostro allontanamento da Lui. Quando siamo un tutt’uno con Dio, siamo anche un tutt’uno gli uni con gli altri, uniti come figli del nostro Regale Padre. Lo stesso accade al contrario: quando siamo l’uno con l’altro, uniti nella nostra comune identità di figli di Dio, siamo un tutt’uno con Dio stesso.
Questo allontanarsi per Dio è angoscioso. Egli ci trattiene ancora un giorno, un ottavo giorno di ‘assorbimento’ o ‘riunione’, un giorno in cui dimorare nella sukkà non è più precetto ma in cui, ciononostante, l’unità di Sukkòt ci ricopre.
In questo giorno non siamo noi ad essere nella sukkà ma è la sukkà ad essere dentro di noi. In questo giorno abbiamo il potere di interiorizzare l’unità di Sukkòt, distillarla fino a farne un’essenza e conservarla nel profondo delle nostre anime in modo da potervi attingere nei mesi a venire.
“Il quindicesimo giorno di questo settimo mese sarà la festa delle Capanne per sette giorni… L’ottavo giorno sarà per voi Sacra Convocazione – è Atzèret tempo di preservazione della memoria. (Levitico, 23, 33-36)
“A Sheminì Atzèret la gioia è riservata alla sola Israele: è lei l’ospite privato del Re e in quanto tale può ottenere qualsiasi cosa richieda”. (Zohar, III 32a)

Simkhàt Torà
Simkhàt Torà – anche se non specificamente menzionato nella Torà scritta e orale – segna l’apice del mese di Tishrè, tanto ricco di feste. In quanto giorno conclusivo della stagione festiva, compendia il potere di tutto Tishrè. Il timore reverenziale di Rosh Hashanà, la sacralità di Yom Kippur, l’unità e la gioia di Sukkòt, tutto raggiunge la sua più alta espressione a Simkhàt Torà quando ci rallegriamo nella Torà e la Torà si rallegra in noi. Di conseguenza Simkhàt Torà rappresenta per molti versi il punto più elevato dell’anno, certamente quello più gioioso.
Le Hakafòt (circoli) attorno alla pedana della Torà sono contenitori delle rivelazioni Divine più elevate, che arrivano in forma di circoli (iggulim in termini cabalistici). Sono troppo grandi per essere ristretti in contenitori limitati; di conseguenza possono soltanto essere espressi in una esplosiva danza circolare.
Senza sperimentarla di persona, è impossibile descrivere l’esuberanza gioiosa della celebrazione di Simkhàt Torà nelle comunità ebraiche del mondo. Si può tranquillamente affermare che la gioia, la danza e il canto raggiungono i livelli più alti che i mortali possono raggiungere.
Danziamo con le gambe ed esse sollevano il nostro intero essere – anche le nostre menti e i nostri cuori – in luoghi che non avremmo potuto raggiungere da soli. Questa danza è il “Ballo dell’Essenza”, – il fondamento che trascende ogni livello, strato, definizione. Mentre diciamo nei versi recitati prima della danza: “Tu – nella tua essenza assoluta – hai rivelato Te Stesso affinché noi potessimo conoscerTi.”
Questa essenza – il “Tu” – non è accessibile alla mente, al cuore e a nessuno dei nostri strumenti limitati e definiti. È accessibile soltanto raggiungendo la nostra essenza interiore e iniziando a danzare con profonda innocenza senza limiti né costrizioni, senza considerazione né deliberazione.
Danziamo con gli altri e con Dio. Danziamo e celebriamo l’essenza stessa della vita e il dono della nostra missione.
Dopo aver riversato in questo mese tanti precetti, preghiere, differenti espressioni di timore e d’amore – tutto giunge ad una sincera e inalterata celebrazione di danza e canto che esprime al meglio la nostra passione assoluta e la nostra fondamentale connessione con Dio.

La Celebrazione dell’Indistruttibile
Con Simkhàt Torà si completa il ciclo di lettura della Torà (gli ultimi versi del Libro del Deuteronomio) e si inizia daccapo (col Libro della Genesi). Le ultime parole della Torà recitano: “…e tutti i grandi atti che Mosè compì davanti agli occhi di Israele” (Deuteronomio, 34:12).
Il Rashì afferma che ciò si riferisce a Mosè che “rompe le Tavole”. Ma sicuramente l’aver rotto le Tavole rappresenta un fallimento più che una realizzazione. Come potrebbe essere un grande atto?
È stato un grande atto perché la rottura delle prime Tavole ha permesso l’incisione delle seconde, che furono indistruttibili.
Le prime Tavole possono essere paragonate ad uno Tzaddik – una persona nata innocente che conduce una vita santa; le seconde ad un bà’al teshuvà (maestro del ritorno), una persona che cade ma poi si rialza, si pente e inizia daccapo, ed è infinitamente più forte per questa esperienza.
Le seconde Tavole – create perché le prime furono distrutte – riflettono la sfida della vita stessa; la caduta dell’uomo e la sua capacità di risalire ad altezze nuove e mai sperimentate.
Le seconde Tavole riflettono inoltre il potere dell’iniziativa umana: furono incise da Mosè e date da Dio a Yom Kippur dopo 80 giorni di instancabile sforzo di Mosè. Quindi le seconde Tavole rivelarono una nuova dimensione della nostra relazione con Dio: cioè che persino dopo la nostra caduta, grazie ai nostri sforzi (di teshuvà), possiamo dimostrare l’invincibilità della nostra intrinseca connessione con Dio e con la Torà, che trascende tutta la nostra debolezza. E’ stata la rottura delle prime Tavole a svelare questo potere e questa invincibilità.
Le seconde Tavole, in breve, hanno rivelato una nuova, originalissima dimensione al nostro interno: la Torà e la nostra relazione con Dio.
Simkhàt Torà è la celebrazione di questa nuova dimensione. Quindi balliamo con assoluta passione e senza limiti. Le nostre gambe ci conducono e le nostre braccia sono avvolte attorno al Rotolo della Torà. E’ una danza che tocca l’essenza più intima dell’ebreo, l’essenza stessa della Torà e di Dio. Questo ballo trascende il nostro limitato intelletto e le nostre emozioni; riunisce tutti, indipendentemente da istruzione, retaggio ed elevazione spirituale. E’ una danza infinita che tocca l’immortalità stessa.

Un Racconto per Simkhàt Torà’
La prima volta che il Baal Shem Tov parlò ai suoi discepoli di Simkhàt Torà raccontò loro un episodio accaduto in cielo la mattina della festa.
La mattina di Simkhàt Torà gli ebrei dormono un pochino di più perché hanno lungamente ballato durante le Hakafòt della notte precedente. Gli angeli del cielo, però, non ballano tutta la notte; quindi, al mattino si svegliano alla solita ora, tutti pronti per cantare le loro preghiere mattutine.
Eppure, quel giorno gli angeli si trovarono senza nulla da fare. Il Talmud afferma che: “gli angeli non possono cantare le lodi di Dio nei cieli fino a che Israele non canta le lodi a Dio sulla Terra”. Dato che il popolo ebraico era ancora addormentato, gli angeli non potevano ancora iniziare la funzione del mattino.
Cosa fecero gli angeli nel frattempo? Iniziarono a fare le pulizie nel paradiso celeste conosciuto come il Giardino dell’Eden. Quando entrarono nel Giardino dell’Eden lo trovarono ricoperto di strani oggetti: scarpe contorte e tacchi rotti.
Ora, in Paradiso, gli angeli sono abituati a trovare oggetti sacri, ad esempio libri di preghiere, talled o stole di preghiera, tzitzìt (frange sacre), tefillin (filatteri), Rotoli di Torà e cose del genere.
Mai nella loro carriera si erano imbattuti in… suole contorte. “Cosa fanno questi curiosi oggetti qui in Paradiso?” si chiesero gli angeli.
Si voltarono verso il collega anziano, l’angelo Michele, considerato l’avvocato superno del popolo ebraico. “Si” ammise Michele, “in effetti questa è roba mia. È ciò che resta delle Hakafòt dei festeggiamenti della notte scorsa, quando gli ebrei hanno ballato ore e ore con i Rotoli di Torà.”
L’angelo Michele procedette a contare e ammucchiare le scarpe consunte secondo le comunità da cui le aveva “acquisite”. “Queste sono le suole della città di Kaminkeh, queste sono della città di Mèzritch” e così via.
“L’angelo Matat” disse Michele, riferendosi all’angelo più prestigioso della Corte Celeste, “intreccia corone per Dio fatte di preghiere di Israele. Ma oggi io farò di meglio” si vantò. “Farò una corona ancor più gloriosa per l’Onnipotente, composta da queste scarpe consumate per aver ballato fino a tarda notte per Simkhàt Torà.”
“Questa è la potenza, concluse il Baal Shem Tov, “della danza di Simkhàt Torà. Anche le sue suole consumate bucano il cielo…”

In Conclusione…! Occorre Trasformare l’ispirazione in Azione
Se vogliamo che l’ispirazione della stagione delle Grandi Feste non si dissipi ma venga trasformata in momenti eterni a cui poter attingere per il resto dell’anno e per il resto della vita, dovremo fare qualcosa.
Anche se la meditazione può essere benefica, l’azione è più potente di qualsiasi meditazione. In effetti la meditazione pone solo le fondamenta per l’azione. L’azione cambia gli esseri umani, smuove le montagne e alla fine cambia il mondo.
Come può l’azione cambiare il mondo? Unisce la tensione tra materia e spirito, fondendoli in un tutt’uno.
La materia (il nostro reame materiale e terreno) è temporaneo ma tangibile. Lo spirito (la nostra anima) è eterno ma intangibile. Da qui la tensione fra loro. La soluzione ebraica per fondere le due è spiritualizzare il materiale.
Per far ciò occorre prendere la propria vita materiale – antitesi a tutto ciò che è eterno – e connettersi a qualcosa di eterno. È questa la chiave.
Molte persone interpretano ciò a significare che dovrebbero liberare più momenti della loro vita per l’attività eterna e spirituale – cioè, ad esempio, invece di lavorare quattordici ore al giorno dovrebbero tornare a casa presto e trascorrere più tempo con la famiglia.
Questo va benissimo, ma c’è un altro sistema.
Nell’andare a lavorare dovreste trasformare la vostra ‘postazione’ in ‘eternità’. Un suggerimento: specialmente se per lavoro manipolate soldi, mettete un bossolo di carità sulla scrivania.
Sembra un gesto scontato, eppure quel bossolo, tra le trattative finanziarie, diventa un promemoria costante: esistono altre cose importanti.
Un altro suggerimento data la molta attenzione che viene prestata al consumo di cibo: occorre prendersi del tempo per dire sempre una benedizione prima e dopo aver mangiato. Anche se sembra un altro fatto scontato, una benedizione è un forte promemoria per ricordare che il mondo materiale non esiste affinché noi vi indulgiamo dentro, ma per essere raffinato e trasformato.
Chiedetevi: Come pensate di catturare l’ispirazione delle Grandi Feste? Come potete trasformarla in azione?
Da noi, dalle nostre azioni dipende l’arrivo immediato di Mashìakh… non dobbiamo mai dimenticarlo.

Continuiamo a caricare le nostre batterie dell’anima con felicità per tutto l’anno.
Ogni festa della Torà non solo è un ricordo di un evento passato ma è il ripetersi di quell’evento. La mistica aggiunge che ogni festa ci dà una carica spirituale “vitamina dell’anima” essenziale per la nostra sopravvivenza e per l’equilibrio tra il nostro spirito e corpo.
Solo che Sukkòt non è solo la quinta e ultima vitamina delle 5 vitamine dell’anima (vd lezione 5 vitamine https://youtu.be/ijcPRB8fNTE), ma è anche la più ricca di tutte le vitamine perché include in una sola festa almeno 5 messaggi e ricariche spirituali, che sono fondamentali per realizzare la nostra missione nel mondo.
1. La prima è la felicità (spiegheremo in questo articolo una delle ragioni).
2. La seconda vitamina è l’umiltà che coltiviamo lasciando le nostre case calorose e ricche in cambio di una piccola capanna dove il vento si sente e la pioggia ci bagna. Questo perché la felicità si può acquisire solo tramite l’umiltà e guardare il mezzo bicchiere pieno. Chi guarda il mezzo bicchiere vuoto non sarà mai felice.

SUKKÒT È UNA MULTIVITAMINA

3.    La terza vitamina è l’ospitalità che sviluppiamo solo durante Sukkòt poiché è la festa che ci insegna che senza ospiti la tavola non è completa. Non basta essere felici (1) ed è umili (2) se non riusciamo a condividere la nostra felicità con gli altri. Essendo la capanna fuori dalla casa sulla strada, non ci sono più barriere che ci dividono dal prossimo e gli ospiti sono di casa. Perciò durante Sukkòt, ci dice lo Zohar, vengono a trovarci i sette Santi Ospiti “ushpizìn kadishìn”: Avrahàm, Yitzkhàk, Ya’akòv, Moshè, Aharòn, Yossèf e Davìd, in parallelo con i sette Santi Ospiti Chassidici a partire dal Ba’àl Shem Tov…
4.    La quarta vitamina è la protezione di Hashèm che ci assiste tutto lanno e quando siamo in Sukkà siamo ben consci di questa protezione. Infatti, lo Zohar chiama la Sukkà l’Ombra di Dio e l’Ombra della fede e della protezione divina che riceviamo stando sotto il tetto della Sukkà.
5.    La quinta vitamina è l’unità che, come la prima vitamina, è la colonna portante della festa. L’unità la riceviamo tramite l’ospitalità e l’umiltà come dice il Talmùd: Tutti Israèl risiederanno sotto UNA Sukkà; e allo stesso modo le quattro piante che compongono lulàv rappresentano quattro tipi di ebrei che dobbiamo unire assieme per essere vincenti.

E Dio Disse: “Facciamo l’Uomo” 
Cosa intendeva Dio quando disse “Facciamo l’uomo?” (Bereshìt 1, 26).
Appena nati, gli animali sono quasi completi e formati. Con l’età, aumentano solo la loro dimensione e la forza. L’uomo, tuttavia, al momento della nascita è completamente formato ma non è affatto sviluppato: non parla, non cammina e non ha istruzione. Nel corso della sua vita matura completamente ricevendo istruzione e migliorando se stesso.
Quando Dio creò l’uomo, si rivolse a tutte le generazioni e disse loro che lo “sviluppo” fisico ma anche mentale e spirituale dell’uomo dipende dalla Sua collaborazione e assistenza “Facciamo l’Uomo”, poiché è stato creato a Sua immagine.
Questo concetto è intimamente legato alla festa di Sukkòt. Le quattro lettere ebraiche che compongono la parola sukkà costituiscono l’acronimo dell’espressione somèkh ve’ozèr kol hanoflìm – ovvero “(Egli, Hashèm) sostiene e assiste tutti coloro che cadono”. Quando una persona adempie alla mitzvà della sukkà, Dio la aiuta in tutto ciò che intraprende e lo tiene per mano (Benè Yissakhàr)

Perché Periodo Più Allegro?
Sulla Festa di Sukkòt la Torà dice: Per sette giorni farai la Festa di Sukkòt, quando raccoglierai il prodotto che è sulla tua aia e nel tuo tino e ti rallegrerai nella tua festa: tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava, il Levì e il forestiero, l’orfano e la vedova che si trovano nella tua città. Per sette giorni farai festa in onore di Hashèm, tuo Dio, nel luogo che Hashèm sceglierà, perché ti benedirà Hashèm nei tuoi prodotti dei campi e in tutte le tue azioni; sarai dunque completamente felice (Devarìm 16, 13).
Ognuna delle tre feste di pellegrinaggio soprannominate Sheloshà Regalìm (lett. tre piedi) fa riferimento a due livelli differenti, ossia l’asse del tempo storico e il ciclo del calendario agricolo. Com’è noto, celebriamo Pèssakh in ricordo della nostra uscita dall’Egitto. Nello stesso momento, però, ricordiamo anche un altro evento che nella Torà è denominato “festa della primavera” (khag haavìv), poiché Pèssakh si celebra alla fine dell’inverno, quando il grano comincia a maturare. Per quanto riguarda Shavuòt; la sua ragione storica è il ricevimento della Torà, ma allo stesso tempo si riferisce alla “festa della mietitura” (khag hakatzìr), perché coincide con l’inizio della mietitura nei campi.
Allo stesso modo, la Torà attribuisce a Sukkòt una denominazione aggiuntiva, cioè “festa del raccolto” (khag haassìf), perché in questi giorni Israèl raccoglie i prodotti per portarli nei granai che si trovavano nelle case e nei cortili. Storicamente, invece, a Sukkòt ricordiamo la permanenza del popolo d’Israèl nel deserto, il soggiorno nelle capanne e tutti i miracoli legati alla vita del popolo allora privo di una terra: “Celebrerete questa ricorrenza come festa in onore di Hashèm per sette giorni all’anno; legge per tutti i tempi, per tutte le vostre generazioni; la festeggerete nel settimo mese. Dimorerete in capanne per sette giorni, ogni cittadino in Israèl dimorerà in capanne, perché le vostre generazioni sappiano che Io ho fatto dimorare in capanne i figli d’Israèl, quando li ho tratti fuori dalla terra d’Egitto, Io sono Hashèm, vostro Dio” (Vayikrà 23, 41-43).
Ciononostante, questi due aspetti, storico e agricolo, hanno un unico denominatore: Sukkòt segna la conclusione delle feste annuali descritte nella Torà, a sua volta iniziate nel mese di nissàn, con Pèssakh. Pertanto, questa festività rappresenta da un lato l’epilogo degli eventi della storia del popolo di Israèl descritti nella Torà, e dall’altro il festeggiamento per la conclusione dell’anno agricolo.
Per questo è chiamato il periodo più allegro poiché in esso concludiamo il nostro lavoro materiale e portiamo a casa i frutti della nostra fatica. Questo è anche una metafora della gioia per la conclusione del percorso di crescita spirituale che succede a Sukkòt e a livello macro la conclusione degli eventi storici della storia del mondo.

Conclusione delle Celebrazioni
Dopo i sette giorni di Sukkòt dobbiamo prolungare la celebrazione di un giorno: “Per sette giorni presenterete un sacrificio da ardersi nel fuoco in onore di Hashèm; l’ottavo giorno avrà luogo per voi una sacra convocazione, e offrirete un sacrificio da ardersi nel fuoco in onore di Hashèm, è un giorno di riunione: non farete alcun lavoro servile” (Vayikrà 23, 36). Sebbene i saggi abbiano stabilito che Sheminì ‘Atzèret (l’ottavo giorno) sia un giorno di pellegrinaggio a sé stante e non faccia parte di Sukkòt, sembra che vi sia un legame essenziale tra le due festività, cioè che nell’ottavo giorno di “sacra convocazione” noi diamo inizio al nuovo anno agricolo e cominciamo proprio chiedendo la pioggia ad Hashèm tramite un’apposita preghiera istituita dai nostri maestri. Successivamente questa ricorrenza fu chiamata anche Simkhàt Torà, perché è il giorno dell’anno in cui gioiamo per la conclusione del ciclo di lettura della Torà e iniziamo il nuovo dalla parashà di Bereshìt.

Un Tempio Fatto di Gioia
Sukkòt si distingue tra i sheloshà regalìm, le tre feste del pellegrinaggio, per il fatto che la Torà ci comanda di gioirvi in maniera particolare. Alla fine dell’anno, infatti, ci rallegriamo di tutta l’abbondanza che Hashèm ci ha concesso nei campi e nelle vigne e ci rallegriamo per tutto il bene che Egli ci ha fatto dall’uscita dall’Egitto fino al nostro ingresso in Israèl.
In origine, tale espressione di gioia da parte di Israèl si traduceva nel fatto di recarsi al Santuario. Portando le “quattro specie”, ogni ebreo si recava al Santuario per adempiere al precetto: “Il primo giorno prenderete per voi il frutto dell’albero di agrumi, tralci di palma, rami con foglie intrecciate e salici di torrente e gioirete al cospetto di Hashèm vostro Dio per sette giorni” (Vayikrà 23, 40). Tale mitzvà veniva eseguita effettivamente quando Israèl si riuniva “come un sol uomo” nel Santuario a Yerushalàyim. Tenendo il lulàv, essi circondavano l’Altare intonando canti di lode a Hashèm. Nel Santuario, la gioia di fronte ad Hashèm nel corso della festa trovava un’ulteriore espressione nelle melodie suonate dai leviti.
In aggiunta alle offerte che venivano portate a Sukkòt, la gioia della festa era riconoscibile anche nei precetti a essa destinati: la libagione dell’acqua, la battitura del ramo di ‘aravà, la festa presso la fonte da cui si attingeva l’acqua per la libagione (Simkhàt Bet Hashoevà) e ogni sette anni (quello successivo alla Shemità) accadeva un anno speciale chiamato Hak’hèl-(grande) raduno, con il compito di adempiere al precetto “dell’adunanza” a Yerushalàyim di tutto il popolo senza eccezione gli uomini, le donne e bambini, durante il quale si leggeva la Torà al cospetto di tutto Israèl.
Il Rebbe è stato infatti uno dei primi a diffondere l’importanza di questi festeggiamenti anche oggigiorno in occasione di Simkhàt Bet Hashoevà. Ogni sera egli teneva un discorso e rimarcava l’importanza di ballare e cantare tutta la notte nelle strade pubbliche per il fatto che la festa di Sukkòt è più di ogni altra intimamente legata a tutti i popoli del mondo, dal momento che vi si portavano sacrifici per i settanta popoli, motivo per cui anche i non ebrei dovrebbero gioire in questa festa.
Solo al termine della settimana, a Sheminì Atzèret, si balla all’interno degli edifici, perché quel giorno Hashèm festeggia solo Israèl, come spiegato nel Midràsh.
Dopo la distruzione del Santuario e la dispersione di Israèl nelle terre del mondo, non rimase molto di tutta la bellezza, lo splendore e la grande gioia che nascevano dall’incontro dei figli di Israèl a Yerushalàyim. Oggi, tra i numerosi precetti che caratterizzavano l’osservanza della festa, conserviamo, in sostanza, solo norme e frammenti di rito: il lulàv viene acquistato dai singoli, la battitura del ramo di ‘aravà viene eseguita solo in memoria del Santuario, le offerte e i sacrifici della festa sono stati sostituiti dalle tefillòt e il precetto della libagione d’acqua è scomparso. Persino il precetto “dell’adunanza”, il quale sembrava non avere limitazioni particolari che potessero impedirne l’adempimento, non ha preservato la medesima importanza di una volta.
La celebrazione di Sukkòt, in particolare, ha sempre avuto un effetto profondo sul mondo. Le settanta offerte portate al Tempio per Sukkòt rappresentano la preghiera di protezione di tutte le settanta nazioni del mondo. Gli ebrei portavano questi sacrifici come espiazione per i popoli, pregando per il loro benessere, per la pace universale e l’armonia in tutta l’umanità. Oggi queste offerte sono ricreate mediante le nostre preghiere. Questo dimostra la particolarità della religione ebraica che non solo non cerca di fare proselitismo, ma addirittura prega per tutte le nazioni del mondo indipendentemente dalla loro fede, perché nella religione ebraica non esiste la politicizzazione, esiste solo Dio e l’umanità e l’unione fra essi.
La gioia e i rituali di Sukkòt continuano ad avere, proprio come nei tempi antichi, un impatto cosmico sul destino del mondo. Osserviamo quindi che la celebrazione di Sukkòt non riguarda soltanto la trasformazione di noi stessi, ma quella dell’intero pianeta per raggiungere finalmente la pace per tutto il genere umano.

Quindi che aspettiamo continuiamo a festeggiare e rallegrarci in questi giorni propizi e prepariamoci per l’imminente rivelazione dell’era dorata quando TUTTI gli uomini vedranno con gli occhi materiali che Hashèm è unico e il suo nome unico!

VITA = FELICITA
Senza la felicità la vita non è vita!
Senza la felicità la vita è un peso difficile!
Senza la felicità la vita non ha senso!
Da stasera la Sukka/Capanna ci ricaricherà di felicità per un anno intero.
NON PERDIAMO L’OCCASIONE.

A partire da questa sera lunedì 20 Settembre iniziano i sette giorni più allegri dell’anno…
*
IL MATRIMONIO PIÙ GIOIOSO DELL’ANNO
Sukkòt, la Festa delle Capanne

La Ricette per Essere Felici? Non Arrabbiarsi!
Il grande maestro Chafetz Chaim, una delle colonne portanti dell’ebraismo della prima metà del secolo scorso, mentre il Sukkòt si avvicinava, costruì la sukkà nel posto dove veniva allestita regolarmente ogni anno.
Tuttavia sua moglie, a lavoro terminato…, gli disse: “penso che sarebbe stato meglio mettere la sukkà dall’altra parte del cortile”.
Quando il grande tzaddìk sentì queste parole, non disse una nulla, nonostante tutto il tempo impiegato, la grande fatica e l’abitudine di costruire la sukkà per decenni in quel posto. Pertanto, prontamente, smontò la sukkà e la ricostruì nel luogo indicato dalla moglie.
Dopo che la sukkà era nel nuovo posto, sua moglie uscì di nuovo, guardò attentamente, poi si rivolse a suo marito e disse: “in effetti ho sbagliato, il primo posto dove hai SEMPRE messo la sukkà era decisamente migliore”.
E ancora il Chafetz Chaim la smantellò e la mise in piedi nel primo luogo con tantissima “SANTA PAZIENZA”!!!
Da questo aneddoto impariamo quanto è importante la “pace della casa”.
È meglio costruire e distruggere la sukkà più volte che arrabbiarsi, anche una sola volta! Il successo nella vita passa SOLO tramite la moglie che è la sukkà quotidiana che ci accompagna sempre e tramite l’unione della coppia!

Matrimonio e Felicità
La Torà ci comanda a durante questo periodo: “Per sette giorni dimorerete nelle capanne”. Nello spiegare questa mitzvà, i nostri Saggi spiegano che, per la tutta la durata della festa di Sukkòt, queste piccole capanne con tetti di rami e frasche vanno considerate come se fossero le nostre case. Tutto ciò che è utile per la quotidianità dovrebbe essere portato fuori dalla casa e introdotto all’interno di esse, poiché è detto: “Una persona dovrebbe mangiare, bere, rilassarsi… e studiare nella sukkà”.
È scritto nel libro dei Proverbi: “Conoscerlo in tutte le nostre vie”, ovvero che la presenza di Hashèm risiede non solo al tempio o presso un luogo di studio, ma in ogni dimensione e angolo delle nostre vite.
Questo concetto diviene molto chiaro mentre dimoriamo in una sukkà. In tal modo comprendiamo che ogni nostra azione può servire come mezzo per entrare in contatto con nostro padre in cielo e collegarsi alla Sua essenza.
Nessuna altra mitzvà ci avvolge come la sukkà. Cerchiamo di approfittare e dedicare quanto più tempo in sukkà che è fonte di BENEDIZIONE e PROTEZIONE e GRANDE SUCCESSO per tutto l’anno.
Tuttavia la caratteristica principale di Sukkòt è la gioia, ma non una semplice e generica gioia, come molte altre feste. Infatti, questo periodo è considerato quello più gioioso dell’anno: ZMAN SIMKHATENU, in ebraico PERIODO GIOIOSO. Perché, tra tutte le 3 feste di pellegrinaggio – Shalosh Regalìm, Sukkòt è la più allegra? Pèssakh no, Shavuòt no e questa si? Inoltre cosa centra questa festività con il successo matrimoniale?

UN MATRIMONIO DURATO 123 GIORNI
Per capire questo dobbiamo andare indietro al periodo in cui Hashèm ha fatto uscire il Suo popolo dall’Egitto, per sposarsi con lui attraverso il patto della Torà. L’ordine delle 3 feste di pellegrinaggio, Shalosh Regalìm, partono da Pèssakh che simboleggia la nascita e da Shavuòt che rappresenta il matrimonio, poiché prima c’è la nascita e poi ci si sposa. Come in ogni unione ci sono delle regole, anche in questo “matrimonio” ce ne sono : Dio si impegna a non abbandonare il suo popolo e proteggerlo, mentre Israèl si impegna a rispettare i Suoi comandamenti, le Sue leggi e divulgare così, al mondo intero, che c’è un solo Dio nel mondo e nei cieli. Come è scritto nel Cantico dei Cantici (3, 11): “nel giorno del suo matrimonio”. Il Talmud Taanìt spiega che questa frase si riferisce al Dono della Torà sul monte Sinày. Proprio nel Nome Israèl troviamo questo concetto: le prime due lettere IS יש  formano la parole YESH – C’È; mentre le ultime due formano la parola El אל Dio. Ovvero dal combinato di queste frasi si forma la parola: C’È UN SOLO DIO! Questa frase sintetizza la missione di Israèl nel mondo e il significato profondo della sua esistenza è celato nel suo nome ISRAEL.

Pertanto le tre feste, che iniziano con Pèssakh, sono consequenziali, una sorta di salita e una progressione spirituale. Tuttavia rimane da spiegare che significato ha Sukkòt, l’ultima delle tre?
Per capire dobbiamo analizzare meglio il concetto del “matrimonio, patto d’unione” con Hashèm: Il 6 di Sivàn Dio si rivela sul Monte Sinày e proclama i 10 comandamenti, annuncia le Sue condizione al popolo di Israèl.
L’indomani, il 7 di Sivàn, Moshè sale sulla montagna per prendere tutta la TORÀ scritta e orale; l’intero patto, la Ketubà – il CONTRATTO MATRIMONIALE e rimane lì 40 giorni, fino al 16 di Tamùz. Nel frattempo la “sposa” Israèl rimane sotto il baldacchino nuziale in attesa di completare il matrimonio.
Alla fine di questi giorni, la sposa tradisce lo “SPOSO” con il peccato del vitello d’oro, prima ancora di celebrare il matrimonio. Quando Moshè ritorna, rompe le prime tavole e non consegna la Torà al popolo, poiché è meglio che il matrimonio non venga completato, se la “sposa” ha commesso adulterio. Cosi per difendere Israèl Moshè impedisce la “firma del contratto matrimoniale”. Tuttavia, successivamente, avviene il chiarimento! Si comprende che non è stata la sposa a tradire, bensì il miscuglio di popoli l’erev rav che ha causato il peccato del vitello. Allora viene ordinato di continuare a celebrare il matrimonio.
Per riconciliare i due sposi e convincere il “marito” a concludere il matrimonio ( visto che la sposa non l’ha tradito, ma i suoi amici si ) Moshè risale l’indomani per portare il nuovo contratto (Shemòt 32, 30): “E fu all’indomani… adesso salirò di nuovo per espiare…” questo giorno era il 18 di Tamùz. Dopo un secondo ciclo di 40 giorni Mosè ridiscende (il 28 di Tamùz), senza buone notizie, ma almeno riesce a bloccare l’ira divina, infatti dice al popolo che il “Marito, Hashèm” non si è ancora calmato e persuaso che la sposa è innocente. Quindi dice alla “sposa” che deve supplicare il perdono, anche se non era veramente colpevole, poiché è rimasta inerme di fronte all’umiliazione dello sposo (tranne i leviti, nessuna delle tribù si è opposta al peccato del vitello d’oro).
Dopo la richiesta di perdono Moshè, assieme alle preghiere del popolo, risale per un terzo ciclo di 40 giorni, il 29 di Av. Questa volta, anche grazie alle richieste di perdono del popolo, alla fine di questi 40 giorni, il 9 di Tishrè, arrivano le Seconde Tavole. Il giorno dopo, il 10 di Tishrè, arriva il perdono per il peccato più grave commesso da Israèl in tutta la sua storia.
Dopo il terzo ciclo di 40 giorni Dio dice a Moshè che avendo lui strappato il contratto originale (con la rottura delle prime tavole) di sua iniziativa, ora il nuovo contratto lo deve preparare lui scolpire i blocchi di zaffiro.
Quindi Moshè prepara le seconde tavole che vengono consegnate il giorno di Kippùr, dando così il perdono al popolo. Per questo Hashèm stabilisce che Kippur è il grande GIORNO DEL PERDONO, poiché come Hashèm ha perdonato la prima volta, anche in futuro, Dio perdonerà il suo popolo.

La Festa delle Nozze
Finalmente dopo 123 giorni si completa la cerimonia nuziale e adesso si può finalmente festeggiare queste nozze quasi “infinite” e dato che lo sposo è “gentilmen” e sa che la sposa ha bisogno di tempo per preparativi, gli concede 4 giorni per organizzarsi (da Kippùr a Sukkòt).
Secondo l’Arizal ognuno di questi giorni rappresenta e illumina una lettera del NOME del tetragrammaי-ה-ו-ה),) per cui questi 4 giorni hanno una grandissima luce spirituale.
Così arrivano i festeggiamenti propria sotto la capanna che è “l’ombra di Dio” (Zohàr – libro dello splendore) dove si trova lo sposo. Quando ci troviamo sotto un tetto di cemento rischiamo di illuderci che la protezione arriva dalla materia e non dal Padre Eterno. Perciò la Sukkà deve avere un tetto bucato, per far entrare l’acqua, in caso di pioggia, per ricordarci che la nostra esistenza e protezione è solo da Hashèm, poiché appunto siamo sotto ‘l’ombra di Hashèm’.
Per questo andiamo all’esterno in una UMILE dimora e VIVIAMO li per 7 giorni, poiché la festa di Sukkòt è la festa che ci insegna a trascurare la materia: senza tappeti, senza lussuosi lampadari, ma molto più vicini a Dio.  Più siamo immersi nella materia e più ci stacchiamo dallo spirito!

Quando arriva Sukkòt ci troviamo nei 7 giorni di festeggiamenti SHEVA BRAKHOT, del matrimonio che è iniziato a Shavuòt , ma non si è concluso fino a Kippùr, per questo è il periodo più allegro dell’anno, perché si conclude il processo iniziato a Pèssakh che termina a Sukkòt, con i festeggiamenti del patto con Dio che vengono celebrati sotto la Sua ombra e protezione.
Non a caso Sukkòt è una festa internazionale e preghiamo per tutte le nazioni esistenti al mondo nel loro credo e costumi. Questo perché la felicità rompe tutte la barriere e ci da la forza di portare benedizione a tutto l’universo.
Con l’augurio di caricarci con tantissima gioia di vita per un anno intero e che la gioia che noi tutti avremmo in questo periodo possa avvicinare ancora di più la venuta di Mashìakh, presto ai nostri giorni Amen
Rav Shlomo Bekhor

Ps. Se ci capiterà un matrimonio con tanto di ritardi e disagi, non prendiamocela con gli sposi! Poiché il nostro primo matrimonio è durato ben 123 giorni…

Qualcosa Di Più: Tutto E Tutti Nella Sukkà

Una volta a Berdìtshev, prima di Sukkòt, ci fu una terribile carestia di cedri, etro-ghìm. Non si riusciva a trovarne neppure uno perché Rabbi Levy Yitzkhàk potesse re-citare la benedizione. Sperando che qualcuno di passaggio potesse avere un etròg, gli emissari di Rabbi Levy Yitzkhàk si appostarono sulla strada per chiedere ai viag-giatori se per caso ne avessero uno.
Alla fine, arrivò un ebreo con un etròg. Gli emissari lo supplicarono che passasse Sukkòt a Berdìtshev, ma l’uomo rifiutò. Era in viaggio da parecchi mesi e non vedeva l’ora di trascorrere la festività con la sua famiglia. Per quanto gli uomini di Berdìtshev lo pregassero, il viaggiatore non cambiò idea.
Mentre il gruppo discuteva sulla strada, fu riferito a Rav Levy Yitzkhàk che era stato trovato un etròg. Anche lui cercò di convincere l’uomo a restare, ma non ebbe suc-cesso fino a che non promise quanto segue: «Se rimane a Berdìtshev e mi permette di usare il suo etròg, le prometto che siederà accanto a me nel Mondo a Venire».
Ovviamente, queste furono parole magiche. Il viaggiatore accettò di restare a Ber-dìtshev per Sukkòt; trovò alloggio alla locanda del paese e tutti furono contentissimi. Tuttavia, a sua insaputa, Rabbi Levy Yitzkhàk aveva dato disposizioni che il visitatore non fosse ammesso in nessuna sukkà. Se l’ospite fosse apparso e avesse chiesto di sedersi in sukkà, non bisognava lasciarlo entrare.
La prima notte della festa, dopo essere uscito dal tempio, l’uomo desiderava ovvia-mente fare kidùsh e santificare il giorno di festa. Rientrò alla locanda e stava per en-trare in sukkà quando il proprietario lo fermò bruscamente. Il viaggiatore, furioso, cominciò a urlare e gridare, ma l’oste rimase impassibile e non lo fece entrare. Quando la stessa scena si ripeté in parecchie locande diverse, il viaggiatore comprese che qualcosa non andava; infine, apprese che Rabbi Levy Yitzkhàk aveva pianificato tutto. L’uomo si recò immediatamente dal rabbino per lamentarsi:
«Perché ricambi il bene col male?» – Chiese.
«La farò entrare in sukkà solo se mi scioglierà dalla promessa che le ho fatto» – Ri-spose il rabbino.
L’uomo non sapeva cosa fare. Come poteva perdere l’opportunità di sedere accanto a uno tzaddìk per l’eternità? D’altro canto era Sukkòt e lui aveva bisogno di una suk-kà per fare kidùsh. Dopo profonde riflessioni, scelse di sciogliere il rabbino dalla promessa e festeggiare Sukkòt adeguatamente.
Il giorno seguente, Rabbi Levy invitò l’uomo e parecchi seguaci nella sua sukkà. Fece quindi un annuncio stupefacente: «Ribadisco la mia promessa che lei sarà seduto vi-cino a me nel Mondo a Venire. Volevo solo essere sicuro che lei si guadagnasse con i suoi meriti questo grande privilegio e non lo ricevesse come regalo».

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La Parola “Sukkà”

Le quattro lettere ebraiche che compongono la parola sukkà costituiscono l’acronimo dell’espressione Somèkh Ve’ozèr Kol Hanoflìm – ovvero “(Egli) sostiene e assiste tutti coloro che cadono”. Chi adempie alla mitzvà della sukkà, Dio lo aiuta in tutto ciò che intraprende e lo tiene per mano (Bne Yissakhàr).
Questo ci insegna che dimorare nella semplicità della sukkà, un posto umile dove non abbiamo le solite comodità e il lusso delle nostre case, sembri apparentemente  una situazione di degrado, quasi una caduta. Mentre, in realtà, più uno si abbassa e più viene innalzato dal Creatore, al contrario chi si innalza e si sente superiore, solo perché ha “qualche zero” in più nel suo conto bancario, viene abbassato dal Cielo.
Questo è il significato dell’acronimo di סוכה – Somèkh Ve’ozèr Kol Hanoflìm: Lui so-stiene e innalza tutti coloro che si abbassano andando nella sukkà.
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Una Mitzvà Unica
La mitzvà della sukkà rispetto alle altre ha due caratteristiche particolari. La prima: tutte le mitzvòt in generale riguardano solamente una o più parti del corpo. I tefillìn, per esempio, concernono il braccio e il capo; la kippà solo il capo, la beneficenza-tzedakà la mano e così via.
La sukkà, invece, circonda e avvolge la persona in maniera totale, da capo a piedi, compresi gli indumenti e le scarpe. La mitzvà di risedere nella sukkà richiede che al suo interno si faccia tutto ciò che in genere si fa in casa, nella routine materiale di ogni giorno, come mangiare, bere, dormire ecc. In questo modo, la sukkà ci dona la consapevolezza che possiamo avere la forza e la facoltà di servire Dio non soltanto con la preghiera, lo studio della Torà e la pratica delle mitzvòt, ma anche con le più banali azioni legate al mondo fisico e materiale, purché il gesto sia accompagnato dal desiderio e dallo scopo di servire Dio. Come dice il versetto (Mishlé 3, 6): “Conoscilo in tutte le tue vie”; ossia conosci Dio in qualunque cosa tu faccia, ritrovalo in ogni tuo gesto, in ogni tuo pensiero e dedica a Lui tutte le tue azioni, poiché nulla può in realtà essere distinto da Lui.
La sukkà, che avvolge nella sua santità persino i piedi e le scarpe della persona, ci insegna che tutto ciò che riguarda l’uomo è, e deve essere, pregno di santità; essa inoltre gli conferisce la facoltà e la forza di far sì che ciò si verifichi anche tutto l’anno e non solo durante questa festività.
(Rebbe di Lubàvitch)

IL MATRIMONIO PIÙ GIOIOSO DELL’ANNO
Sukkòt, la Festa delle Capanne

La Ricette per Essere Felici? Non Arrabbiarsi!
Il grande maestro Chafetz Chaim, una delle colonne portanti dell’ebraismo della prima metà del secolo scorso, mentre il Sukkòt si avvicinava, costruì la sukkà nel posto dove veniva allestita regolarmente ogni anno.
Tuttavia sua moglie, a lavoro terminato…, gli disse: “penso che sarebbe stato meglio mettere la sukkà dall’altra parte del cortile”.
Quando il grande tzaddìk sentì queste parole, non disse una nulla, nonostante tutto il tempo impiegato, la grande fatica e l’abitudine di costruire la sukkà per decenni in quel posto. Pertanto, prontamente, smontò la sukkà e la ricostruì nel luogo indicato dalla moglie.
Dopo che la sukkà era nel nuovo posto, sua moglie uscì di nuovo, guardò attentamente, poi si rivolse a suo marito e disse: “in effetti ho sbagliato, il primo posto dove hai SEMPRE messo la sukkà era decisamente migliore”.
E ancora il Chafetz Chaim la smantellò e la mise in piedi nel primo luogo con tantissima “SANTA PAZIENZA”!!!
Da questo aneddoto impariamo quanto è importante la “pace della casa”.
È meglio costruire e distruggere la sukkà più volte che arrabbiarsi, anche una sola volta! Il successo nella vita passa SOLO tramite la moglie che è la sukkà quotidiana che ci accompagna sempre e tramite l’unione della coppia!

Matrimonio e Felicità
La Torà ci comanda a durante questo periodo: “Per sette giorni dimorerete nelle capanne”. Nello spiegare questa mitzvà, i nostri Saggi spiegano che, per la tutta la durata della festa di Sukkòt, queste piccole capanne con tetti di rami e frasche vanno considerate come se fossero le nostre case. Tutto ciò che è utile per la quotidianità dovrebbe essere portato fuori dalla casa e introdotto all’interno di esse, poiché è detto: “Una persona dovrebbe mangiare, bere, rilassarsi… e studiare nella sukkà”.
È scritto nel libro dei Proverbi: “Conoscerlo in tutte le nostre vie”, ovvero che la presenza di Hashèm risiede non solo al tempio o presso un luogo di studio, ma in ogni dimensione e angolo delle nostre vite.
Questo concetto diviene molto chiaro mentre dimoriamo in una sukkà. In tal modo comprendiamo che ogni nostra azione può servire come mezzo per entrare in contatto con nostro padre in cielo e collegarsi alla Sua essenza.
Nessuna altra mitzvà ci avvolge come la sukkà. Cerchiamo di approfittare e dedicare quanto più tempo in sukkà che è fonte di BENEDIZIONE e PROTEZIONE e GRANDE SUCCESSO per tutto l’anno.
Tuttavia la caratteristica principale di Sukkòt è la gioia, ma non una semplice e generica gioia, come molte altre feste. Infatti, questo periodo è considerato quello più gioiosi dell’anno: ZMAN SIMKHATENU, in ebraico PERIODO GIOIOSO. Perché, tra tutte le 3 feste di pellegrinaggio – Shalosh Regalìm, Sukkòt è la più allegra? Pèssakh no, Shavuòt no e questa si? Inoltre cosa centra questa festività con il successo matrimoniale?

UN MATRIMONIO DURATO 123 GIORNI
Per capire questo dobbiamo andare indietro al periodo in cui Hashèm ha fatto uscire il Suo popolo dall’Egitto, per sposarsi con lui attraverso il patto della Torà. L’ordine delle 3 feste di pellegrinaggio, Shalosh Regalìm, partono da Pèssakh che simboleggia la nascita, Shavuòt che rappresenta il matrimonio, poiché prima c’è la nascita e poi ci si sposa. Come in ogni unione ci sono delle regole e così in questo “matrimonio” Dio si impegna a non abbandonare il suo popolo e proteggerlo, mentre Israèl si impegna a rispettare i Suoi comandamenti, le Sue leggi e divulgare così, al mondo intero, che c’è un solo Dio nel mondo e nei cieli. Come è scritto nel Cantico dei Cantici (3, 11): “nel giorno del suo matrimonio” il Talmud Taanìt spiega che questa frase si riferisce al Dono della Torà sul monte Sinày. Proprio nel Nome Israèl troviamo questo concetto: le prime due lettere IS יש formano la parole YESH – C’È; mentre le ultime due formano la parola El אל Dio. Ovvero dal combinato di queste frasi si forma la parola: C’È UN SOLO DIO! Questa frase sintetizza la missione di Israèl nel mondo e il significato profondo della sua esistenza è celato nel suo nome ISRAEL.

Pertanto le tre feste, che iniziano con Pèssakh, sono consequenziali, una sorta di salita e una progressione spirituale. Tuttavia rimane da spiegare che significato ha Sukkòt, l’ultima delle tre?
Per capire dobbiamo analizzare meglio il concetto del “matrimonio, patto d’unione” con Hashèm: Il 6 di Sivàn Dio si rivela sul Monte Sinày e proclama i 10 comandamenti, annuncia le Sue condizione al popolo di Israèl.
L’indomani, il 7 di Sivàn, Moshè sale sulla montagna per prendere tutta la TORÀ scritta e orale; l’intero patto, la Ketubà – il CONTRATTO MATRIMONIALE e rimane lì 40 giorni, fino al 16 di Tamùz. Nel frattempo la “sposa” Israèl rimane sotto il baldacchino nuziale in attesa di completare il matrimonio.
Alla fine di questi giorni, la sposa tradisce lo “SPOSO” con il peccato del vitello d’oro, prima ancora di celebrare il matrimonio. Quando Moshè ritorna, rompe le prime tavole e non consegna la Torà al popolo, poiché è meglio che il matrimonio non venga completato, se la “sposa” ha commesso adulterio. Cosi per difendere Israèl Moshè impedisce la “firma del contratto matrimoniale”. Tuttavia, successivamente, avviene il chiarimento! Si comprende che non è stata la sposa a tradire, bensì il miscuglio di popoli l’erev rav che ha causato il peccato del vitello. Allora viene ordinato di continuare a celebrare il matrimonio.
Per riconciliare i due sposi e convincere il “marito” a concludere il matrimonio, visto che la sposa non l’ha tradito, ma i suoi amici si, Moshè risale l’indomani per portare il nuovo contratto (Shemòt 32, 30): “E fu all’indomani… adesso salirò di nuovo per espiare…” questo giorno era il 18 di Tamùz. Dopo un secondo ciclo di 40 giorni Mosè ridiscende (il 28 di Tamùz), senza buone notizie, ma almeno riesce a bloccare l’ira divina, infatti dice al popolo che il “Marito, Hashèm” non si è ancora calmato e persuaso che la sposa è innocente. Quindi dice alla “sposa” che deve supplicare il perdono, anche se non era veramente colpevole, poiché è rimasta inerme di fronte all’umiliazione dello sposo (tranne i leviti, nessuna delle tribù si è opposta al peccato del vitello d’oro).
Dopo la richiesta di perdono Moshè, assieme alle preghiere del popolo, risale per un terzo ciclo di 40 giorni, il 29 di Av. Questa volta, anche grazie alle richieste di perdono del popolo, alla fine di questi 40 giorni, il 9 di Tishrè, arrivano le Seconde Tavole. Il giorno dopo, il 10 di Tishrè, arriva il perdono per il peccato più grave commesso da Israèl in tutta la sua storia.
Dopo il terzo ciclo di 40 giorni Dio dice a Moshè che avendo lui strappato il contratto originale (con la rottura delle prime tavole) di sua iniziativa, ora il nuovo contratto lo deve preparare lui scolpire i blocchi di zaffiro.
Quindi Moshè prepara le seconde tavole che vengono consegnate il giorno di Kippùr, dando così il perdono al popolo. Per questo Hashèm stabilisce che Kippur è il grande GIORNO DEL PERDONO, poiché come Hashèm ha perdonato la prima volta, anche in futuro, Dio perdonerà il suo popolo.

La Festa delle Nozze
Finalmente dopo 123 giorni si completa la cerimonia nuziale e adesso si può finalmente festeggiare queste nozze quasi “infinite” e dato che lo sposo è “gentilmen” e sa che la sposa ha bisogno di tempo per preparativi, gli concede 4 giorni per organizzarsi (da Kippùr a Sukkòt).
Secondo l’Arizal ognuno di questi giorni rappresenta e illumina una lettera del NOME del tetragrammaי-ה-ו-ה),) per cui questi 4 giorni hanno una grandissima luce spirituale.
Così arrivano i festeggiamenti propria sotto la capanna che è “l’ombra di Dio” (Zohàr – libro dello splendore) dove si trova lo sposo. Quando ci troviamo sotto un tetto di cemento rischiamo di illuderci che la protezione arriva dalla materia e non dal Padre Eterno. Perciò la Sukkà deve avere un tetto bucato, per far entrare l’acqua, in caso di pioggia, per ricordarci che la nostra esistenza e protezione è solo da Hashèm, poiché appunto siamo sotto ‘l’ombra di Hashèm’.
Per questo andiamo all’esterno in una UMILE dimora e VIVIAMO li per 7 giorni, poiché la festa di Sukkòt è la festa che ci insegna a trascurare la materia: senza tappeti, senza lussuosi lampadari, ma molto più vicini a Dio. Più siamo immersi nella materia e più ci stacchiamo dallo spirito!

Quando arriva Sukkòt ci troviamo nei 7 giorni di festeggiamenti SHEVA BRAKHOT, del matrimonio che è iniziato a Shavuòt ma non si è concluso fino a Kippùr, per questo è il periodo più allegro dell’anno, perché si conclude il processo iniziato a Pèssakh che si conclude a Sukkòt, con i festeggiamenti del patto con Dio che vengono celebrati sotto la Sua ombra e protezione.
Non a caso Sukkòt è una festa internazionale e preghiamo per tutte le nazioni esistenti al mondo nel loro credo e costumi. Questo perché la felicità rompe tutte la barriere e ci da la forza di portare benedizione a tutto l’universo.
Con l’augurio di caricarci con tantissima gioia di vita per un anno intero e che la gioia che noi tutti avremmo in questo periodo possa avvicinare ancora di più la venuta di Mashìakh, presto ai nostri giorni Amen
Rav Shlomo Bekhor

Ps. Se ci capiterà un matrimonio con tanto di ritardi e disagi, non prendiamocela con gli sposi! Poiché il nostro primo matrimonio è durato ben 123 giorni…

L’insegnamento dell’umiltà è una medicina molto importante che è vitale per una vita equilibrata e sana.

Khag Sameakh

Rav Shlomo Bekhor

L’uomo di natura si sente importante perché tocca a lui di portare il sostentamento e la “pagnotta” a casa. Questo successo che ha l’uomo può rischiare di darli la sensazione sbagliata di essere “Dio sulla terra”. Questo è una malattia molto dannosa, visto che i più grandi disastri dell’umanità vengono da un eccesso di ego.
È ampiamente documentato che i più grandi uomini d’affari sono caduti solo a causa della sensazione di sicurezza eccessiva nelle loro decisioni imprenditoriali senza un’accurata attenzione dei rischi.
Per questo Hashem ha donato all’uomo la donna: la migliore medicina per curare il grande pericolo dell’ego. La moglie che ha una natura opposta porta un equilibrio al sentimento di onnipotenza dell’uomo. Per questo Dio in Genesi dice ad Adamo che gli darà un AIUTO CONTRO DI LUI.
Andando contro il marito, l’uomo raggiunge il TIKKUN e il bilanciamento del suo orgoglio naturale. Se la moglie chiede di buttare la spazzatura alle 22.00 dopo una stressante giornata di lavoro e aver chiuso contratti milionari, non bisogna vedere questo come un’offesa alla grande fatica compiuta bensì come una medicina FONDAMENTALE per curare il potenziale ego che potrebbe formarsi per via del successo ottenuto (proprio come la sukkà).
Bisogna concepire il dono della moglie che viene contro l’uomo come un aiuto. Solo allora la vita coniugale non è più una lotta di chi vince, ma si trasforma in una sukkà: un luogo e un’occasione di rettificazione. Come dice il Maimonide che l’unico sentimento che l’uomo ha in eccesso è l’orgoglio; per quanto lo si abbassi non è mai abbastanza.
Sukkot è incompatibile con la rabbia che viene solo dall’ego. È scritto: La cosa principale è non arrabbiarsi…
Non a caso troviamo tante storie della festa di Sukkòt inerenti all’equilibrio della coppia e al contenimento dell’ego. La seguente storia può insegnarci tanto nel matrimonio e fino a che punto non bisogna arrabbiarsi:
Il Chafetz Chaim, una delle colonne portanti dell’ebraismo della prima metà del secolo scorso, quando era vecchio sposò la sua seconda moglie.
Mentre il Sukkot si avvicinava, il grande maestro costruì la sukkà nel posto dove veniva allestita regolarmente ogni anno.
Quando sua moglie vide questo, gli disse: “penso che sarebbe stato meglio mettere la sukkà dall’altra parte del cortile”.
Quando il grande zaddìk sentì questo, non disse una parola nonostante il suo lavoro e il suo tempo preziosissimo e l’abitudine di costruire la sukkà per decenni in quel posto, immediatamente smontò la sukkà e la ricostruì nel luogo indicato dalla moglie.
Dopo che la sukkà era nel nuovo posto, sua moglie uscì di nuovo, guardò attentamente, poi si rivolse a suo marito e disse: “in effetti ho sbagliato, il primo posto dove hai SEMPRE messo la sukkà era decisamente migliore”.
E ancora il Chafetz Chaim la smantellò e la mise in piedi nel primo luogo!!! SANTA PAZIENZA!!!
Per mostrarci quanto è importante la “pace della casa”.
È meglio costruire e distruggere la sukkà più volte che arrabbiarsi, anche una sola volta!
Il successo nella vita passa SOLO tramite la moglie che è la sukkà quotidiana che ci accompagna sempre e tramite l’unione della coppia!
Per il post completo:

Un caloroso Shabbat Shalom e Hag Sameakh
Rav Shlomo Bekhor

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SUKKOT
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LA FESTA PIU’ RICCA DELL’ANNO

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DUE GRUPPI SIMILI MA OPPOSTI: SHEMINI AZERET e SHAVUOT
In questo speciale momento in cui stiamo per concludere le feste vorrei condividere un bel pensiero che spiega il collegamento di tutte le feste e il parallelismo tra loro.
Le feste di Shalosh Regalim (in cui vi era l’obbligo di passarle a Yerushalàyim) sono divise in due gruppi Pèssach-Shavuot e Sukkòt-Sheminì Atzèret.
Entrambi i gruppi hanno prima una rivelazione e poi una seconda festa per acquisire questa rivelazione.
Il primo gruppo capita nel mese di Nissan, ovvero il periodo delle rivelazioni miracolose dall’alto (dove non occorre una grande fatica da parte nostra).
Il secondo gruppo capita nel mese di Tishré, che rappresenta la rivelazione naturale del divino, in maniera proporzionata al nostro lavoro di elevazione.
Perciò, mentre tra le feste di Pèssakh e Shavuot trascorrono ben 7 settimane; l’intervallo di tempo tra Sukkòt e Sheminì Azeret è di soli 7 giorni.
PERCHÉ NON FESTEGGIAMO LA TORÀ A SHAVUOT?
Simchàt Torà segue immediatamente la festa di Sukkòt. Il nome biblico di Simchàt Torà è Sheminì Atzèret, che significa “Ottavo Giorno di Fermata”, poiché la sua funzione è quella di mantenere e assorbire le acquisizioni dei sette giorni di Sukkòt. Infatti “atzor”, da Sheminì Atzeret, vuole anche dire “assorbire e integrare”.
Ma perché celebrare Simchàt Torà, la festa dove si termina di leggere tutta Torà (il nostro manuale di vita), il giorno di Sheminì Atzèret e non il 6 di Sivan, giorno in cui Hashèm ci diede la Torà?
Nella festa di Shavuòt noi risperimentiamo la rivelazione sul Sinai e ricordiamo il patto con Hashèm. Nonostante ciò riserviamo la “gioia” di aver ricevuto la Torà per il giorno di Sheminì Atzèret. Una data che apparentemente non ha una connessione storica con il rapporto dell’ebreo con la Torà.
Per capire meglio, occorre approfondire le somiglianze tra Sheminì Atzèret e Shavuòt: anche Shavuòt è chiamata Atzèret, poiché serve da veicolo di mantenimento e assorbimento della festa che la precede; inoltre Shavuòt è come l’ottavo giorno di “mantenimento” (festa che inizia nell’ottava settimana, dopo il ciclo di sette settimane del conteggio dell’Omer cominciato a Pèssakh), così Sheminì Atzèret segue i sette giorni di Sukkòt.
I due “Atzèret” quindi si oppongono l’un l’altro nel ciclo annuale. L’anno ebraico è come un cerchio con due poli opposti, due mesi “chiave”, Nissàn e Tishré considerati entrambi il primo mese (Nissàn) e il capo dell’anno (Tishré). Il 15 Nissàn è la data dell’Esodo e l’inizio dei sette giorni di Pèssakh. Sei mesi dopo, esattamente il 15 Tishré, inizia un’altra festa di sette giorni: Sukkòt. Entrambe si concludono con un Atzèret.
Perciò il saggio del Talmud Rabbi Yehoshua ben Levi commentava: l’Atzèret della festa di Sukkòt avrebbe dovuto essere di cinquanta giorni dopo (sette settimane), come l’Atzèret di Pèssakh. Perché allora Sheminì Atzèret è solo dopo sette giorni di Sukkòt? Per spiegarlo Rabbi Yehoshua racconta la seguente parabola:
Un re aveva diverse figlie. Alcune di loro erano sposate in luoghi vicini e le altre in luoghi più lontani. Un giorno vennero tutte a trovare il re, loro padre. Egli disse: coloro che si sono sposate vicino a me hanno il tempo di andare e tornare; ma coloro che si sono sposate lontano non hanno il tempo di andare e tornare. Poiché ora si trovano tutte qui, farò una festa in loro onore e mi rallegrerò con esse. Perciò Atzèret di Pèssakh, nel periodo estivo che è facile viaggiare Hashèm dice: “Essi hanno il tempo di andare e tornare senza difficoltà”. Ma Atzèret di Sukkòt, poiché iniziano le piogge, la polvere delle strade è fastidiosa e le strade secondarie sono difficili… Dio dice: “Non hanno il tempo di andare e tornare; poiché ora si trovano tutti qui, farò subito una festa e mi rallegrerò con essi…”.
Questo si può interpretare metaforicamente: Pèssakh è la festa dello tzaddìk / giusto che allude anche allo tzaddìk dentro di noi. A Pèssakh gustiamo la pura libertà di un nuovo popolo. Perciò Atzèret di Pèssakh arriva 50 giorni dopo. Poiché è primavera; le strade sono fresche e abbiamo tempo di andare e venire. Siamo liberi di percorrere metodicamente i 49 gradi dalla rivelazione di Pèssakh all’interiorizzazione di Shavuòt. È un tragitto graduale che caratterizza la via che seguono i tzaddìkìm – giusti.
Ma solo a Sukkòt celebriamo la nostra capacità di fare teshuvà: il nostro legame con Hashèm rappresentato dalle seconde Tavole della Legge. Alla riunione delle figlie del re che sono sposate, lontano dal padre, esse non hanno tempo di andare e tornare, poiché si passa dall’estate all’inverno e il percorso delle strade è pericoloso e difficile! Siamo come viaggiatori per la via della teshuvà e del ritorno sulla strada giusta, per cui le opportunità devono essere prese al volo e le vite possono cambiare da un momento all’altro in modo esplosivo. Così diventa rischioso aspettare il ciclo completo delle 7 settimane e ci accontentiamo dei 7 giorni.
Perciò passiamo subito da Sukkòt a Simchàt Torà – per interiorizzare immediatamente la seconda edizione delle Tavole della Torà e il suo “mantenimento”, ci accontentiamo di un micro ciclo completo di una settimana, invece che di un macro ciclo completo di sette settimane.
GIOIAMO SOLO QUANDO ABBIAMO ASSORBITO LA TORA’ CON UN PERCORSO CHE INIZIA CON LA NOSTRA FATICA E PENTIMENTO / TESHUVA perché QUESTO PROCESSO è TOTALMENTE NOSTRO.
A differenza di Pèssakh che il processo inizia con la rivelazione miracolosa e non grazie al nostro sforzo.
Questa sera iniziamo a celebrare Simchàt Torà ballando con un rotolo di Torà “chiuso” e avvolto.
Si inizia domenica sera e si continua con maggiore vigore ed entusiasmo per 48 ore.
In realtà potremmo invece aprire la Torà, leggerla e studiarla. Ma celebrando questo giorno nella nostra maniera, ricordiamo che la Torà è proprietà ed eredità di ognuno di noi, indipendentemente dalla nostra abilità nel studiarla e nel capirla e che siamo tutti uguali nella nostra essenza.
In questo modo infatti non mostriamo le differenze che ci distinguono nella conoscenza della Torà.
Tenendo il rotolo “chiuso” e celebrando la sua più profonda essenza, diventiamo TUTT’UNO con la Torà e Hashèm.
Rallegrandoci tenendo i sacri rotoli tra le braccia e riempendo il tempio di canti e balli, anche la Torà stessa balla con noi. Anche la Torà vorrebbe ballare, ma mancando di un corpo fisico ha bisogno dell’ebreo che diventa “il corpo” danzante della Torà.
Ricordiamoci quanto ci vuole bene il nostro padre in cielo e ci da la possibilità di assorbire profondamente la trasformazione della Teshuvà che abbiamo sviluppato questo mese così potremo mantenere tutto l’anno i cambiamenti e migliorie della nostra vita.
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ULTIMA PARASHA’ MA NON DI SHABBAT
L’unica parashà che non viene letta di Shabbàt è Vezot Haberachà. Questa porzione di Torà viene letta di Simchàt Torà, giorno nel quale concludiamo la lettura della Torà.
I Saggi stabiliscono: “Tutto dipende dalla conclusione”, Vezot Haberachà – “E questa è la benedizione” – è la conclusione della Torà. Poiché l’intenzione della Torà è quella di portare benedizioni al popolo come collettività e a ogni singolo individuo. A Simchàt Torà, il legame essenziale tra Dio e il popolo ebraico viene rivelato. Perciò leggiamo una porzione di Torà che mette a fuoco le benedizioni date a tutto il popolo e la lode delle loro qualità uniche.
I commentatori spiegano che la parola “zot”, “questa è”, si riferisce a qualcosa di evidente e apparente, qualcosa che si può indicare con un dito dicendo: “eccola”. Allo stesso modo la frase “E questa è la benedizione” implica che le benedizioni che la Torà trasmette al popolo saranno apertamente evidenti nell’anno a venire.
Il giorno di Simchàt Torà non concludiamo semplicemente un ciclo di lettura della Torà, ma ne cominciamo uno nuovo.
L’ultima lettera della Torà è una “lamed” e la prima è una “bet”, che insieme formano la parola “lev”, “cuore”.
Nel cuore della Torà c’è il popolo ebraico ed esso è il cuore stesso della Torà. Lo Zohar afferma: “Israèl, la Torà e il Santo Benedetto sono Uno”. La nostra osservanza della Torà ci lega a Dio e ci permette di liberare la scintilla di Divinità che possediamo nei nostri cuori. Così la Torà funge da strumento di benedizione, poiché permette all’ebreo di attirare la Misericordia Divina in questo mondo materiale.

Sukkòt 1° giorno: PARASHÀ
1° Sefer Lev 22, 26 – 23, 44
2° Sefer Num 29, 12:16
HAFTARÀ
Zacc. 14, 1;21

Sukkòt 2° giorno: PARASHÀ
1° Sefer Lev 22, 26 – 23, 44
2° Sefer Num 29, 12:16
HAFTARÀ
Italiani: I Re 7, 51-8, 16 Sefarditi/Ashkenaziti: I Re 8, 2-21

B”H
Rav Pinchas di Koritz era amato da tutti gli abitanti della sua città. Le persone ricercavano i suoi saggi consigli su un’infinità di questioni, lo coinvolgevano nelle loro faccende familiari e guardavano a lui come guida nel loro servizio divino. Come risultato, l’agenda di Rav Pinchas era sovraccarica. Egli non aveva più tempo per studiare e pregare come desiderava.
Rivolgendosi ad Hashèm in preghiera, egli chiese: “Fai che le persone mi odino. Fai che esse rifuggano la mia compagnia così che io abbia il tempo per pregare e studiare”. La preghiera di Rav Pinchas venne accolta e la gente cominciò ad evitarlo. Non gli parlavano né gli facevano delle cortesie. Rav Pinchas, tuttavia, era felice. Aveva la possibilità di concentrarsi sul suo servizio divino senza distrazione.
Poi venne Sukkòt. Rav Pinchas voleva invitare degli ospiti, ma nessuno desiderava andare a casa sua. Egli ne era dispiaciuto, dal momento che in occasione delle festività e IN PARTICOLARE PER LA FESTA DI SUKKÒT avere ospiti che onorano la propria tavola è una mitzvà IMPRESCINDIBILE. In ultima analisi, tuttavia, egli accettò il fatto. Era meglio trovarsi senza ospiti per la festa piuttosto che essere disturbato l’intero anno. Tuttavia ben presto Rav Pinchas dovette ricredersi. A Sukkòt, infatti i nostri Patriarchi Avrahàm, Itzkhàk e Yaakòv, insieme a Moshè, Aaròn, Yossèf e Re Davìd, si recano a far visita presso le sukkòt (capanne) di Israèl. Quando Rav Pinchas stava per entrare nella Sukkà, vide Avrahàm il patriarca che lo attendeva fuori. “Benvenuto nella mia Sukkà”, gli disse Rav Pinchas: “Sono spiacente, ma non ho intenzione di entrare”, replicò Avrahàm Avìnu. “Perché?” “Beh, se nessuno dei miei discendenti si sente a casa qui come ospite, non penso che entrerò nemmeno io”. Ciò fu sufficiente per Rav Pinchas. Egli pregò affinché le sue buone qualità venissero ripristinate per ritrovare il favore agli occhi della gente.
(continua sotto)

Ti riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it di lezioni su Sukkot.

Un caloroso Shabbat Shalom  e Hag Sameah
Rav Shlomo Bekhor

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Riflessione Sukkot SPAZIALE
https://www.facebook.com/shlomo.bekhor/posts/10160998984335475:1
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QUANDO LE NAZIONI UNITE UNISCONO UNA NAZIONE!

Qual è il significato dell’unione delle quattro piante del Lulav. Perché è fondamentale scuotere il lulav?

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MASSIMO della BELLEZZA la SEMPLICITÀ
(continua sopra)
La mitzvà del lulàv (palmo) e dell’etròg (cedro) ci richiede di prendere dei rami o dei frutti di quattro differenti specie di alberi (aggiungendo il mirto e il salice) e metterli insieme nel compimento della mitzvà. I Saggi spiegano che ognuna delle specie usate per questa mitzvà si riferisce a un genere differente di persona, da quella più spiritualmente sviluppata a quella meno raffinata.
La lezione che ne deriva è molto chiara: la mitzvà non può essere compiuta solo con l’etròg, la più elevata delle specie. Il salice – che in analogia alle persone si riferisce ai più bassi livelli – è altrettanto necessario. Allo stesso modo, nessuno può realizzarsi a livello del proprio potenziale individuale senza protendersi verso gli altri e unirsi a loro.
Solo quando si uniscono assieme tutte le categorie, come ci insegnano il lulàv e l’etròg, ci assicuriamo delle benedizioni positive per l’anno a venire.
—–
Quindi adesso che siamo alla vigilia della festa di Sukkòt, approfittiamo della gioia di questa ricorrenza come la Torà ci comanda: “Per sette giorni dimorerete nelle capanne”. Nello spiegare questa mitzvà, i nostri Saggi affermano che, per la tutta la durata della festa di Sukkòt, queste piccole capanne con tetti di rami e frasche vanno considerate come se fossero le nostre case. Tutto ciò che è utile per la quotidianità dovrebbe essere portato fuori dalla casa e introdotto all’interno di esse, poiché è detto: “Una persona dovrebbe mangiare, bere, rilassarsi… e studiare nella sukkà”.
È scritto nel libro dei Proverbi di “Conoscere Dio in tutte le nostre vie”, ovvero che la presenza di Hashèm risiede non solo al tempio o presso un luogo di studio, ma in ogni dimensione e angolo delle nostre vite.
Questo concetto diviene molto chiaro mentre dimoriamo in una sukkà. In tal modo comprendiamo che ogni nostra azione può servire come mezzo per entrare in contatto con nostro padre in cielo e collegarsi alla Sua essenza anche nel mangiare e dormire.
Nessuna altra mitzvà ci avvolge come la sukkà. Cerchiamo di approfittare e dedicare quanto più tempo in sukkà che è fonte di BENEDIZIONE e PROTEZIONE e GRANDE SUCCESSO per tutto l’anno.
Tuttavia, per far scendere le benedizioni su di noi dobbiamo collegarci con la “semplice” gioia di consumare un pasto sotto la sukkà con canti, sentire una gioia indescrivibile, quasi come se fossimo in una sorta di PARADISO TERRESTERE.
Tutto l’anno ragioniamo con parametri di misura innati, ma sbagliati, che vogliono farci credere che FELICITÀ vuole dire ABBONDANZA MATERIALE. Più elegante e lussuosa è la casa, più ci sentiremo al settimo celo. Più alta è la cilindrata della Ferrari e più ci sentiremo sicuri.
Poi arriva Sukkòt e ci rovina queste “certezze”: entriamo in una semplice capanna per di più con un tetto bucato, dove la pioggia ci bagnerebbe e ci sentiamo sotto l’ombra e la protezione di Hashèm o meglio “ci sentiamo da Dio”. Una sensazione di gioia interiore che è superiore anche al più elegante Yacht al mondo.
La materia è falsa è illusoria. Oggi c’è ma domani chi lo sa. Quando tutta la nostra vita orbita SOLO in funzione del raggiungimento della materia, non possiamo avere quella beatitudine che solo la semplicità della sukkà ci dona.
Per molte persone queste parole possono sembrare esagerate, ma chi non prova non può capire. E chi prova una sola volta, magari con scetticismo o senza staccarsi dal resto del mondo, rischia di trovarsi nella sukkà SOLO fisicamente, senza entrare realmente in questo paradiso terrestre.
Perché può accadere questo? Perché l’amore per la materia rischia di essere così forte da non permettere di staccarci da essa.
Questo è uno dei messaggi di questa bellissima festa la più allegra dell’anno: resettare il nostro epicentro verso valori assoluti e spirituali.
Non a caso questa festa è onorata dalla presenza di tanti ospiti fino al punto che in ogni sukkà vengono a trovarci delle persone illustri: i patriarchi, Moshè e Aharòn fino a Yossef e David in PERSONA, più gli ospiti Chassidici Ba’àl Shem Tov, Admur Hazakèn…
Questo perché la vera contentezza si raggiunge quando c’è un gruppo unito e nessuno si sente superiore. Nessuno si sente ospite, quando si è consci che solo Dio è il VERO padrone. Questa maturità la si acquisisce solo tramite la semplicità della sukkà.
Per questo dice il Talmud che tramite la sukkà si è degni di avere protezione e benedizione tutto l’anno. Solo quando si comprende che Lui è l’unico sostegno si è degni di essere accompagnati dal Creatore tutto l’anno.
L’ombra della sukkà viene chiamata l’ombra di Dio e nutre la nostra fede. Anche la matzà di Pèssakh nutre la nostra fede, solo che sei mesi fa la crescita è più a livello spirituale ed è l’inizio del percorso di evoluzione della nostra fede, mentre a sukkòt la nostra fede è alimentata dalla comprensione che l’unica protezione è il Padre Eterno. Poiché usciamo dalle nostre protezioni illusorie: il tetto di cemento, il lussuoso lampadario… e confidiamo solo in lui mangiando e vivendo per una settimana sotto la sua protezione.
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LE QUATTRO PIANTE
La mitzvà del lulàv (palmo) e dell’etròg (cedro) ci richiede di prendere dei rami o dei frutti di quattro differenti specie di alberi (aggiungendo il mirto e il salice) e metterli insieme nel compimento della mitzvà. I Saggi spiegano che ognuna delle specie usate per questa mitzvà si riferisce ad un genere differente di persona, da quella più spiritualmente sviluppata a quella meno raffinata.
La lezione che ne deriva è molto chiara: la mitzvà non può essere compiuta solo con l’etròg, la più elevata delle specie. Il salice – che in analogia alle persone si riferisce ai più bassi livelli – è altrettanto necessario. Allo stesso modo, nessuno può realizzarsi a livello del proprio potenziale individuale senza protendersi verso gli altri e unirsi a loro.
I nostri Saggi spiegano che il lulàv e l’etròg sono simboli di vittoria, che simboleggiano la nostra difesa nel giudizio di Rosh HaShanà e Yom Kippùr. Quando ci stringiamo in unità, come insegnano il lulàv e l’etròg, ci assicuriamo delle benedizioni positive per l’anno a venire.
Sukkòt infine segna anche il termine del processo di teshuvà che è cominciato con il versamento di lacrime di tristezza durante Rosh HaShanà e Yom Kippùr, per culminare a Sukkòt con le lacrime di riconoscenza verso Ha-Shèm che ha perdonato i nostri peccati.
fra poco iniziamo la seconda fase delle festività di questo nuovo anno ebraico (5779), la festa delle capanne, Sukkòt, il periodo più gioioso dell’anno, come viene nominato: ZMAN SIMKHATENU.
Come mai tra tutte le 3 feste di pellegrinaggio – Shalosh Regalìm, Sukkòt è la più allegra? Pèssakh no, Shavuòt no e questa si??
Per capire questo dobbiamo andare indietro al periodo in cui Hashem ha fatto uscire il Suo popolo dall’Egitto, per sposarsi con lui e fare il patto. L’ordine delle 3 feste di pellegrinaggio, Shalosh Regalìm partono da Pessàk, che simboleggia la nascita, Shavuòt che rappresenta il matrimonio, infatti prima c’è la nascita e poi ci si sposa. Come in ogni unione ci sono delle regole e così in questo “matrimonio” Dio si impegna a non abbandonare il suo popolo e proteggerlo, mentre Israèl si impegna a rispettare i Suoi comandamenti, le Sue leggi e divulgare così, al mondo intero, che c’è un solo Dio nel mondo e nei cieli. Come è scritto nel Cantico dei Cantici (3, 11): “nel giorno del suo matrimonio” il Talmud Taanìt spiega che questa frase si riferisce a Matàn Torà sul monte Sinài.
Proprio nel Nome Israèl troviamo questo concetto, poiché le prime due lettere IS יש  formano la parole YESH – C’È, mentre le ultime due formano la parola El אל, Dio: qui di C’È UN SOLO DIO! Ecco la missione di Israèl nel mondo, il significato profondo della sua esistenza è celato nel suo nome ISRAEL.
Perciò le tre feste, che iniziano con Pèssakh, sono consequenziali, una sorta di salita progressione spirituale. Sukkòt che è l’ultima delle tre, cosa rappresenta e che funzione ha?
(continua sotto)

Ti riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.

Un caloroso Hag Sameah e Shabbat Shalom.
Rav Shlomo Bekhor

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SUKKOT
Al seguente link troverai la lezione della festa di questa settimana in formato mp3:
http://www.virtualyeshiva.it/2011/10/12/sukkot-5772-quando-le-nazioni-unite-uniscono-una-nazione/Al seguente link potrai scaricare la lezione della festa di questa settimana sul tuo mobile:
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QUANDO LE NAZIONI UNITE UNISCONO UNA NAZIONE!

Qual è il significato dell’unione delle quattro piante del Lulav. Perché è fondamentale scuotere il lulav?

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La lezione approfondisce questi punti, attingendo da fonti midrashiche, testi di mistica ebraica e khassidici, in una cornice unica, chiara e comprensibile per tutti, alla luce degli insegnamenti dei grandi Maestri dell’ebraismo.

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UN MATRIMONIO DURATO 123 GIORNI
(continua sopra)
Per capire dobbiamo analizzare meglio il concetto del “matrimonio, patto d’unione” con Hashèm: Il 6 di Sivàn Dio si rivela sul Monte Sinai e proclama i 10 comandamenti, annuncia le Sue condizione al popolo di Israèl.
L’indomani il 7 di Sivàn Moshè sale sulla montagna per prendere tutta la TORÀ scritta e orale; l’intero patto, la Ketubà – il CONTRATTO MATRIMONIALE e rimane lì 40 giorni, fino al 16 di Tammùz. Nel frattempo la “sposa” Israèl rimane sotto il baldacchino nuziale in attesa di completare il matrimonio.
Alla fine di questi giorni, la sposa tradisce lo “SPOSO” con il peccato del vitello d’oro, prima ancora di completare il matrimonio. Quando Moshè ritorna, rompe le prime tavole e non da la Torà, poiché è meglio che il matrimonio non venga completato, se la “sposa” ha commesso adulterio. Cosi per difendere Israèl Moshè impedisce la “firma del contratto matrimoniale”. Tuttavia, successivamente, avviene il chiarimento! Si comprende che non è stata la sposa a tradire, bensì il miscuglio di popoli l’erev rav che ha causato il peccato del vitello. Allora viene ordinato di continuare a celebrare il matrimonio.
Per riconciliare i due sposi e convincere il “marito” a concludere il matrimonio, visto che la sposa non l’ha tradito, ma i suoi amici si, Moshè risale l’indomani per portare il nuovo contratto (Shemòt 32, 30) “e fu all’indomani… adesso salirò di nuovo per espiare…” questo giorno era il 18 di Tammz. Dopo un secondo ciclo di 40 giorni Mosè ridiscende (il 28 di Tammùz), senza buone notizie, ma almeno riesce a bloccare l’ira divina, infatti dice al popolo che il “marito” non si è ancora calmato e persuaso che la sposa è innocente.
Quindi dice alla “sposa” che deve supplicare il perdono, anche se non era veramente colpevole, poiché è rimasta inerme di fronte all’umiliazione dello sposo. Quindi Moshè, assieme alle preghiere del popolo, risale per un terzo ciclo di 40 giorni, il 29 di Av. Questa volta, anche grazie alle richieste di perdono del popolo, alla fine di questi 40 giorni, il 9 di Tishrè, arrivano le Seconde Tavole. Il giorno dopo il 10 di Tishrè arriva il perdono per il peccato più grave commesso da Israèl in tutta la sua storia.
Dopo il terzo ciclo di 40 giorni Dio dice a Moshè che avendo lui strappato il contratto originale (con la rottura delle prime tavole) di sua iniziativa, ora il nuovo contratto lo deve preparare lui (scolpire i blocchi di zaffiro), ma che saranno incise da Dio.
Quindi Moshè prepara le seconde tavole che vengono consegnate il giorno di Kippùr, dando così il perdono al popolo. Per questo Hashèm stabilisce che Kippur è il grande GIORNO DEL PERDONO, poiché come Hashèm ha perdonato la prima volta, anche in futuro, Dio perdonerà il suo popolo.
Finalmente dopo 123 giorni si completa la cerimonia nuziale e adesso si può finalmente festeggiare queste nozze quasi “infinite” e dato che lo sposo è “gentilmen” e sa che la sposa ha bisogno di tempo per preparativi, gli concede 4 giorni per organizzarsi (da Kippùr a Sukkòt).
Secondo l’Arizal ognuno di questi giorni rappresenta e illumina una lettera del NOME del tetragramma (י-ה-ו-ה), per cui questi 4 giorni hanno una grandissima luce spirituale.
Così arrivano i festeggiamenti propria sotto la capanna che è “l’ombra di Dio” (Zohàr – libro dello splendore) dove si trova lo sposo. Quando ci troviamo sotto un tetto di cemento rischiamo di illuderci che la protezione arriva dalla materia e non dal Padre Eterno. Perciò la Sukkà deve avere un tetto bucato, per far entrare l’acqua, in caso di pioggia, per ricordarci che la nostra esistenza e protezione è solo da Hashèm, poiché appunto siamo sotto ‘l’ombra di Hashèm’.
Per questo andiamo all’esterno in una UMILE dimora e VIVIAMO li per 7 giorni, poiché la festa di Sukkòt è la festa che ci insegna a trascurare la materia: senza tappeti, senza lussuosi lampadari, ma molto più vicini a Dio.
Più siamo immersi nella materia e più ci stacchiamo dallo spirito!
Quando arriva Sukkòt ci troviamo nei 7 giorni di festeggiamenti SHEVA BRAKHOT, del matrimonio che è iniziato a Shavuòt ma non si è concluso fino a Kippùr, per questo è il periodo più allegro dell’anno, perché si conclude il processo iniziato a Pèssakh che si conclude a Sukkòt, con i festeggiamenti del patto con Dio che vengono celebrati sotto la Sua ombra e protezione.
Non a caso Sukkòt è una festa internazionale e preghiamo per tutte le nazioni esistenti al mondo nel loro credo e costumi, 70 tori ovvero un sacrificio di protezione per tutte le nazioni del mondo. Questo perché la felicità rompe tutte la barriere e ci da la forza di portare benedizione a tutto l’universo.
Con l’augurio di caricarci con tantissima gioia di vita per un anno intero.
Rav Shlomo Bekhor
Ps.
Se ci capiterà un matrimonio con tanto di ritardi e disagi, non prendiamocela con gli gli sposi! Poiché il nostro primo matrimonio è durato 123 giorni…
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LE QUATTRO PIANTE
La mitzvà del lulàv (palmo) e dell’etròg (cedro) ci richiede di prendere dei rami o dei frutti di quattro differenti specie di alberi (aggiungendo il mirto e il salice) e metterli insieme nel compimento della mitzvà. I Saggi spiegano che ognuna delle specie usate per questa mitzvà si riferisce ad un genere differente di persona, da quella più spiritualmente sviluppata a quella meno raffinata.
La lezione che ne deriva è molto chiara: la mitzvà non può essere compiuta solo con l’etròg, la più elevata delle specie. Il salice – che in analogia alle persone si riferisce ai più bassi livelli – è altrettanto necessario. Allo stesso modo, nessuno può realizzarsi a livello del proprio potenziale individuale senza protendersi verso gli altri e unirsi a loro.
I nostri Saggi spiegano che il lulàv e l’etròg sono simboli di vittoria, che simboleggiano la nostra difesa nel giudizio di Rosh HaShanà e Yom Kippùr. Quando ci stringiamo in unità, come insegnano il lulàv e l’etròg, ci assicuriamo delle benedizioni positive per l’anno a venire.
Sukkòt infine segna anche il termine del processo di teshuvà che è cominciato con il versamento di lacrime di tristezza durante Rosh HaShanà e Yom Kippùr, per culminare a Sukkòt con le lacrime di riconoscenza verso Ha-Shèm che ha perdonato i nostri peccati.

Sukkot è la festa più allegra dell’anno “il periodo della felicità” e la sua gioia è spumeggiante. Per capire meglio il perché e il suo significato intrinseco, sei invitato a sentire le seguenti lezioni.

Qui sotto trovi i link e i titoli delle lezioni degli anni scorsi; ti aiuteranno a capire il significato profondo di Sukkot e del Lulav e a vivere questa festa con calore.

Buon ascolto e Khag Sameah e Shalom a tutti