VAYETZE 5785: 10 LEZIONI PRECEDENTI

Questo SHABBAT 7 Dicembre 2024  6 KISLEV 5785 leggeremo la

Parashà di Vayetzè  Gen 28, 10 – 32, 3

HAFTARÀ
Italiani:/Sefardti: Os. 11, 7-12, 14
Milano/Torino/Ashkenaziti: Os. 12, 13-14, 10

Un saggio non analizzerà una porzione della Torà, né un capitolo, un versetto, una frase o una parola. Non ci concentreremo nemmeno su una lettera o una sillaba o una nota musicale, invece esploreremo un’omissione lampante nella porzione di questa settimana.
Chiunque sia stato chiamato alla Torà, o coloro che hanno avuto l’opportunità di guardare un Sèfer Torà (rotolo della Torà), avrà potuto notare come esso non contiene il tipo di punteggiatura familiare usato nei libri: non ci sono punti, esclamativi o interrogativi di sorta; niente virgole, due punti, punti e virgola. Nel Sèfer Torà, invece, ci sono due forme di punteggiatura per indicare (almeno nella maggior parte dei casi) l’inizio di un nuovo argomento: sono spazi vuoti tra le parole, che segnano la fine di una parashà/sezione o tema, e l’inizio di uno nuovo.
Ci sono due tipi di spazi in un Rotolo della Torà, uno è chiamato “setumà”, che significa “chiuso”; l’altro è chiamato “petukhà”, che significa “aperto”. Quando un argomento nella Torà giunge al termine e un nuovo argomento sta per iniziare, le parole si fermano prima della fine della riga, il resto della riga viene lasciato “aperto”. Quindi, il nuovo argomento inizia solo alla riga successiva. Questo è chiamato “petukhà”, o “riga aperta”.
Tuttavia, quando inizia un argomento nuovo, ma correlato al precedente, la riga non viene lasciata aperta alla fine, ma uno spazio lungo nove lettere viene lasciato vuoto tra le parole e l’argomento successivo che inizia sulla stessa riga. Questo è chiamato “setumà”, o “riga chiusa”.
Questi due tipi di spazi sono indicati in ogni Khumàsh stampato con una lettera ebraica “pei” (פ per petukhà) o la lettera ebraica “sàmekh” (ס per setumà).

Due Eccezioni
Tutte le porzioni della Torà sono riempite con numerosi spazi vuoti di questo tipo. Date un’occhiata a qualsiasi porzione del vostro Khumàsh stampato e vedrete all’inizio di ogni nuovo argomento una lettera “pei” (פ) o una lettera “sàmekh” (ס).
Ci sono due eccezioni: la porzione di questa settimana, Vayetzè, e la porzione di Mikètz. Vayetzè contiene 148 versetti; Mikètz, 146 versetti, ed entrambi sono privi di queste pause. Queste parashòt sono scritte come una frase continua, senza “spazio”, neanche per un “respiro”.
Questo è strano visto che Vayetzè è una delle porzioni più lunghe della Torà e copre vent’anni interi della vita di Ya’akòv, anni pieni di incontri, esperienze e tribolazioni varie. Perché non c’è un singolo spazio, una pausa, nell’intera porzione?

Lasciare Casa
Fu il rabbino Yehudà Aryè Leib Altar, il secondo Rebbe della dinastia Ger, noto come Sefàt Emèt, a offrire una spiegazione meravigliosa.
La porzione (Bereshìt 28, 10) inizia con queste parole: “Ya’akòv uscì da Beèr Sheva (nel sud della Terra Santa, dove i suoi genitori vivevano) per recarsi a Kharàn”. Quest’ultima era una città nell’antica Mesopotamia, oggi situata nella Turchia meridionale, al confine tra Siria e Iraq.
Ya’akòv lascia il “bozzolo” dei suoi genitori, un ambiente intriso della visione abramitica della vita, per mettersi in viaggio verso Kharàn, dove avrebbe vissuto con un suocero infido, Lavàn, e avrebbe sopportato molte prove. La porzione termina (32, 2), circa due decenni dopo, con Ya’akòv che lascia Lavàn e torna in Terra Santa: “E Ya’akòv andò per la sua via e gli angeli di Dio lo incontrarono”.

Cosa ha permesso a Ya’akòv di mantenere il suo equilibrio morale e spirituale durante i suoi due decenni di esilio? Perché il primo “profugo” ebreo non si è assimilato e non ha perso la sua identità spirituale?

Il Segreto della Longevità
La risposta è suggerita nella Torà proprio dall’omissione di un qualsiasi spazio durante il suo viaggio dalla Terra Santa e ritorno. Da “Ya’akòv uscì da Beèr Sheva”, all’inizio di Vayetzè, fino a “E Ya’akòv andò per la sua via…”, alla fine di Vayetzè, non c’è alcun spazio vuoto. Geograficamente, Ya’akòv lasciò Beèr Sheva in Terra Santa, si allontanò da Yitzkhàk e Rivkà e dal loro mondo incentrato sul Divino; ma nella sua mente, non c’era alcun frattura tra i due eventi: Ya’akòv sapeva di dover affrontare questo viaggio, sapeva che era stato mandato in missione, quindi sapeva che sarebbe tornato.
Ya’akòv non perse mai il contatto con la sua provenienza e quindi non si perse mai nelle vicissitudini della sua vita in esilio. “Chi ha un ‘perché’ per cui vivere può sopportare quasi ogni ‘come’”, disse Friedrich Nietzsche. Quando sappiamo chi siamo e il compito che ci aspetta, le circostanze mutevoli non prevarranno mai sui nostri punti di riferimento interiori e pertanto non devieremo mai dai nostri scopi e riusciremo sempre a ricordarci delle nostre origini: da dove veniamo e dove stiamo andando. Vi sarà sempre una serenità uniforme che pervaderà le nostre vite.

Questa porzione cattura il lungo dramma dell’esilio ebraico. Ya’akòv è il primo ebreo a lasciare il “bozzolo” dei suoi genitori e a ricreare una vita ebraica in terra straniera; i suoi discendenti, invece, saranno costretti a farlo numerose volte nel corso della loro storia. Qual è il segreto dei discendenti di Ya’akòv che hanno potuto sopportare millenni di esilio e tuttavia restare saldamente impressi nella loro identità ebraica, mantenendo sempre in vita i valori di Israèl contro ogni logica?

La Missione
Il defunto astrofisico professor Velvl Green, che ha lavorato per molti anni per la NASA, una volta raccontò la seguente storia. Molti anni fa, ha raccontato il Prof. Green, un noto scienziato tenne una lezione a una conferenza di scienze spaziali sugli aspetti più ampi del programma della National Aeronautics and Space Administration negli Stati Uniti. Tra le altre cose, il relatore tracciò un parallelo tra i problemi che gli esploratori spaziali dovranno affrontare in futuro e le nostre attuali condizioni sulla Terra.
Utilizzando l’esempio di un ipotetico viaggio con equipaggio umano verso la stella più vicina, Alpha Centauri, ha sottolineato i notevoli problemi ingegneristici, biologici e sociologici che si sarebbero incontrati durante l’esecuzione di questa impresa. Dato che questa stella è distante 4,3 anni luce, un’astronave che viaggia a 1.000 miglia al secondo, impiegherebbe più di 800 anni per arrivarci e altri 800 anni per tornare indietro. Pertanto, qualsiasi equipaggio da noi inviato nello spazio non sopravvivrebbe, nemmeno per una frazione della durata della missione. Invece, dovremmo preoccuparci di come riuscire a “occupare” la capsula con le molte generazioni di discendenti del primo equipaggio che avranno il compito di continuare la missione. Questi bambini e bambine dovrebbero avere a loro volta dei figli, e così per 1.600 anni. Alla fine, dopo molte generazioni, la lontana progenie dell’equipaggio originale avrebbe completato la missione.
Questa astronave interstellare dovrebbe essere completamente autonoma e autosufficiente. Ma il docente ha sottolineato che i problemi ingegneristici e tecnici sono solo una faccia della medaglia. Nell’astronave, l’equipaggio dovrebbe, prima di tutto, imparare a tollerarsi a vicenda, generazione dopo generazione. Dovrebbero imparare, e imparare in fretta, che non si fa saltare in aria neanche una piccola parte dell’astronave, ad esempio.
E poi l’oratore ha toccato un argomento chiave: la cinquantesima generazione, dopo mille anni, condividerà ancora le aspirazioni dei loro padri pellegrini che partirono dalla terra secoli prima? Come si può, in effetti, trasmettere a una generazione ancora non nata le informazioni di base su dove sono venuti, dove stanno andando, perché ci stanno andando, come arrivarci e come tornare indietro?
Uno degli scienziati si alzò e, con mia sorpresa e gioia, dichiarò: “Se potessimo capire come il popolo ebraico è riuscito a sopravvivere per migliaia di anni, avremmo la risposta!”. Lo scienziato aveva colto nel segno, pensò Velvel. Per un ebreo, questa storia non è un semplice volo fantastico dell’immaginazione; ma è parte integrante della nostra narrazione millenaria. Quasi quattro millenni fa, Avrahàm sentì la chiamata per diventare una benedizione per tutta l’umanità. Tremila e trecento trentasei anni fa, sul Monte Sinai, fummo “lanciati” con istruzioni specifiche e “mappe stellari sempre aggiornate per ogni generazione”. E ci fu detto che avremmo dovuto trasmettere questa missione ai nostri figli e nipoti, per le generazioni a venire. La nostra missione sarebbe stata quella di portare luce e redenzione al mondo intero, la nostra Alpha Centauri.
Siamo stati incaricati della missione di rivelare che l’universo e l’umanità hanno un’anima e che, in definitiva, ognuno di noi ha un’anima. Che viviamo nel mondo di Dio e che la nostra missione è quella di trascendere i nostri gusci superficiali e rivelare l’infinita unità che ci unisce tutti.
Per più di cento generazioni abbiamo saputo da dove venivamo, dove stavamo andando, perché stavamo viaggiando, chi era il “Responsabile del progetto” e come tornare indietro. Siamo riusciti, miracolosamente a trasmettere questa intelligenza ininterrottamente di generazione in generazione, persino a generazioni che non erano fisicamente presenti durante il “decollo” sul Sinai. Come mai tutto ciò? Perché la Torà, il nostro diario di bordo divino, contiene una guida sia a livello macro che micro dell’universo, della vita e della storia. Nonostante tutte le sfide, questo diario ha soddisfatto l’unico vero criterio degli scienziati empirici: ha funzionato! La nostra attuale esistenza dimostra che ha funzionato.
Finché la trasmissione della Torà, di generazione in generazione, è continuata, la missione e il popolo sono rimasti intatti.

La Sfida
Ma in qualche modo, non molto tempo fa, una “frattura” è emersa nel mezzo di questo lungo e incredibile viaggio. È nata una generazione di “astronauti” che hanno deciso di poter scrivere un diario di bordo migliore. Pensavano che l’originale fosse antiquato, restrittivo, complicato e irrilevante per i problemi dei tempi moderni, ma hanno perso la loro “posizione” nello spazio e i punti di riferimento celesti.
Molti di loro sanno che qualcosa non va, ma non sono riusciti a individuare il malfunzionamento e a rimettersi in carreggiata. La nostra missione oggi è quella di insegnare non solo in teoria, ma anche in pratica attraverso l’esempio concreto dei nostri comportamenti quotidiani, che non c’è davvero alcuna abisso tra il Sinai e la modernità. È una catena continua e ininterrotta e, a differenza del darwinismo, non c’è alcun “anello mancante”. La gloriosa narrazione del nostro popolo è che non abbiamo mai permesso un divario intergenerazionale. Lo stesso Shabbàt che le nostre nonne celebravano 3000 anni fa, noi lo celebriamo ancora. Gli stessi tefillìn che i nostri bisnonni indossavano 300 anni fa, noi li indossiamo ancora oggi a Milano come a Roma. Gli stessi testi che i bambini ebrei di Firenze e Barcellona studiavano 700 anni fa, i miei figli studiano oggi.

New York Time 2100
A metà degli anni ‘90 c’era un ragazzo a Brooklyn, New York, nel quartiere del Rebbe a Crown Heights. Il Rebbe di Lubàvitch parlava molto dell’importanza che le donne e le ragazze accendessero le candele dello Shabbàt, quindi il ragazzo decise che sarebbe stato appropriato mettere ogni venerdì un annuncio su uno dei quotidiani più importanti della nazione, il New York Times, con l’invito a “Ogni donna e figlia ebrea di accendere le candele dello Shabbàt” e con gli orari di accensione. Tale annuncio all’epoca costava 2000 dollari, una cifra molto alta. Tuttavia, il ragazzo riuscì a convincere un ricco discepolo del Rebbe a finanziare l’annuncio e così per diversi anni, ogni venerdì, venne pubblicato l’annuncio nel famoso giornale con gli orari delle candele di Shabbàt.
Un giorno il ricco mecenate si trovò in difficoltà e informò il ragazzo che sarebbe stato costretto a sospendere i finanziamenti e ovviamente l’annuncio non fu più pubblicato.
Nel 1 gennaio del 2000, il New York Times pubblicò la sua “edizione del millennio” che includeva tre pagine speciali: una conteneva notizie di tutto il secolo passato, dal 1 gennaio 1900 fino al 1 gennaio 2000; la seconda pagina conteneva notizie di attualità di quel giorno, ovvero il 1 gennaio 2000; la terza pagina aveva notizie del futuro, ossia immaginava ciò che sarebbe successo nel secolo successivo, fino al 1 gennaio 2100.
Il nostro ragazzo dopo aver pubblicato per anni l’annuncio delle candele ogni venerdì, con sua profonda sorpresa nota sulla pagina delle “notizie future” proprio il suo annuncio con gli orari di accensione delle candele che, secondo il New York Times, sarebbe dovuto accadere nel lontano venerdì del 1 gennaio 2100. Il ragazzo, quindi, chiede e ottiene di incontrare il direttore del giornale. Il giorno dell’appuntamento domanda al direttore perché avesse scelto proprio il suo annuncio come notizia del 2100. La risposta del direttore fu stupefacente, bellissima e speciale: “Tutto quello che abbiamo scritto sulla pagina del 2100 non sappiamo se veramente accadrà, forse è tutta fantascienza, ma l’unica cosa che sono sicuro è che ci saranno, anche nel 2100, delle donne ebree che accenderanno le candele dello Shabbàt!
Proprio perché questa è una pagina futuristica, quindi fantasiosa, ho voluto mettere almeno una cosa vera su questo giornale circa gli eventi del 2100: l’accensione delle candele dello Shabbàt del 1 gennaio 2100”.

Abramo ha iniziato la storia, Mosè l’ha consolidata e noi la completeremo fino alla redenzione imminente presto nei nostri giorni amèn.

PERCHÉ SPOSARE UNA MOGLIE CHE ODIO?
Odiamo ciò che non comprendiamo

Da questa riflessione abbiamo una novità per chi vuole stampare la lezione potrà scaricare il pdf compattato.
La storia dell’inganno di Lavàn, che scambia Rachele con Leà, è una delle storie più intriganti di tutto il Tanàkh (l’insieme del Pentateuco, Profeti e Agiografi). In essa troviamo alcune delle idee più profonde sulle relazioni, sull’amore e sul funzionamento della mente umana.
Ma oggi vorrei fare una semplice domanda: come può Giacobbe odiare la propria moglie, Leà? Giacobbe il terzo e il più perfetto Patriarca d’Israele, il padre di ogni ebreo, come poteva, proprio lui, odiare veramente la propria moglie? Dato che la Torà è sinonimo di HORAÀ – INSEGNAMENTO, ogni racconto ci deve dare una lezione pratica. Allora quale lezione impariamo da questa storia?
In effetti, il Talmud ci mette in guardia pesantemente sul fatto di vivere con una moglie che odiamo e disprezziamo: o cambi il tuo atteggiamento o esci dal matrimonio. Oltretutto, una simile relazione è particolarmente dannosa per i bambini. Se Giacobbe davvero odiava Leà, perché si è sposato con lei?
Ci sono molte interpretazioni, su questa famosa vicenda, ma probabilmente, quella più originale e sorprendente, si trova negli scritti dei primi due maestri della dinastia Chabad: Rabbi Shneur Zalman di Liadi, noto come Alter Rebbe (1745-1812); e quella di suo figlio, Rabbi Dov Ber, noto come Mitelè Rebbe (1733-1828).
È importante sottolineare come il 9 del mese di Kislèv, questo Shabbàt (il 13 novembre), si ricorda sia lo yartzeit, l’anniversario ebraico della scomparsa del Mitelè Rebbe, sia il suo compleanno. Come capita ai grandi Tzaddikìm, Moshè in primis, spesso la data della loro nascita e scomparsa coincidono. Mentre l’anniversario della sua liberazione dalla prigionia sotto il regime zarista è il 10 di Kislèv.
Questi due grandi maestri spiegano che le persone odiano ciò che non capiscono; temono ciò che non possono conquistare, odiano ciò che non possono controllare.

Giacobbe fugge dalla sua dimora in terra di Canaàn e viaggia verso est fino alla casa di Lavàn. All’arrivo incontra la figlia minore di Lavàn, Rachele e si innamora di lei. Lavàn gli propone un accordo: “lavora per me sette anni e te la darò in sposa”. Giacobbe rispetta l’accordo, ma nella notte di nozze, Lavàn sostituisce Leà con Rachele. Di notte Leà entra sotto il baldacchino nuziale, al posto di Rachele. Giacobbe consuma il matrimonio e scopre l’inganno solo il mattino dopo. Alla fine, Giacobbe accettò il suo destino e rimase con Leà, ma sposa anche Rachele, la moglie da lui scelta fin dall’inizio.
Questa è la descrizione fatta dalla Torà (Genesi 29, 30-33):
“(Giacobbe) Si unì anche a Rachele e amò Rachele più di Leà; lavorò con lui (Lavàn) per altri sette anni. E Dio vide che Leà era ODIATA, così aprì il suo grembo; mentre Rachele era sterile. Leà concepì e partorì un figlio, e lo chiamò Reuvèn, poiché disse: “Poiché il Signore ha visto la mia afflizione, ora mio marito mi amerà”. Concepì di nuovo e partorì un figlio, e disse: “Poiché il Signore ha sentito che sono odiata, mi ha dato anche questo”. Quindi lo chiamò Shimòn (che vuole dire ascoltare).

Mondo Nascosto e Mondo Rivelato
Questa è una delle storie più intriganti di tutto il Tanàkh. Contiene alcune delle idee più profonde sulle relazioni, l’amore e il funzionamento della mente umana. Come può Giacobbe, il terzo Patriarca di Israele, odiare la propria moglie, Leà? Il padre di ogni ebreo che vive da allora fino ad oggi poteva odiare davvero il proprio coniuge?
Solo poche storie sono raccontate nella Torà scritta, poiché ognuna costituisce una lezione senza tempo, un progetto per le nostre vite. Quindi, essendo una delle poche storie dettagliatamente narrate dalla Torà, significa che essa può insegnarci molte cose.
Nello Zohar, Leà e Rachele sono descritte come “il mondo nascosto” e il “mondo rivelato”. Leà, spiega l’Alter Rebbe, era molto più profonda di Rachele.
Mentre Rachele rappresenta il sé cosciente, il sé proiettato, manifestato ed espresso in articolate emozioni e parole, Leà rappresenta il sé inconscio, i componenti dell’identità che sono nascosti dalle nostre esperienze coscienti e dal senso concettuale di sé.
Ognuno di noi ha una “Rachele” e una “Leà” “interiori”. Esse si manifestano quando interagiamo tra i coniugi, con i nostri figli, i nostri genitori, fratelli e amici, nelle nostre vite e, naturalmente, nella nostra esperienza con Dio.
Rachele simboleggia quella dimensione del nostro IO che crea una percezione del prossimo: quegli aspetti del coniuge o dei figli che comprendiamo, apprezziamo e in qualche modo possiamo controllare e circoscrivere con la nostra mente. Rachele rappresenta quegli aspetti dei nostri figli che “otteniamo” in maniera confortevole. Rachele riflette le parti di noi che possiamo classificare, vedere e modellare; quegli aspetti della psiche con cui siamo venuti a patti.
Leà, rappresenta i componenti del nostro coniuge che ci sfidano, gli aspetti dei nostri figli che ci costringono a rivalutare tutto su noi stessi, le dimensioni della nostra identità che abbiamo represso da tempo e ci scioccano. Leà incarna gli aspetti di noi a cui non siamo capaci di dare un senso una ragione.
Pertanto, risulta logico identificare Rachele come una creatura amabile e identificare Leà come una persona da odiare. Tuttavia, in base a quanto scritto finora non rispondiamo alla domanda più importante: Perché accade ciò?
Per rispondere a questo fondamentale quesito partiamo da una sbalorditiva osservazione dell’Alter Rebbe: LE PERSONE ODIANO CIÒ CHE NON CAPISCONO. Si allontanano da ciò che non possono circoscrivere con il loro cervello; temono ciò che non possono conquistare; odiano ciò che non possono controllare.
Apprezziamo e amiamo solo le cose che possiamo assimilare alle modalità e alle strutture della nostra identità. Solo ciò che possiamo inserire nella “nostra scatola”.
Invece, quando ci troviamo di fronte a una realtà che sfida la nostra “zona comoda”, essa innesca un profondo fermento in noi che ci spaventa e, a volte, ci travolge. Improvvisamente traspare tutto ciò che non conosciamo di noi. Questo ci fa sentire vulnerabili, poiché ci impedisce di continuare a controllarci e ci informa di quanto siamo stati portati lontano nell’oscurità dal nostro ordinato metodo per sopravvivere. Quindi come reagiamo? Iniziamo a odiare! Ciò ci consente di ignorare il problema e andare avanti. La resistenza, sotto forma di odio, ci consente di ignorare la verità.
Rachele è una donna attraente e bella, l’amiamo perché la “comprendiamo” e apprezziamo ciò che otteniamo, si inserisce nelle nostre zone di comfort e, come tale, migliora, apparentemente, le nostre vite. In ebraico Rachele significa “pecora”, un animale caratterizzato dal suo colore bianco brillante e dalla sua natura serena e amabile. La numerologia del nome ebraico Rachele, 238, è la stessa della numerologia delle parole ebraiche “Vayhì Or – ויהי אור” “e fu luce”. Rachele è leggera, rappresenta il nostro sé proiettato, incarna la luce che ci permette di osservare e capire.
Leà deriva dalla parola ebraica “nilè” “esaurimento”. Lei incarna una profondità infinita che ci stanca: ci confonde e ci travolge. Leà fa vibrare la nostra psiche cosciente. Lei non ha nessun filtro. Noi non “vediamo” Leà; ci sentiamo solo messi a disagio da lei. Non si può vedere il proprio inconscio, i nostri occhi limitati, non possono raggiungerlo. Puoi semplicemente farti scuotere da esso, perché non puoi mai averlo, ma lui si, ti controlla.

Come Incontrare la Nostra Leà? Mai Consapevolmente! 
Giacobbe non può entrare in una relazione con Leà per scelta. Leà ci sorprende sempre. Non è qualcosa per cui ci prepariamo, perché ciò per cui ci prepariamo è sempre un riflesso delle nostre aspirazioni e aspettative. Leà rappresenta le parti nascoste della persona che non si “conoscono” in modo sistematico, quelle che entrano nella nostra vita inconsciamente.
Leà personifica le realtà della vita che sfidano i nostri costrutti mentali e quindi la incontriamo “per sbaglio”. Le cose che trascendono i nostri sistemi ed entrano nella vita attraverso percorsi inconsci. Giacobbe non può accettare di sposare Leà. Nessuno farebbe consapevolmente una cosa del genere, perché Leà sfida il senso dell’”Io”. La nostra coscienza non sceglierebbe mai Leà: solo il nostro io super cosciente sceglierebbe, in modo inconscio, una relazione con Leà.
Quindi, anche se Giacobbe sceglie di sposare Rachele, incidentalmente è ingannato da Lavàn e costretto di sposare Leà. Metaforicamente parlando è come se ognuno di noi sposasse due persone che rappresentano le due parti di noi stessi: Leà e Rachele interiori. Il sé cosciente “sposa” ovvero incontra la parte conscia, tramite la proiezione della sua parte rivelata nell’altro coniuge; analogamente il sé inconscio “sposa” quella parte nascosta proiettandosi nella parte inconscia del consorte. Questa è l’unione più profonda che c’è nel matrimonio, ma che non possiamo vedere e comprendere razionalmente. Quindi la prima sposa è amata, mentre l’altra quella che ci mostra le nostre parti scomode è “odiata”.

Come Giacobbe ha capito questo e lentamente ha imparato ad apprezzare, rispettare e amare Leà, anche noi dovremmo scoprire queste capacità interiori che abbiamo, quegli aspetti delle nostre vite che ci sfuggono di più e che potrebbero contenere i più profondi “tikunìm” (poteri curativi) per noi: quegli aspetti nel nostro coniuge che ci irritano di più, potrebbero celare il segreto della nostra guarigione; gli aspetti delle relazioni che mettono in discussione alcune delle nostre emozioni più profonde, possono contenere la chiave per un nuovo livello di scoperta di sé. A volte odiamo le cose perché fanno male a noi, ma non sempre! Alcune cose le odiamo, perché abbiamo paura della loro verità, o perché abbiamo paura di aprirci a orizzonti sconosciuti. Odiamo tutte queste cose perché ci fanno sentire ignoranti e vulnerabili.
Eppure, come dice la Torà, in modo così scioccante, semplice e profondo: “E Dio vide che Leà era odiata, così aprì il suo grembo; ma Rachele era sterile”. Spesso è proprio ciò che ci spaventa che ci permette di dare alla luce i nostri più profondi poteri dell’anima. Se ci circondiamo, solo di persone che ci danno l’apparenza del controllo sulle nostre vite, rimaniamo “sterili” come Rachele. Esponendo noi stessi all’ignoto possiamo dare vita all’infinito nascosto nella nostra anima.
Per di più, il nostro percorso verso Rachele passa sempre attraverso Leà. Non si può mai amare la propria Rachele, se non abbiamo fatto pace con la propria Leà.

Cosa C’entra Mashìakh?
Quanto sopra detto è intimamente legato alle nostre aspettative o paure su uno dei principi cardini dell’ebraismo, l’avvento dell’era messianica. Anche chi prega e spera ogni giorno che Mashìakh arrivi il prima possibile può provare inconsciamente una sorta di “disagio”, circa gli stravolgimenti e i radicali cambiamenti che questo avvento potrebbe comportare nella sua vita.
Come il simbolismo di Rachele insegna, noi siamo portati a sederci comodamente sulle nostre abitudini quotidiane, sulle nostre certezze, poiché esse ci danno una parvenza di poter controllare le nostre vite. All’opposto la nostra Leà, così anche Mashìakh, la nostra parte inconscia ci mette inquietudine e disagio su ciò che riteniamo di non riuscire a comprendere: l’ignoto dell’era messianica.
Tuttavia, questi timori sono infondati, poiché in verità l’era messianica riporterà l’umanità alla perfezione come era nel suo stato originale, come Dio l’aveva creata fin dall’inizio. Proprio come il simbolismo di Leà, del racconto, solo con l’avvento dell’era messianica noi saremmo in grado di vedere e capire la parte più pura, l’essenza di noi stessi, la nostra anima infinita e il mondo come veramente è stato creato da Dio.

Lea o Rachele? Considerazioni Finali
Il testo, per una sua migliore comprensione, richiede una precisazione circa gli aspetti simboleggiati da Leà e Rachele, in rapporto al matrimonio, nella nostra attuale epoca. Siccome, tengo molto a cuore la valorizzazione della famiglia e del matrimonio, considero questo argomento e in particolare questo articolo MOLTO importante.
Molte persone potrebbero legittimamente domandare come e se l’esempio delle due mogli di Giacobbe può essere ancora attuale. In un mondo, dove la poligamia, non è quasi più praticata da molto tempo.
In realtà le due spose di Giacobbe rappresentano i due aspetti o lati che si trovano in ogni donna/moglie.
Come già scritto sopra, Rachele simboleggia il lato attraente (anche in senso fisico), comodo e scintillante della moglie. Non a caso che la numerologia del nome ebraico Rachele, 238, è la stessa delle parole ebraiche “Vayhì Or – ויהי אור” “e fu luce”. La parte più piacevole che noi riusciamo a vedere e capire, bene, almeno sembra. Per il marito la “moglie Rachele” riflette il suo IO o SÉ apparente.
Contrariamente invece il “lato Leà”, della propria moglie, rappresenta l’elemento più difficile del matrimonio: problemi, stanchezza e doveri. Questo è l’aspetto dove si piange, dove si trova poco amore. Per l’appunto, il nome Leà deriva dalla parola ebraica “nilè” “esaurimento”, poiché essa ci stanca, ci confonde e ci travolge. Differentemente da Rachele (luce), noi non possiamo e non vogliamo vedere: “La Leà”, della nostra moglie e di noi stessi. Proprio come non si può vedere il proprio inconscio, poiché lo temiamo, ci infastidisce e ci disturba.
Tra tutti i patriarchi, solo Giacobbe è il capostipite di Israele, infatti Israèl è il secondo nome di Giacobbe che dà il nome a tutto il popolo. Non a caso è lui che sposa e affronta entrambi gli aspetti della coniuge, poiché il suo matrimonio è il “prototipo esemplare”, per tutti i futuri matrimoni. Questo fatto, ci ha lasciato in eredità la forza di affrontare e superare le prove che possono derivare dalle due mogli.
In realtà Giacobbe vorrebbe sposare PRIMA Rachele, ovvero dare più rilevanza al lato esterno e rivelato, ma la mano di Dio lo porta a sposare prima Leà, perché è lei la parte più importante e difficile di una unione.
Il “dramma” di Giacobbe può accadere in tutti i matrimoni: si pensa di sposarsi solo per il lato di Rachele, ma poi si scopre che c’è anche Leà e poi, forse, si arriva a capire che è quello più importante, anche se è quello meno piacevole e più arduo.
Tuttavia, non bisogna arrivare alla conclusione per cui un aspetto simboleggia il “bene” e l’altro il “male”, poiché entrambi sono essenziali in un rapporto matrimoniale. SOLO LEÀ o SOLO RACHELE NON VA BENE, occorre avere equilibrio tra i due: con troppo del primo, il legame tra i coniugi rischia di rompersi; con troppo del secondo, marito e moglie rischiano di rimanere legati agli aspetti superficiali del loro rapporto.
In Genesi è scritto che Dio disse ad Adamo che gli avrebbe creato “un aiuto contro di lui”. Per crescere, come singoli e come coppia, occorre affrontare la parte inconscia di noi, dove soggiornano “comodamente” e “indisturbati” i nostri limiti, paure e vizi che non sappiamo o desideriamo conoscere, perché non vogliamo affrontarli. Il ruolo fondamentale della donna Leà è proprio questo, porre il marito di fronte ai propri limiti, spronarlo dal suo egoismo, per migliorare sé stesso.

Non a caso uno dei momenti più profondi del rito matrimoniale ebraico è quando il khatàn (sposo) copre il viso della moglie, prima di portarla sotto il baldacchino. Con questo gesto, l’uomo nasconde e copre il lato apparente e superficiale della sposa (Rachele), per collegarsi con la parte subconscia e nascosta della sua anima gemella (Leà).
Questo atto afferma che lo sposo è consapevole dell’esistenza del lato nascosto di Leà che è l’essenza del matrimonio, dove avviene la vera unione tra la due anime, ed è la vera sfida di ogni matrimonio. Per questo si copre il “lato Rakhèl”, prima di celebrare l’unione sotto la Khuppà, per dare risalto al “lato Leà” della moglie.
È come se il marito dichiarasse:
IO TI AMO E TI RISPETTO, NON SOLO PER IL LATO RIVELATO A ME, MA SOPRATTUTTO PER CIÒ CHE È NASCOSTO IN TE E CHE IO DOVRÒ SCOPRIRE IN FUTURO.
Un vero matrimonio non può avere condizioni; l’unione non può verificarsi solo se le cose vanno bene: per essere VERO deve essere un atto eterno.
La superiorità di sposare Leà ha un’altra ragione molto importante: la vita di ogni individuo è un percorso di rettificazione dei propri impulsi che si manifestano dietro alle nostre tendenze istintuali/animalesche. Tuttavia, la loro esistenza è proprio allo scopo di correggerle attraverso l’opera chiamata in ebraico Tikkùn (rettificazione), lo scopo stesso dell’esistenza umana. Questa opera ha due grandi fasi: quella che facciamo da soli, senza un coniuge, e quella che in seguito facciamo in due. Da soli, infatti, non riusciamo a percepire bene le nostre mancanze in modo da rettificarle. Grazie al “lato di Leà” nella vita coniugale la sua parte nascosta, possiamo elevarci e migliorarci maggiormente.

QUESTO È IL SIGNIFICATO PROFONDO DEL MATRIMONIO!

p.s.
se per caso finora il matrimonio non ha valorizzato la parte di Leà, non è mai troppo tardi. C’è sempre tempo di celebrare il VERO matrimonio: Auguri e Mazal Tov!

IL TANGO DELLA GELOSIA

Ya’akòv in Aràm

ho il piacere di condividere uno scritto attuale e interessante di Sivan Rahav di questa settimana.

“Shalom Sivàn, il mio nome è Yitzkhàk Cohen. Oggi è il mio anniversario di matrimonio mentre io, in questo momento, sono impegnato nel servizio di riserva dell’esercito a Gaza. Vorrei dedicare a mia moglie un pensiero che credo sia adatto agli sposi di tutto il mondo.
Nella parashà di questa settimana, Ya’akòv arriva ad un pozzo e vede dei pastori che non possono spostare una pietra pesante che lo copre. Ecco quanto si legge nel seguente versetto:
«E, quando Ya’akòv vide Rakhèl … si avvicinò e sollevò la pietra dall’imboccatura del pozzo».
Cosa ha dato a Ya’akòv la forza di spostare la pietra? Un famoso commentatore conosciuto come Ba’àl Hatturìm spiega: ‘Quando egli la vide (Rakhèl)… lo spirito divino si posava su di lui’.
In altre parole, il compagno/a della nostra vita ci conferisce un potere meraviglioso e sacro. Inoltre, nella famiglia che costruiamo, si sviluppano formidabili forze spirituali.
In questo momento, le famiglie lasciate a casa, impegnate nella lotta quotidiane della vita domestica, ci forniscono la nostra forza spirituale. Grazie al merito delle nostre famiglie, riusciamo a spostare enormi pietre che bloccano la nostra strada.
Un grande Mazàl Tov a tutti e auguri per i nostri 17 anni di matrimonio. E grazie a mia moglie, la fonte della mia forza”.

Tratto dal Messaggio quotidiano di Sivan Rahav Meir del 21/11/2023

Anche oggi, alla vigilia dello Shabbàt, vi proponiamo due riflessioni su un brano della Torà, Vayetzè, tratto dal libro “Saggezza Quotidiana” sulla base degli insegnamenti chassidici del Rebbe e dei suoi predecessori.
Con la settima porzione del libro della Genesi, inizia la cronaca del terzo patriarca Ya’akòv (Giacobbe), che dopo aver lasciato, Vayetzè in ebraico, la terra di Canaàn, per trovare una moglie in Aràm, diventa il padre di una famiglia numerosa grazie all’aiuto Divino. Giunto ad Aràm, Ya’akòv incontra e sposa le due figlie di Lavàn, Rakhèl e Leà.
La volontà divina sottopone il rapporto tra le due sorelle a prove che avrebbero distrutto o fatto vacillare pesantemente qualsiasi altro rapporto interpersonale. Rakhèl, la figlia minore, fin da subito deve subire un trattamento umiliante: promessa in sposa a Ya’akòv, da ben sette anni, il giorno delle nozze viene “sostituita” all’ultimo minuto dalla sorella Leà. Sostituzione opera degli intrighi di Lavàn. Si può concepire un trattamento più umiliante per una donna? Eppure, Rakhèl per non svergognare la sorella accetta la situazione e collabora al fine di permettere che Leà si sposi con Ya’akòv senza causare nessun scandalo.
Come se questo non fosse sufficiente, Rakhèl, dopo il matrimonio con Ya’akòv, non riesce a concepire per lungo tempo mentre, nel frattempo, la sorella Leà, e le due serve/concubine di Rakhèl e Leà concepiscono molti figli, un’ampia porzione dei futuri capi stipiti delle dodici tribù d’Israèl.
Nonostante tutte queste spiacevoli vicende non solo il rapporto tra le due sorelle rimane saldo, ma Rakhèl riesce a trasformare la sua gelosia e il suo comprensibile rammarico in sentimenti e azioni positive. Grazie a questo anche lei riuscirà a partorire due figli: Yossèf e Beniamin.
La Torà, come rivelata dagli insegnamenti chassidici del libro “Saggezza Quotidiana”, ancora una volta dimostra di saperci mostrare il corretto comportamento anche di fronte ai sentimenti più ricorrenti e potenzialmente dannosi dell’essere umano come la gelosia, che se la si lascia dilagare diventa tristezza che poi sfocia in depressione…
Invece Rakhèl riesce a fermare questo rischio di escalation negativo, perciò riesce ad avere due figli e vincere la sfida della vita.
Inoltre, da questa lezione chassidica impariamo come non esistono in realtà sentimenti “buoni e brutti”, poiché dipende tutto da come noi li vediamo, tutto è relativo.

Un caro Shabbàt Shalòm e buon prosieguo di lettura a tutti voi.
***

Bereshìt 29, 18 – 30, 13

Giunto ad Aràm, Ya’akòv incontra la figlia di Lavàn, Rakhèl (Rachele), che conduce le greggi di suo padre al pozzo, fuori della città. Rakhèl lo presenta a Lavàn che gli affida il suo gregge. Ya’akòv gli chiede di sposare Rakhèl, in cambio di sette anni di lavoro. Lavàn è d’accordo ma, all’ultimo minuto, costringe con l’inganno Ya’akòv a sposare Leà, la sorella maggiore di Rakhèl. Lavàn, allora, permette a Ya’akòv di sposare anche Rakhèl, a condizione che lavori per lui altri sette anni. Leà darà alla luce quattro figli in successione, mentre Rakhl rimane senza figli.

Il Corretto Uso della Gelosia

Rakhèl vide che non aveva dato figli a Ya’akòv e divenne gelosa di sua sorella [Leà]. (30, 1)

La gelosia distruttiva e meschina nasce dalla paura che i successi dell’altro diminuiscano la nostra autostima. Al contrario, Rakhèl attribuisce la fertilità di Leà alla sua rettitudine ed è quindi gelosa delle buone azioni della sorella. Questo tipo di gelosia è costruttiva, poiché sprona a migliorare noi stessi. Allo stesso modo, i nostri saggi affermano che la gelosia tra gli studiosi della Torà aumenta la saggezza. La gelosia può essere una forza positiva nelle nostre vite, quando impariamo ad applicarla correttamente.

***

Bereshìt 30, 14–27

Come Sarà prima di lei, anche Rakhèl decide che la sua serva, Bilhà (che è anche la sua sorellastra), sposi suo marito, sperando che questo le farà meritare la benedizione di avere dei figli propri. Dopo che Bilhà partorisce due bambini, Leà – che ha smesso di avere figli – fa sposare la sua serva, Zilpà (l’altra sorellastra di Leà e Rakhèl), con Ya’akòv, con la stessa speranza di Rakhèl. Zilpà partorisce due figli; poi Leà diventa nuovamente fertile e ha due figli e una figlia. Rakhèl finalmente concepisce e partorisce il suo primo figlio che chiama Yossèf (Giuseppe).

Portare a Casa l’Estraneo

[Rakhèl] lo chiamò Yossèf [in ebraico “possa Egli aggiungere”], dicendo: «Mi aggiunga [yossèf] Hashèm un altro figlio». (30, 24)

La preghiera di Rakhèl riassume la missione spirituale di Yossèf (Giuseppe) nella vita: trasformare “un altro” – apparentemente estraneo – in un “figlio”. Questa missione si esprime in tre modi: nel portare il mondo terreno, che sembra essere separato da Hashèm, a riconoscere e celebrare la sua fonte divina; nel pentimento personale attraverso il quale ci trasformiamo da “altri”, estranei, in “figli” che appartengono a Lui; e infine nel raggiungere coloro che sembrano estraniati da Hashèm, rivelando loro che sono Suoi preziosi figli per i quali, vivere la vita secondo il piano divino è semplicemente naturale.
Non sentiamoci inadeguati o incapaci di compiere tali trasformazioni, perché non lavoriamo senza un aiuto. Rakhèl, infatti, dice: “Possa Hashèm aggiungere [yossèf] per me un altro figlio” – ovvero, siamo semplicemente gli strumenti di Hashèm ed è proprio Lui che accoglie con amore i suoi figli lontani a casa.

Una mamma ebrea e suo figlio sono in spiaggia. Mentre il bambino sta giocando nell’acqua, lei è in piedi sulla riva per non bagnarsi. All’improvviso, un’enorme onda appare dal nulla e investe proprio il punto dove si trova il ragazzo. In pochi secondi, l’acqua si ritira e il ragazzo non c’è più… sparito.
La madre disperata alza le mani al cielo, urla e grida: “O mio Signore, mio Dio, come hai potuto? Non sono stata una donna meravigliosa? Una madre meravigliosa? Non ho tenuto una casa kasher? Non ho dato in beneficenza? Non ho acceso candele ogni venerdì sera? Non ho fatto del mio meglio per vivere una vita di cui saresti orgoglioso?
Improvvisamente si ode una voce dal cielo che dice: “Si hai ragione è vero!”
Un attimo dopo un’altra enorme onda appare dal nulla e si schianta sulla spiaggia. Mentre l’acqua si ritira, il ragazzo è lì sorridente che nuota come se niente fosse mai successo.
Allora di nuovo la voce dal cielo tuona: “Ti ho restituito tuo figlio. Sei soddisfatta?”
La donna risponde: “No… aveva anche un cappello…!”

Perché, Odiamo ciò che non Comprendiamo?

Giacobbe fugge dalla sua casa in Canaàn e viaggia verso est fino alla casa di Lavàn. All’arrivo incontra la figlia minore di Lavàn, Rachele, e si innamora di lei. Lavàn gli propone un accordo: “Lavora per me sette anni e te la darò in sposa”. Giacobbe rispetta l’accordo, ma la notte delle nozze, Lavàn sostituisce Rachele con Leà, infatti di notte Leà entra sotto il baldacchino nuziale, al posto di Rachele. Giacobbe consuma il matrimonio e scopre l’inganno solo il mattino seguente. Alla fine Giacobbe accettò il suo destino e rimase con Leà, ma in seguito sposò anche Rachele, la sposa da lui scelta e amata, fin dall’inizio.
Questa è una delle storie più intriganti di tutto il Tanàkh. Contiene alcune delle idee più profonde sulle relazioni, l’amore e il funzionamento della mente umana. Come può Giacobbe, il terzo Patriarca di Israele, odiare la propria moglie, Leà?
Tuttavia poiché ogni storia della Torà costituisce una lezione senza tempo, un progetto per le nostre vite, cosa può insegnarci questa vicenda? Questa apparentemente semplice e banale storia, in realtà, contiene profondissimi concetti sulle relazioni di coppia, sull’amore e sul funzionamento della mente umana. Ma iniziamo con una semplice domanda: come può Giacobbe odiare la propria moglie, Leà? Giacobbe il terzo e il più perfetto Patriarca d’Israele, il capostipite, il giusto per eccellenza per il popolo ebraico, può odiare veramente la propria moglie oppure non amarla pur essendo sua moglie e madre di sei figli suoi?

PERCHÉ SPOSARSI CON UNA MOGLIE CHE ODIAMO?

Poiché la Torà è sinonimo di HORAÀ – INSEGNAMENTO, ogni racconto ci deve dare una lezione pratica. Allora quale lezione ci insegna questa storia?
In effetti, il Talmud ci mette in guardia pesantemente sul fatto di vivere con una moglie che odiamo e disprezziamo: o cambi il tuo atteggiamento o esci dal matrimonio! Oltretutto, una simile relazione è particolarmente dannosa per i bambini. Se Giacobbe davvero odia Leà, perché si è sposato con lei?
Ci sono molte interpretazioni, su questa famosa vicenda, ma probabilmente, quella più originale e sorprendente, si trova negli scritti dei primi due maestri della dinastia Chabad: Rabbi Shneur Zalman di Liadi, noto come Alter Rebbe (1745-1812); e quella di suo figlio, Rabbi Dov Ber, noto come Mitelè Rebbe (1733-1828) che oggi il 10 di Kislèv cade l’anniversario della sua salvezza dalla prigione in Russia. Questi due grandi maestri spiegano che le persone odiano ciò che non capiscono e ciò che non possono controllare, temono ciò che non possono conquistare.

Due Donne per Due Mondi
Questa è la descrizione fatta nella Genesi: “(Giacobbe) Si unì anche a Rachele e amò Rachele più di Leà; lavorò con lui (Lavàn) per altri sette anni. E Dio vide che Leà era ODIATA, così aprì il suo grembo; mentre Rachele era sterile. Leà concepì e partorì un figlio, e lo chiamò Reuvèn, poiché disse: “Poiché il Signore ha visto la mia afflizione, ora mio marito mi amerà”. Concepì di nuovo e partorì un figlio, e disse: “Poiché il Signore ha sentito che sono odiata, mi ha dato anche questo”. Quindi lo chiamò Shimon.
Nello Zohar, Leà e Rachele sono descritte come “il mondo nascosto” e il “mondo rivelato”. Leà, spiega l’Alter Rebbe, era molto più profonda di Rachele.
Mentre Rachele rappresenta il sé cosciente, il sé proiettato, manifestato ed espresso in articolate emozioni e parole; Leà invece rappresenta il sé inconscio, i componenti della nostra identità che sono nascosti alle esperienze coscienti dall’immagine concettualizzata di se stessi. Ognuno di noi ha la sua “Rachele e Leà interiori”. Esse sono nei nostri figli, genitori, fratelli e amici ecc., quindi nelle nostre vite e, naturalmente, nella nostra esperienza con Dio.
RACHELE simboleggia quella dimensione del nostro IO che crea una percezione del prossimo: quegli aspetti del nostro coniuge o figli che comprendiamo, apprezziamo e in qualche modo possiamo controllare e circoscrivere con la nostra mente. Rachele rappresenta quegli aspetti dei nostri figli che “otteniamo” in maniera “confortevole” per noi, essa riflette quelle parti di noi che possiamo classificare, vedere modellare; gli aspetti della psiche con cui siamo venuti a patti, a compromessi.
LEÀ, invece, rappresenta i componenti del nostro coniuge che ci sfidano, gli aspetti dei figli che ci costringono a rivalutare tutto su noi stessi o sui nostri genitori, le dimensioni della nostra identità che abbiamo represso da tempo e che ci scioccano. Leà incarna gli aspetti di noi stessi a cui non possiamo o riusciamo a dare un senso.
Rachele è naturalmente amabile, mentre Leà è ovviamente odiata. Perché? A questo proposito, l’Alter Rebbe fa un’osservazione sbalorditiva:
LE PERSONE ODIANO CIÒ CHE NON CAPISCONO.
Tutti noi, infatti tendiamo ad allontanarci da ciò che non possiamo circoscrivere chiaramente con la nostra mente: temiamo ciò che non possiamo conquistare; odiamo ciò che non possiamo controllare. Invece, altrettanto naturalmente, tendiamo ad apprezzare e amare ciò che possiamo assimilare attraverso le modalità e le strutture della nostra identità: solo ciò che possiamo inserire nella “nostra scatola”. Quando, invece ci troviamo di fronte a una realtà, che sfida le nostre “zone di comfort”, essa innesca un profondo fermento in noi che, a volte, ci spaventa e travolge.
Improvvisamente traspare tutto ciò che non conosciamo di “noi stessi” e questo ci fa sentire vulnerabili, e ci costringe a rinunciare al controllo, informandoci di quanto ci siamo inoltrati nell’oscurità e di quanto siamo stati trasportati dalla nostra ordinaria e “confortevole” modalità esistenziale. Quindi, come ci dobbiamo comportare in queste, non infrequenti, situazioni della vita? Spesso, sorge in noi un sentimento di odio! Sentimento che ci illude di poter ignorare la sfida posta ad esempio dal nostro vicino, figlio, marito, genitore, collega di lavoro ecc. e andare avanti. La resistenza, sotto forma di odio, ci consente di ignorare la verità.

Non Sempre è Bello ciò che Piace
Da quanto scritto sopra possiamo capire perché la Torà descrive Rachele come una donna attraente e bella: essa è amata perché è “facile da capire” e comprendere. L’essere umano, infatti tende ad apprezzare ciò che ottiene nella vita da una moglie come RACHELE, poiché essa rappresenta ciò che si inserisce perfettamente nelle nostre zone di comfort e, come tale, migliora, ma solo apparentemente, le nostre vite. In ebraico Rachele significa “pecora”, un animale caratterizzato dal suo colore bianco brillante e dalla sua natura serena e amabile. La numerologia del nome ebraico Rachele, 238, è la stessa della numerologia delle parole ebraiche “Vayehì Or –ויהי אור”, “e fu luce”: Rachele simboleggia la leggerezza del nostro sé proiettato e incarna la luce che ci permette di osservare e comprendere la realtà esterna a noi.
Leà, al contrario, deriva dalla parola ebraica “nilè”, “esaurimento”. Lei incarna una profondità infinita che ci stanca: ci confonde e ci travolge. Leà fa vibrare la nostra psiche cosciente. Lei non ha nessun filtro. Noi non “vediamo” Leà, perché semplicemente ci sentiamo solo messi a disagio da lei. Non si può vedere il proprio inconscio, i nostri occhi limitati non possono raggiungerlo. Possiamo solo farci scuotere da esso, perché non si può mai averlo, ma lui è in grado di averci, poiché ci controlla.
Ma come possiamo incontrare la nostra Leà? Mai consapevolmente! Giacobbe, infatti non è riuscito a entrare in una relazione con Leà per scelta, poiché lei rappresenta quelle situazioni della vita che ci sorprendono sempre. Non è qualcosa per cui siamo preparati, perché ciò per cui ci prepariamo è sempre un riflesso delle nostre aspirazioni e aspettative. Leà, al contrario rappresenta le parti nascoste della nostra personalità che non si “conoscono” in modo sistematico. E proprio per questo entrano nella nostra vita inconsciamente, di nascosto. Leà personifica le realtà della vita che sfidano i nostri costrutti e quindi la incontriamo “per sbaglio”. Le cose che trascendono i nostri sistemi, entrano nella vita attraverso percorsi inconsci. Giacobbe non può accettare di sposare Leà. Non farebbe mai una cosa del genere, perché Leà sfida il suo stesso senso di “Io”, e la sua e la nostra coscienza non sceglierebbe mai Leà: solo il suo/nostro io intuitivo, oltre la logica può scegliere, in modo inconscio, una relazione con Leà.
Quindi, Giacobbe sceglie di sposare Rachele, ma nello svolgimento della storia sposa Leà. Ognuno di noi sposa due persone: Leà e Rachele. Il nostro sé cosciente sposa il “nostro conscio”, come il nostro sé inconscio sposa il nostro “consorte inconscio”. Una sposa che amiamo, l’altra che invece disprezziamo perché non la comprendiamo fino in fondo.
Come Giacobbe ha capito questo e lentamente ha imparato ad apprezzare, rispettare e amare Leà, anche noi dobbiamo scoprire questa capacità dentro di noi. Quegli aspetti delle nostre vite che ci sfuggono di più, potrebbero contenere i più profondi “tikunìm” (poteri curativi) per noi. Quegli aspetti del nostro coniuge che ci irritano di più, potrebbero celare il segreto della nostra guarigione; gli aspetti delle relazioni che mettono in discussione alcune nostre emozioni profonde, possono contenere la chiave per un nuovo livello di scoperta di sé. A volte odiamo le cose perché fanno male a noi. Ma non sempre! Alcune cose le odiamo, perché abbiamo paura della loro verità implicita; o perché abbiamo paura di aprirci a orizzonti sconosciuti. Li odiamo perché ci fanno sentire deboli e vulnerabili.

Sfide Fertili
Eppure, come è scritto nella Torà (Genesi 29, 31), in modo così scioccante, semplice e profondo: “E Dio vide che Leà era odiata, così aprì il suo grembo; ma Rachele era sterile”. Spesso sono proprio le situazioni che ci mettono più paura da cui possiamo dare alla luce i nostri più profondi poteri dell’anima. Se ci circondiamo, solo di persone che ci danno l’apparenza del controllo sulle nostre vite, rimaniamo “sterili”. Solo esponendo noi stessi all’ignoto, possiamo dare vita all’infinito nascosto nella nostra anima.
Per di più, il nostro percorso verso Rachele passa sempre attraverso Leà. Non si può mai amare la propria Rachele, se non abbiamo fatto pace con la nostra “Leà interiore”.

Redenzione come Lea
Quanto sopra detto è intimamente legato alle nostre aspettative o paure su uno dei principi cardini dell’ebraismo, l’avvento dell’era messianica. Anche chi prega e spera ogni giorno che Mashìakh arrivi il prima possibile, può provare inconsciamente, una sorta di “disagio” circa gli stravolgimenti e i radicali cambiamenti che questo avvento potrebbe comportare nella sua vita.
Come il simbolismo legato alla figura di Rachele insegna, noi siamo portati a sederci comodamente sulle nostre abitudini quotidiane, sulle nostre certezze, poiché esse ci danno una parvenza di poter controllare le nostre vite. All’opposto la “nostra Leà”, così come la figura di Mashìakh, la nostra parte inconscia ci mette inquietudine e disagio su ciò che riteniamo di non riuscire a comprendere: l’ignoto dell’era messianica.
Tuttavia, questi timori sono infondati poiché, in verità, l’era messianica riporterà l’umanità al suo stato originale, come Dio l’aveva creata fin dall’inizio. Proprio come il simbolismo di Leà del racconto, solo con l’avvento dell’era messianica noi saremmo in grado di vedere e capire la parte più pura, l’essenza di noi stessi, la nostra anima infinita e il mondo come veramente è stato creato da Dio.

Il Profondo Significato del Matrimonio Oggi
In conclusione è doveroso, per una corretta comprensione di questo scritto, sottolineare ulteriormente gli aspetti simboleggiati da Leà e Rachele, in rapporto al matrimonio, nella nostra attuale epoca.
Siccome la valorizzazione della famiglia e del matrimonio è considerata dall’ebraismo MOLTO importante, occorre precisare come, in realtà, le due spose di Giacobbe, rappresentano i due aspetti o lati che si trovano in ogni donna/moglie. Quindi non è in alcun modo un invito a rapporti poligami.
Rachele simboleggia il lato attraente (anche in senso fisico), comodo e scintillante di ogni moglie. Non a caso che la numerologia del nome ebraico Rachele, 238, è la stessa delle parole ebraiche “Vayehì Or – אור ויהי” “e fu luce”. La parte più piacevole che noi riusciamo a vedere e capire, bene, almeno in apparenza! Per il marito la “moglie Rachele” riflette il suo IO o SÉ apparente.
Contrariamente invece il “lato Leà”, della propria moglie, rappresenta l’elemento più difficile del matrimonio: problemi, stanchezza e doveri. Questo è l’aspetto dove si piange, dove si trova poco amore. Per l’appunto, il nome Leà deriva dalla parola ebraica “nilè”, “esaurimento”, poiché essa ci stanca, ci confonde e ci travolge. Differentemente da Rachele (luce), noi non possiamo e non vogliamo vedere: “La Leà”, della nostra moglie e di noi stessi. Proprio come non si può vedere il proprio inconscio, poiché lo temiamo, ci infastidisce, ci disturba.
Tra tutti i patriarchi, solo Giacobbe è il capostipite di Israele, infatti Israèl è il secondo nome di Giacobbe che da il nome a tutto il popolo. Non a caso è lui che sposa e affronta entrambi gli aspetti della coniuge, poiché il suo matrimonio è il “prototipo esemplare”, per tutti i futuri matrimoni ebraici. Questo fatto, ci ha lasciato in eredità la forza di affrontare e superare le prove che possono derivare dalle due mogli.
In realtà Giacobbe vorrebbe sposare PRIMA Rachele, ovvero dare più rilevanza al lato esterno e rivelato, ma la mano di Dio lo porta a sposare prima Leà, perché è lei la parte più importante e difficile di un’unione.
Il “dramma” di Giacobbe può accadere in tutti i matrimoni: si pensa di sposarsi solo per il lato di Rachele, ma poi si scopre che c’è anche Leà e poi, forse, si arriva a capire che è quello più importante, anche se è quello meno piacevole e più arduo.
Tuttavia, non bisogna arrivare alla conclusione per cui un aspetto simboleggia il “bene” e l’altro il “male”, poiché entrambi sono essenziali in un rapporto matrimoniale. SOLO LEA O SOLO RACHELE NON VA BENE, occorre avere equilibrio tra i due: con troppo del primo, il legame tra i coniugi rischia di rompersi; con troppo del secondo, marito e moglie rischiano di rimanere legati agli aspetti superficiali del loro rapporto.
In Genesi è scritto che Dio disse ad Adamo che gli avrebbe creato “un aiuto contro di lui”. Per crescere, come singoli e come coppia, occorre affrontare la parte inconscia di noi, dove soggiornano “comodamente” e “indisturbati” i nostri limiti, paure e vizi che non sappiamo o desideriamo conoscere, perché non vogliamo affrontarli. Il ruolo fondamentale della donna Leà è proprio questo, porre il marito di fronte ai propri limiti, spronarlo dal suo egoismo, per migliorare se stesso.

Uno dei momenti più profondi del rito matrimoniale ebraico è quando il khatàn (sposo) copre il viso della moglie, prima di portarla sotto il baldacchino. Con questo gesto, l’uomo nasconde e copre il lato apparente e superficiale della sposa (Rachele), per collegarsi con la parte subconscia e nascosta della sua anima gemella (Leà). Questo atto afferma che lo sposo è consapevole dell’esistenza del lato nascosto di Leà che è l’essenza del matrimonio, dove avviene la vera unione tra la due anime, ed è la vera sfida di ogni matrimonio. Per questo si copre il “lato Rakhèl”, prima di celebrare l’unione sotto il baldacchino, la Khuppà, per dare risalto al “lato Leà” della moglie.
È come se il marito dichiarasse:
IO TI AMO E TI RISPETTO, NON SOLO PER IL LATO RIVELATO A ME, MA SOPRATTUTTO PER CIÒ CHE È NASCOSTO IN TE E CHE IO DOVRÒ SCOPRIRE IN FUTURO.
Un vero matrimonio non può avere condizioni; l’unione non può verificarsi solo se le cose vanno bene: per essere VERO deve essere un atto eterno.
La superiorità del sposare Leà ha un’altra ragione più forte: la vita di ogni individuo è un percorso di rettificazione dei propri impulsi; tutti nascono con delle tendenze animalesche, proprio per correggerle. Prima si lavora da soli, ma in seguito questo cammino si fa in due, perché da soli non si riesce a percepire le proprie mancanze da migliorare. Questo, avviene solo grazie al lato di Leà nella vita coniugale, l’elevazione si ottiene di più grazie alla parte nascosta.

P.S.
Se per caso finora il matrimonio non ha valorizzato la parte di Leà, non è mai troppo tardi. C’è sempre tempo di celebrare il VERO matrimonio: Auguri e Mazàl Tov!

NUOVA LEZIONE 28 MN QUESTA SETTIMANA 04/12/2019
CREATURE STATICHE E CREATURE DINAMICHE
Perché Nel Sogno Gli Angeli Salgono Prima Di Scendere


https://www.facebook.com/shlomo.bekhor/posts/10157661933165540

—–

LA BATTAGLIA DELLE PIETRE
Se Perdi, Anch’io Perdo

Una Yeshivà (scuola ebraica) decide di formare una squadra di canottaggio. Sfortunatamente, la squadra non fa altro che perdere, gara dopo gara. Nonostante si esercitassero ogni giorno per ore arrivavano sempre ultimi.
Un giorno il Rosh Yeshivà (il capo della scuola), stanco di perdere sempre, decide di inviare un suo alunno di nome Yankel a spiare una delle migliori squadre di canottaggio avversarie, quella di Harvard. Yankel per giorni, di nascosto, osserva gli allenamenti della squadra di Harvard.
Alla fine Yankel ritorna all’Yeshivà e annuncia con clamore: “Ho scoperto il loro segreto”. “Cosa? Dicci”, volevano tutti sapere.
“Dovremmo avere otto ragazzi a remare e un solo ragazzo che urla, non il contrario”.

Il Litigio

I rabbini nel Talmud si concentrano su un’apparente incoerenza grammaticale nella parashà di Vayetzè. Quando Giacobbe viaggia da Beèr Sheva a Kharàn, fermatosi a riposare per la notte, la Torà ci dice: “Prese dalle PIETRE del luogo, le mise attorno al capo e si coricò in quel luogo” (Genesi 28, 11).
Ma al mattino, quando si sveglia (Genesi 28, 18), leggiamo una storia leggermente diversa: “Giacobbe si alzò la mattina, prese la PIETRA che si era messo attorno al capo e vi fece una stele”.
Nel primo versetto è scritto “pietre”, al plurale; poi nel successivo è scritto “la pietra”, al singolare. Quale delle due ha preso la mattina? Giacobbe usava una singola pietra oppure molte?

Un’adorabile tradizione talmudica, carica di un profondo simbolismo, risponde alla domanda in questo modo: Giacobbe effettivamente prese diverse pietre, ma iniziarono a litigare tra loro. Ogni pietra diceva “Su di me questa persona retta poggerà la testa”. Così Dio le unì tutte assieme in un unico masso, solo così il litigio cessò. Quindi, quando Giacobbe si svegliò, leggiamo, egli “prese la pietra” al singolare, poiché tutte le pietre divennero una cosa sola.
Qual è il simbolismo dietro questa storia? Qual è il significato delle pietre che litigano l’una con l’altra e poi raggiungono uno stato di pace solo quando si fondono in una? Ancora una domanda ovvia: in che modo la fusione di diverse pietre in una singola entità soddisfa le loro rivendicazioni: “Su di me questa persona retta poggerà la sua testa?” Anche dopo che le pietre si sono unite in un’unica grande pietra, la testa di Giacobbe giace ancora solo su una parte della pietra: logicamente come il cuscino è fatto di un unico pezzo, le nostre teste no, perché possono giacere solo su un particolare spazio del cuscino. Quindi perché le altre parti della pietra (il “cuscino” di Giacobbe) non si lamentano che la testa di Giacobbe non giace su di loro?

Noi Siamo Uno

Il Rebbe di Lubàvitch spiega questo aspetto della storia di Giacobbe, con commovente semplicità ed eloquenza: il combattimento tra le pietre non è stato causato perché ognuna voleva la testa dello tzaddik (il giusto); ma perché erano PIETRE SEPARATE. Quando le pietre diventano una, il combattimento cessa, poiché quando ci si sente tutt’uno con l’altra pietra, non importa su quale di essa si appoggia il “capo del giusto”. La tua vittoria è la mia vittoria; la tua sconfitta è la mia sconfitta: perché noi siamo UNA unità.
L’episodio delle pietre, quindi, riflette una profonda verità spirituale sulle relazioni umane. Gran parte dei conflitti – nelle famiglie, nelle comunità, nelle sinagoghe, nelle organizzazioni e nei movimenti – nasce dalla paura di tutti che qualcuno riceverà la “testa” (il comando) mentre tutti gli altri saranno “gettati sotto il treno”.
Tutti noi possiamo percepire il rapporto con l’altro in due modi distinti: come “pietre diverse” o come “pietra singola”. Entrambe sono prospettive valide, interpretazioni corrette della realtà. Tuttavia mentre Il primo approccio è superficiale; il secondo è il frutto di una riflessione e una sensibilità profonda. Superficialmente, siamo davvero separati: “Tu sei tu; io sono io”; “tu vuoi la testa, io voglio la testa”; quindi litighiamo.
A un livello più profondo, però, SIAMO solamente UNO. L’universo, l’umanità, il popolo ebraico – costituiscono un singolo organismo. In questo livello, siamo veramente parte di un’unica essenza. Quindi, non ci deve importare “chi ha la testa”, perché tu ed io siamo uno.

È difficile per molte persone creare spazio per il prossimo, lasciare che qualcun altro accresca il suo splendore. Abbiamo paura che possano “prendere la testa” e farci lo sgambetto. Alcuni passano buona parte del loro tempo ad assicurarsi che gli altri non abbiano successo. Sentono che il loro successo richieda il fallimento degli altri.
Ciò di cui c’è bisogno è un ampliamento della coscienza; una purificazione della percezione, uno sguardo nella mistica interrelazione tra tutti noi. Allora non solo permetteremo, ma arriveremo a celebrare la comparsa dell’altrui magnificenza. Il tuo successo non ostacolerà il mio, perché siamo uno.
Quando si è dotati di una tale consapevolezza, non pensiamo più a come possiamo ostacolare il prossimo, bensì inizieremo a pensare come aiutare gli altri a raggiungere il successo. Differenti “pietre” possono aver bisogno di posizioni diverse, ma non hanno spazio per abusi, manipolazioni, pugnalate alla schiena, maltrattamenti e sfruttamento, perché sono una cosa sola.

Giacobbe, il padre di tutto Israele, che racchiudeva in sé le anime di tutti i suoi figli, ispirò questa unità all’interno delle “pietre” intorno a lui. Inizialmente, le pietre operavano su un livello superficiale di coscienza, litigando su chi sarebbe riuscita a mettersi sotto la testa di Giacobbe. Ma Giacobbe ha ispirato in loro una più profonda consapevolezza, permettendogli di vedersi, per quella notte, come una singola pietra, anche se erano su posizioni diverse.
Nelle nostre notti, abbiamo bisogno di “Giacobbe” che sappia come ispirare le pietre intorno a noi, con questo nuovo stato di coscienza.

Una Storia Di Tre Matzà

Rabbi Eliezer Zusha Portugal (1896-1982), lo Skulener Rebbe, era un maestro chassidico di una piccola città, Sculeni, nel nord-est della Romania. Verso la fine della seconda guerra mondiale, nel marzo del 1945, si trovò insieme ad altri sopravvissuti all’olocausto e agli sfollati, nella città di Czernovitz, in Bucovina governata dalla Russia. (L’esercito russo liberò Bucovina nell’aprile 1944 e completò l’espulsione dei nazisti dalla maggior parte dell’Europa orientale nel gennaio 1945, quando i russi entrarono a Budapest, in Ungheria).

La Pasqua, che sarebbe iniziata il 29 marzo, sarebbe arrivata presto per loro. Alcuni prodotti alimentari della Pasqua ebraica potevano essere forniti solo da organizzazioni caritatevoli. Nondimeno, lo Skulener Rebbe cercò di ottenere del grano che potesse essere trasformato in matzòt adeguatamente custodite e tradizionalmente cotte. A causa dell’opprimente situazione economica degli ebrei, fu in grado di cuocere un numero limitato di queste matzà. Informò allora gli altri leader chassidici della zona sul fatto che avrebbero celebrato seder pasquali allargati, offrendo a ciascuno di loro non più di tre matzòt.

Una settimana prima della Pasqua, il rabbino Moshe Hager, figlio del Seret-Vizhnitzer Rebbe, venne per le matzòt che erano state offerte a suo padre. Dopo aver ricevuto le 3 matzòt assegnate, disse allo Skulener Rebbe: “So che hai mandato a dire che potevi dare solo tre matzòt, ma comunque mio padre mi ha detto di dirti che deve avere sei matzòt”. Lo Skulener Rebbe non fu felice di separarsi da questo prezioso e introvabile cibo, molto richiesto da tanti altri ebrei, tuttavia sentiva di non avere altra scelta che onorare la richiesta, sebbene con riluttanza.

Il giorno prima della Pasqua, il rabbino Moshe Hager tornò allo Skulener Rebbe. “Cosa posso fare per te?” Chiese Skulener Rebbe. Rabbi Moshe rispose: “Voglio restituirti tre matzòt”. “Non capisco”, rispose lo Skulener, “pensavo che tuo padre dovesse assolutamente avere sei matzòt?”
“Mio padre temeva che sarebbe successo questo”, ha spiegato il rabbino Moshe, “perciò ha richiesto tre matzòt extra, per tenerle per te”.
Questo comportamento generoso accade solo quando ci sentiamo “una sola pietra”.

Come si dice in italiano alla fine siamo tutti nella stessa barca.
Il Talmùd Gerosolomita da questo esempio: la mano destra non può mai adirarsi sulla sinistra per un errore che ha fatto, così come il piede sinistro non può essere geloso di un successo ottenuto dal piede destro, perché si parla dello STESSO CORPO.

Come Diventare Una Sola Pietra?

Per maturare questa concezione, iniziare a percepire la vita come una missione collettiva e che esiste UNO SOLO scopo comune di tutti è indispensabile riuscire a superare il proprio ego. Solo così si può entrare nella dimensione dove le tante pietre diventano una sola pietra. Perché tutte portano alla stessa meta di trasformare questo mondo inferiore e impuro in una dimora per l’infinito, rivelando la Sua luce infinita nel mondo.
Per cui questo elevato stato di coscienza si raggiunge quando la vita è collegata al vero motivo della sua esistenza: che l’insieme di tutte le nostre azioni siano finalizzate a realizzare il superiore piano divino della rettificazione ed elevazione del mondo chiamato il TIKUN OLAM (rettificazione del mondo).
In altre parole questo livello di unità si può raggiungere quando si ha una vita dignitosa e piena di significato: questo ci rende capaci di essere profondamente disponibili per un’altra persona, come se il prossimo facesse parte della nostra stessa essenza.

Questa è anche la missione chiave che ci consentirà di creare nel mondo inferiore una dimora per Hashèm “DIRA BETAKHTONIM” e portare la imminente redenzione finale. Come dice il Talmùd dato che la distruzione del Santuario è stata causata da odio gratuito, la redenzione finale avverrà grazie all’amore incondizionato e gratuito verso il prossimo, cosi potremo potremo vedere il terzo Santuario ricostruito, presto nei nostri giorni, amen.

Basato su un articolo di Rabbi YY Jacobson

—–

LA SCALA DI YAKOV E L’INFERNO DEL BAAL SHEM TOV
Come Darwin ha distrutto il potenziale nascosto!

Al seguente link troverai la lezione sulla nostra parashà in formato mp3:

VAYETZE: LA SCALA DI YAKOV E L’INFERNO DEL BAAL SHEM TOV

Al seguente link potrai scaricare la lezione della Parashà di questa settimana sul tuo mobile:

Per ascoltare le altre lezioni sulla nostra parashà cliccare al seguente link:
http://www.virtualyeshiva.it/2019/12/02/vayetze-5775-7-lezioni-precedenti/
—–

Virtual Yeshiva non fa pagare nessuna iscrizione al sito perché la Torà sia accessibile a TUTTI e SEMPRE.
Se ascolti le lezioni aiuta a mantenere viva questa grande opera di divulgazione di Torà.
Aiutando Virtual Yeshiva diventi soci nella diffusione della Torà ed è un segno di riconoscenza per chi insegna e così potremo diffondere insieme molti più valori di vita e insegnamenti.
Le donazioni sono deducibili dalla “decima”.
Per saperne di più si può scrivermi una mail o collegarsi al seguente link:

Voglio aiutare!

——————————————————-

Una Yeshivà (scuola ebraica) decide di formare una squadra di canottaggio. Sfortunatamente, la squadra non fa altro che perdere, gara dopo gara. Nonostante si esercitassero per ore, ogni giorno, arrivavano sempre ultimi.
Un giorno il Rosh Yeshivà (il capo della scuola), stanco di perdere sempre, decide di inviare un suo alunno di nome Yankel a spiare una delle migliori squadre di canottaggio avversarie, quella di Harvard. Yankel per giorni, di nascosto, osserva gli allenamenti della squadra di Harvard.
Alla fine Yankel ritorna all’Yeshiva e annuncia con clamore: “Ho scoperto il loro segreto”. “Cosa? Dicci”, volevano tutti sapere.
“Dovremmo avere otto ragazzi a remare e un solo ragazzo che urla, non il contrario”.
Il Litigio
I rabbini nel Talmud si concentrano su un’apparente incoerenza grammaticale nella parashà di Vayetzé.
Quando Giacobbe viaggia da Beèr Sheva a Kharàn, fermatosi a riposare per la notte, la Torà ci dice: “Prese dalle PIETRE del luogo, se [le] mise attorno al capo e si coricò in quel luogo” (Genesi 28, 11).
Ma al mattino, quando si sveglia (Genesi 28, 18), leggiamo una storia leggermente diversa: Giacobbe si alzò la mattina, prese la PIETRA che si era messo attorno al capo, vi fece una stele”.
Nel primo versetto è scritto “pietre”, al plurale; poi nel successivo è scritto “la pietra”, al singolare. Quale delle due ha preso la mattina? Giacobbe usava una singola pietra oppure molte?

(continua sotto)

Ti riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.

Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor

Virtual Yeshiva
se il talmid non va dal rabbi, il rabbi va dal talmid!

500 Shiurim online divisi per argomenti.
Non perdere l’appuntamento con la parash・ mistica e psicologia nella Tora
Per informazioni: www.virtualyeshiva.it
VAYETZE

Al seguente link troverai la lezione sulla nostra parashà in formato mp3:

Al seguente link potrai scaricare la lezione della Parashà di questa settimana sul tuo mobile:

http://www.virtualyeshiva.it/files/09_11_26_vayetze_yakov_akiva_esilio_2tipi_amore.mp3

QUANDO L’AMORE NON VIENE DALL’AMATA!!!

——–
Virtual Yeshiva non ha nessun finanziatore pubblico.
Virtual Yeshiva non fa pagare nessuna iscrizione al sito perche’ vogliamo che la Tora sia accessibile a tutti. Aiutando Virtual Yeshiva potrete diventare soci nella diffusione della Tora. Sul seguente link puoi trovare come mandare una donazione
http://www.virtualyeshiva.it/voglio-aiutare/La lezione approfondisce questi punti, attingendo da fonti midrashiche, testi di mistica ebraica e khassidici, in una cornice unica, chiara e comprensibile per tutti, alla luce degli insegnamenti dei grandi Maestri dell’ebraismo.

Per ascoltare le altre lezioni sulla nostra parashà cliccare al seguente link:

LA BATTAGLIA DELLE PIETRE

(continua da sopra)
Un’adorabile tradizione talmudica, carica di un profondo simbolismo, risponde alla domanda in questo modo: Giacobbe effettivamente prese diverse pietre, ma iniziarono a litigare tra loro. Ogni pietra diceva “Su di me questa persona retta poggerà la testa”. Così Dio le unì tutte assieme in un unico masso, solo così il litigio cessò. Quindi, quando Giacobbe si svegliò, leggiamo, egli “prese la pietra” al singolare, poiché tutte le pietre divennero una cosa sola.
Qual è il simbolismo dietro questa storia? Qual è il significato delle pietre che litigano l’una con l’altra e poi raggiungono uno stato di pace solo quando si fondono in una? Ancora una domanda ovvia: in che modo la fusione di diverse pietre in una singola entità soddisfa le loro rivendicazioni: “Su di me questa persona retta poggerà la sua testa?” Anche dopo che le pietre si sono unite in un’unica grande pietra, la testa di Giacobbe giace ancora solo su una parte della pietra. (ad esempio il cuscino è fatto di un unico pezzo, ma le nostre teste possono giacere solo su un particolare spazio del cuscino). Quindi perché le altre parti della pietra (il “cuscino” di Giacobbe) non si lamentano che la testa di Giacobbe non giace su di loro?
Noi Siamo Uno
Il Rebbe di Lubàvitch spiega questo aspetto della storia di Giacobbe, con commovente semplicità ed eloquenza:
il combattimento tra le pietre non è stato causato perché ognuna voleva la testa dello tzaddik (il giusto); ma perché erano PIETRE SEPARATE. Quando le pietre diventano una, il combattimento cessa, poiché quando ci si sente tutt’uno con l’altra pietra, non importa su quale di essa si appoggia il “capo del giusto”.
La tua vittoria è la mia vittoria; la tua sconfitta è la mia sconfitta: perché noi siamo UNA unità.
L’episodio delle pietre, quindi, riflette una profonda verità spirituale sulle relazioni umane. Gran parte dei conflitti – nelle famiglie, nelle comunità, nelle sinagoghe, nelle organizzazioni e nei movimenti – nasce dalla paura di tutti che qualcuno riceverà la “testa” (il comando) mentre tutti gli altri saranno “gettati sotto il treno”.
Tutti noi possiamo percepire il rapporto con l’altro in due modi distinti: come “pietre diverse” o come “pietra singola”. Entrambe sono prospettive valide, interpretazioni corrette della realtà. Tuttavia mentre Il primo approccio è superficiale; il secondo è il frutto di una riflessione e una sensibilità profonda. Superficialmente, siamo davvero separati: “Tu sei tu; io sono io”; “tu vuoi la testa, io voglio la testa”; quindi litighiamo.
A un livello più profondo, però, SIAMO solamente UNO. L’universo, lumanità, il popolo ebraico – costituiscono un singolo organismo. In questo livello, siamo veramente parte di un’unica essenza. Quindi, non ci deve importare “chi ha la testa”, perché tu ed io siamo uno.
È difficile per molte persone creare spazio per il prossimo, lasciare che qualcun altro accresca il suo splendore. Abbiamo paura che possano “prendere la testa” e farci lo sgambetto. Alcuni passano buona parte del loro tempo ad assicurarsi che gli altri non abbiano successo. Sentono che il loro successo richieda il fallimento degli altri.
Ciò di cui c’è bisogno è un ampliamento della coscienza; una purificazione della percezione, uno sguardo nella mistica interrelazione tra tutti noi. Allora non solo permetteremo, ma arriveremo a celebrare la comparsa dell’altrui magnificenza. Il tuo successo non ostacolerà il mio, perché siamo uno.
Quando si è dotati di una tale consapevolezza, non pensiamo più a come possiamo ostacolare il prossimo, bensì inizieremo a pensare come aiutare gli altri a raggiungere il successo. Differenti “pietre” possono aver bisogno di posizioni diverse, ma non hanno spazio per abusi, manipolazioni, pugnalate alla schiena, maltrattamenti e sfruttamento, perché sono una cosa sola.
Giacobbe, il padre di tutto Israele, che racchiudeva in sé le anime di tutti i suoi figli, ispirò questa unità all’interno delle “pietre” intorno a lui. Inizialmente, le pietre operavano su un livello superficiale di coscienza, litigando su chi sarebbe riuscita a mettersi sotto la testa di Giacobbe. Ma Giacobbe ha ispirato in loro una più profonda consapevolezza, permettendogli di vedersi, per quella notte, come una singola pietra, anche se erano su posizioni diverse.
Nelle nostre notti, abbiamo bisogno di “Giacobbe” che sappia come ispirare le pietre intorno a noi, con questo nuovo stato di coscienza.
Una Storia Di Tre Matzà
Rabbi Eliezer Zusha Portugal (1896-1982), lo Skulener Rebbe, era un maestro chassidico di una piccola città, Sculeni, nel nord-est della Romania. Verso la fine della seconda guerra mondiale, nel marzo del 1945, si trovò insieme ad altri sopravvissuti all’olocausto e agli sfollati, nella città di Czernovitz, in Bucovina governata dalla Russia. (L’esercito russo liberò Bucovina nell’aprile 1944 e completò l’espulsione dei nazisti dalla maggior parte dell’Europa orientale nel gennaio 1945, quando i russi entrarono a Budapest, in Ungheria).
La Pasqua, che sarebbe iniziata il 29 marzo, sarebbe arrivata presto per loro. Alcuni prodotti alimentari della Pasqua ebraica potevano essere forniti solo da organizzazioni caritatevoli. Nondimeno, lo Skulener Rebbe cercò di ottenere del grano che potesse essere trasformato in matzòt adeguatamente custodite e tradizionalmente cotte. A causa dell’opprimente situazione economica degli ebrei, fu in grado di cuocere un numero limitato di queste matzà. Informò allora gli altri leader chassidici della zona sul fatto che avrebbero celebrato seder pasquali allargati, offrendo a ciascuno di loro non più di tre matzòt.
Una settimana prima della Pasqua, il rabbino Moshe Hager, figlio del Seret-Vizhnitzer Rebbe, venne per le matzòt che erano state offerte a suo padre. Dopo aver ricevuto le 3 matzòt assegnate, disse allo Skulener Rebbe: “So che hai mandato a dire che potevi dare solo tre matzòt, ma comunque mio padre mi ha detto di dirti che deve avere sei matzòt”. Lo Skulener Rebbe non fu felice di separarsi da questo prezioso e introvabile cibo, molto richiesto da tanti altri ebrei, tuttavia sentiva di non avere altra scelta che onorare la richiesta, sebbene con riluttanza.
Il giorno prima della Pasqua, il rabbino Moshe Hager tornò allo Skulener Rebbe. “Cosa posso fare per te?” Chiese Skulener Rebbe. Rabbi Moshe rispose: “Voglio restituirti tre matzòt”. “Non capisco”, rispose lo Skulener, “pensavo che tuo padre dovesse assolutamente avere sei matzòt?”
““Mio padre temeva che sarebbe successo questo”, ha spiegato il rabbino Moshe, “perciò ha richiesto tre matzòt extra, per tenerle per te”.
Questo comportamento generoso accade solo quando ci sentiamo “una sola pietra”.
Come si dice in italiano alla fine siamo tutti nella stessa barca.
Il Talmùd Gerosolomita da questo esempio: la mano destra non può mai adirarsi sulla sinistra per un errore che ha fatto, così come il piede sinistro non può essere geloso di un successo ottenuto dal piede destro, perché si parla dello STESSO CORPO.
Come Diventare Una Sola Pietra?
Per maturare questa concezione, iniziare a percepire la vita come una missione collettiva e che esiste UNO SOLO scopo comune di tutti è indispensabile riuscire a superare il proprio ego. Solo così si può entrare nella dimensione dove le tante pietre diventano una sola pietra. Perché tutte portano alla stessa meta di trasformare questo mondo inferiore e impuro in una dimora per l’infinito, rivelando la Sua luce infinita nel mondo.
Per cui questo elevato stato di coscienza si raggiunge quando la vita è collegata al vero motivo della sua esistenza: che l’insieme di tutte le nostre azioni siano finalizzate a realizzare il superiore piano divino della rettificazione ed elevazione del mondo chiamato il TIKUN OLAM (rettificazione del mondo).
In altre parole questo livello di unità si può raggiungere quando si ha una vita dignitosa e piena di significato: questo ci rende capaci di essere profondamente disponibili per un’altra persona, come se il prossimo facesse parte della nostra stessa essenza.
Questa è anche la missione chiave che ci consentirà di creare nel mondo inferiore una dimora per Hashèm “DIRA BETAKHTONIM” e portare la imminente redenzione finale. Come dice il Talmùd dato che la distruzione del Santuario è stata causata da odio gratuito, la redenzione finale avverrà grazie all’amore incondizionato e gratuito verso il prossimo, cosi potremo potremo vedere il terzo Santuario ricostruito, presto nei nostri giorni, amen.

VAYETZE 5775: PERCHE’ IL GAL (MURETTO) DI YAAKOV ALLUDE A LAG BAOMER?

Riflettendo sul significato spirituale dei vent’anni di pascolo di Ya’akov, capiremo come trovare il giusto equilibrio interiore nella nostra vita. Alcuni punti della lezione : 1.Ya’akòv è il primo ebreo che viene mandato in esilio in un luogo impuro! Il … Continua a leggere

VAYETZE 5771 – LA SCALA DI YAKOV E L’INFERNO DEL BAAL SHEM TOV

La scala di Yaakòv, chiave di lettura per le due identità che ciascuno di noi possiede: l’immagine materiale e quella spirituale. Una lezione, che attraverso la mistica ebraica e gli insegnamenti chassidici, ci porta a scoprire come risvegliare il grande potenziale spirituale dentro di noi. Continua a leggere

VAYETZE 4 LEZIONI VECCHIE + NUOVA

Qui trovi i link di 4 precedenti lezioni su Vayetzè e dal prossimo venerdì si potrà trovare anche la nuova lezione di quest’anno. http://www.virtualyeshiva.it/?s=vayetze Per questa settimana la lezione live non si terrà martedì sera, come solito! Chi volesse seguire in diretta, audio e … Continua a leggere

VAYETZE 5770 – QUANDO L’AMORE NON VIENE DALL’AMATA!!!

Due tipi di amore, quello relativo alla persona stessa e quello che trascende la persona. Analizzando la storia di Rakhèl e Yaakòv e di Rakhèl e Rabbi Akiva, portandoci a comprendere il rapporto tra l’uomo e D-o. Continua a leggere

VAYETZE 5769 – PRIMO ESILIO DELLA STORIA EBRAICA!

Dall’esilio di Yaakoòv, il primo ebreo nel primo esilio della storia del popolo ebraico, si sviluppa un’analisi ricca di approfondimenti kabbalistici sul valore del matrimonio e il significato dell’amore: il sentimento principale che lega due coniugi, e che vede nalla donna un mezzo per dare amore come HaShem. Il grande potenziale di altruismo della donna quando riceve la generosità dell’uomo!

Continua a leggere

VAYETZE 5768 – IL VALORE DI TROVARE MOGLIE!

Dall’esilio di Yaakòv si impara un insegnamento profondo: quando una persona va in basso, immergendosi in condizioni difficili, ha la possibilità di realizzare la propria missione. D-o vuole che noi illuminiamo la materia e la luce ha molto valore nei luoghi più bui. E’ per tale ragione che il popolo di Isreale si sviluppa in esilio, in una condizione impura, a contatto con il materialismo di Lavàn. Continua a leggere

VAYETZE 5766 – STRATEGIE PER L’ESILIO!

Yaakòv, il primo ebreo che si allontana dalla sua terra e del suo popolo, ci lascia con il suo comportamento un grande insegnamento valido per tutte le generazioni in esilio. Come mantenere viva la spiritualità quando si compiono discese in luoghi oscuri. Continua a leggere

Tags:

Search


Categories


Recent Posts