Shabbàth VAYIKRÀ Zachor vigilia di Purìm 5784: 9 LEZIONI
Questo Shabbàt 23 Marzo 2024, 13 del mese di ADÀR Shenì 5784 leggeremo la Parashà di Vayikrà:
I° Sefer Lev 1-5, 26
e la Parashà di Zachor:
II° Sefer Deut. 25: 17-19
Si leggerà l’HAFTARÀ:
Italiani /Sefarditi: I Sam. 15: 1-34
Milano/Torino/Ashkenaziti: I Sam. 15: 2-34
Vigilia di Purìm
Anche quest’anno ci avviciniamo alla gioiosa festa di Purìm (sabato sera – domenica, mentre il digiuno è stato gioved 21/03). Tuttavia, la storia di Purìm quest’anno, dopo i dolorosi eventi che hanno seguito il 7 ottobre, assume un “sapore” particolare. Il rivolgimento delle sorti accaduto a Purìm non è un fatto relegato agli albori di un lontano passato. Questa è una delle “promesse” e speranze della vicenda di Purìm, anche per noi oggi.
In questo scritto, il Rebbe ci consente di comprendere meglio l’attualità di questo giorno e dei suoi insegnamenti. Per prima cosa nella Meghillà di Ester vi è in realtà una potente presenza di Hashèm, ma in una forma, anch’essa pienamente coerente con Purìm, ossia nascosta. Per giunta l’allusione ad Hashèm e in particolare alla sua immanente regalità avviene attraverso uno dei protagonisti della Meghillà, il re Akhashveròsh (spiegato in seguito).
Dopo aver rifletto su questo si potrà trarre un importante insegnamento che dal passato arriva fino ai nostri giorni. Buona lettura!
UNA LEZIONE DAL PASSATO
Oggi come Ieri
I nostri Saggi, nel versetto “Oggi il Signore, il tuo Dio, te lo comanda”, dicono che tutte le questioni della Torà, anche gli eventi del passato “dovrebbero essere nuovi ogni giorno ai nostri occhi, come se fossimo comandati oggi” (Meghillà 2a). Quindi, non solo le questioni della Torà forniscono una lezione per il presente, ma lo fanno con la stessa forza di quando sono avvenuti nel passato, come se accadessero per la prima volta adesso, oggi.
Una delle cose che sottolinea l’idea che questi fatti “passati” in realtà sono “nuovi” è proprio Purìm. La Meghillà afferma (9, 28) “Questi giorni saranno ricordati e osservati per ogni generazione, ogni famiglia, ogni provincia e ogni città; e che questi giorni di Purìm non si allontaneranno dai Giudei, né il loro ricordo perirà dalla loro discendenza”. Vediamo quindi che oltre all’insegnamento innovativo consueto, riguardante tutte le questioni della Torà, quello di Purìm ha un’enfasi particolare tanto da essere considerato “nuovo” ogni anno.
Il Baal Shem Tov interpreta la sentenza della Mishnà (Meghillà 2,1) in questo modo: “Chiunque legge la Meghillà al contrario non ha adempiuto al suo obbligo”, cioè chiunque legge la Meghillà, pensando che sia un evento del passato, “al contrario”, non ha adempiuto al suo dovere, perché ogni anno si ripete la luce che si è rivelata il primo Purìm quindi la festa deve essere vissuta come “nuova” – come in origine. Tuttavia, qui sembrerebbe che a una persona venga chiesto di eseguire un comportamento contraddittorio: da un lato, deve comprendere il significato di ciò che legge nella Meghillà, dove si afferma chiaramente che ciò accadde “ai giorni di Akhashveròsh” migliaia di anni prima; dall’altro lato, gli viene chiesto di rendersi conto che, sebbene sia un evento accaduto nel passato, esso deve essere letteralmente “nuovo” per lui. Come può una persona fare entrambe le cose?
Il Sovrano dei Tempi
La risposta viene dal nome “Akhashveròsh”. Il Talmùd spiega che Akhashveròsh è un acronimo di due parole: akharìt vereshìt, la fine e l’inizio; ovvero colui al quale gli appartiene l’“inizio” e “fine”. L’idea di regalità su questa terra deriva dal concetto di Regalità in Alto, il concetto di Re d’Israele deriva dal concetto del Re dei Re, ossia Dio; mentre il concetto di un Re non ebreo deriva dall’idea di un re tra gli ebrei. Quindi, la regalità di Akhashveròsh deriva dal livello della Regalità Superiore: Colui al quale appartengono “l’inizio” e la “fine”.
“L’inizio” si riferisce all’inizio del tempo (cioè il passato) e la “fine” si riferisce a tutto il tempo successivo (cioè presente e futuro). Dio è alluso e “compreso” nel nome Akhashveròsh, perché “l’inizio e la fine” appartengono a Lui: Dio è l’unico Maestro del tempo e pertanto sia l’inizio che la fine del tempo (passato, presente e futuro) sono Uno. Questo lo si può comprende poiché le due parole, “Reshìt” e “Akharìt”, sono all’interno di una stessa parola, Akhashveròsh, e ciò indica che i loro concetti separati (passato, presente e futuro) sono uniti.
Pertanto, dato che la Meghillà allude al fatto che il nome di Dio è Akhashveròsh, ne consegue che tutti i concetti della Meghillà sono legati a questa idea, ossia che passato, presente e futuro sono Uno. Anche un evento che è avvenuto nel passato, “Reshìt”, si applica al presente e al futuro “Akharìt”; e poiché sono scritti come una sola parola “Akhashveròsh”, deve applicarsi al presente e al futuro esattamente nello stesso modo in cui lo era in origine, all’”inizio”. Quindi non c’è contraddizione tra leggere e comprendere la Meghillà letteralmente (che racconta un evento nel lontano passato) e leggere la Meghillà come se fosse “nuova”. Perché nonostante accada “all’inizio” (passato), l’evento si estende anche alla “fine” (presente e futuro), come è accaduto originariamente: la sintesi di “inizio” e “fine” in un’unica parola, Akhashveròsh.
Questa è il significato della frase “questi giorni sono ricordati e conservati”. Quando leggiamo la Meghillà e “ricordiamo” tutti gli eventi del passato, dovremmo capire che si tratta di un modo per “conservarli”: il loro effetto è nuovo, come lo era in origine. In parole povere, ciò significa che proprio come Purìm in origine segna la trasformazione della guerra, il 13 di Adàr, in “luce e gioia, felicità e onore”, con la celebrazione di Purìm il 14 di Adàr, così avviene anche oggi. Ciò viene effettuato mediante il servizio di Purìm: la lettura della Meghillà e delle altre mitzvòt della giornata.
Quindi, quale evento del passato possiamo e dobbiamo preservare e ricordare come se fosse accaduto oggi?
Lezioni Eterne
Il miracolo di Purìm sembra iniziare dal capitolo relativo all’ira di Hamàn contro Mordekhai, che fu la ragione del suo decreto contro tutti gli ebrei, che portò al miracolo di Purìm. Perché allora la Meghillà ci racconta (in modo così dettagliato) gli eventi precedenti: il motivo dell’elezione di Ester a regina e la storia di Mordekhai “seduto alla porta del re”. A quei tempi questo non era un evento insolito. Troviamo altri esempi di ebrei, prima del tempo di Mordekhai, che erano consiglieri reali. Ad esempio, Daniel era il consigliere di Nabucodonosor.
Pertanto, dato che la Torà è scritta nello stile più conciso possibile, dobbiamo dire che questi eventi raccontati in grande dettaglio ci insegnano (oltre alla catena degli eventi raccontati nella Meghillà) lezioni di halakhà. Come spiegato sopra, la lettura della Meghillà è una lezione eterna.
La Festa del Re
Una delle lezioni della Meghillà viene dalla festa preparata dal re Akhashveròsh, durante la quale egli si assicurò che tutto fosse fatto “secondo il desiderio di ogni uomo”. Vale a dire che se Mordekhai l’Ebreo, o chiunque del suo popolo, fosse venuto alla festa, avrebbe avuto cibo e bevande kosher. Nonostante la potenza e la grandezza di Akhashveròsh e, nonostante, la posizione degli ebrei di essere “sparsi tra le nazioni” del suo regno, egli voleva assicurarsi che ci fosse cibo kosher per gli ebrei che volevano venire al banchetto.
La lezione che ne deriva a noi oggi è la seguente: un ebreo può pensare che quando si trova nella capitale di un paese, alla “porta del re”, cioè una posizione di influenza nel governo, non dovrebbe mostrare apertamente il suo essere ebreo. Non dovrebbe, chiedendo cibo kosher, dimostrare che la sua condotta è diversa da quella delle altre persone. Perché dovrebbe permettersi di “distinguersi”? Dato che in esilio il popolo ebraico è solo una piccola minoranza, dispersa tra le nazioni, perché ad esempio, per quanto riguarda la kasherùt, dovrebbe mostrare il suo ebraismo chiedendo cibi kosher, dimostrando così che non mangia il cibo di tutti gli altri. Perché toccare la sensibilità dei non ebrei mostrando che “la religione ebraica è diversa da quella di tutti i popoli?!”
La Meghillà ci insegna diversamente: anche quando un ebreo è nella capitale e sa che uno dei ministri è “Hamàn” che desidera fare del male agli ebrei, deve comunque mostrare apertamente la sua ebraicità e chiedere cibo kosher, “secondo il desiderio di ogni uomo!”.
Il desiderio di ogni uomo, infatti, è quello di dimostrare di essere un uomo integro. Se si vergogna di essere un “uomo”, si vergogna della sua identità. Lo stesso vale nel nostro caso: un ebreo deve essere orgoglioso della sua identità e non deve cercare di nasconderla.
Il Vincente Orgoglio Ebraico Ovunque
Dio lo ha creato ebreo, e quindi non si può mettere in discussione la sensibilità di nessuno agendo in conformità con il modo in cui è stato creato. E poiché i non ebrei sanno comunque che è ebreo, cercare di nasconderlo non servirà a nulla. Non solo non riceverà onore dai non ebrei, così facendo, ma questi lo considereranno un “truffatore” che cerca di nascondere la verità. In effetti, se il proprio desiderio è entrare nei “circoli giusti” e quindi avere successo “alla porta del re”, il modo per farlo è mostrare il proprio giudaismo. Quindi, anche quando si è seduti alla “tavola del re”, si deve chiedere che gli venga dato cibo kosher. Dio, il Re dei re, ha decretato che quando un ebreo agisce in questo modo, alla fine le sue richieste verranno soddisfatte.
La condotta sopra descritta è applicabile a tutti gli ebrei, indipendentemente dal fatto che si trovi nella “porta del re” della capitale o di un’altra città, o se sia semplicemente la “porta del re” di casa sua, il suo quartiere ecc. Un detto ben noto è che “la casa di una persona è il suo castello (palazzo)” – e quindi esiste una “porta del re” che riguarda la sua casa privata, scuola, quartiere, affari ecc. La Meghillà ci insegna che ovunque egli si trovi, un ebreo dovrebbe comportarsi apertamente secondo la sua religione. Solo, in questo modo egli avrà maggior successo in tutte le sue questioni, trovando anche il favore dei non ebrei.
Anima vs Corpo
Quanto sopra vale non solo per coloro che vedono la sua condotta, ma anche per la persona stessa. Ci sono alcune cose che una persona può cambiare, ad esempio, il suo aspetto esteriore, cambiando i vestiti; ma ve ne sono altre che è impossibile cambiare: la sua stessa essenza, la sua anima. Nonostante i suoi pensieri, le sue parole o le sue azioni, la sua anima donata da Dio rimane la sua essenza per tutta la vita.
È vero, una persona ha libera scelta nella condotta concreta (nel pensiero, nella parola e nelle azioni). Ma scegliere di comportarsi in modo sbagliato equivale a lottare contro la propria anima. L’anima è sempre in uno stato di purezza e di per sé non può sopportare cibo non kosher e comportamenti antitetici allo spirito dell’ebraismo. Quindi, se un ebreo sceglie la strada sbagliata e combatte contro la sua anima, sta creando una crisi di personalità: la sua anima lo tira da una parte e il suo corpo dalla parte opposta, il che causerà danni alla sua anima. E poiché l’uomo non può cambiare la sua essenza, la sua condotta deve essere consona alla sua anima, e allora l’anima lo aiuterà in tutte le sue attività. Avrà allora una personalità sana e armoniosa.
Contro Hamàn? No, per Hashèm
Coloro che sostengono che è impossibile ottenere qualcosa con i non ebrei se allo stesso tempo si mostra una condotta diversa dalla loro, dicono la stessa cosa del malvagio Hamàn! Hamàn sosteneva che gli ebrei non potevano comportarsi in modo tale che “la loro religione fosse diversa da quella di tutti i popoli”, pur essendo “diffusi e dispersi tra le nazioni”.
Questo è un paradosso, perché se ci riflettiamo bene, il pensiero di Hamàn è contraddittorio, poiché afferma da un lato che il popolo ebraico non poteva comportarsi in modo tale che “la loro religione fosse diversa da quella di tutti i popoli”; dall’altro che se il popolo si comporta in questo modo, non ha il diritto di vivere nel paese.
Ciononostante, ci dice la Meghillà, gli ebrei si comportarono come Mordekhai: “non si inchinò né si prostrò”, nemmeno alla “porta del re”. Gli ebrei, infatti, non si comportarono così solo per combattere contro Hamàn, ma per agire come ebrei in consonanza con la direttiva di Dio. E, pertanto, ogni volta che gli israeliti continueranno a comportarsi così, tutti gli incitamenti contro gli ebrei saranno solo temporanei e alla fine la verità trionferà. Come leggiamo nella Meghillà, che la condotta orgogliosa di una sola persona Mordekhai, questo gli fece guadagnare onore al punto che “il re tolse il suo anello ad Hamàn e lo diede a Mordekhai”.
Possa essere la volontà di Dio che la suddetta lezione della Meghillà permea la condotta di ogni ebreo. Ciò garantisce che anche in esilio ogni ebreo diventi un “deputato del Re”, ciascuno al proprio livello.
Che tutti noi possiamo ottenere le benedizioni di Dio, un aumento di “luce e gioia, letizia e onore” in questa festa di Purìm. E, come afferma il Talmud (Meghillà 6b), “un periodo di redenzione si avvicina a un altro” – immediatamente dopo la redenzione di Purìm, verrà la redenzione futura, di cui si afferma “come nei giorni della tua uscita da Egitto, ti mostrerò meraviglie”.
Tratto dai discorsi del Lubavitcher Rebbe, Rabbi Menachem M. Schneerson Purìm, 5742 (1982)
La risposta viene dal nome “Akhashveròsh”. Il Talmùd spiega che Akhashveròsh è un acronimo di due parole: akharìt vereshìt, la fine e l’inizio; ovvero colui al quale gli appartiene l’“inizio” e “fine”. L’idea di regalità su questa terra deriva dal concetto di Regalità in Alto, il concetto di Re d’Israele deriva dal concetto del Re dei Re, ossia Dio; mentre il concetto di un Re non ebreo deriva dall’idea di un re tra gli ebrei. Quindi, la regalità di Akhashveròsh deriva dal livello della Regalità Superiore: Colui al quale appartengono “l’inizio” e la “fine”.
“L’inizio” si riferisce all’inizio del tempo (cioè il passato) e la “fine” si riferisce a tutto il tempo successivo (cioè presente e futuro). Dio è alluso e “compreso” nel nome Akhashveròsh, perché “l’inizio e la fine” appartengono a Lui: Dio è l’unico Maestro del tempo e pertanto sia l’inizio che la fine del tempo (passato, presente e futuro) sono Uno. Questo lo si può comprende poiché le due parole, “Reshìt” e “Akharìt”, sono all’interno di una stessa parola, Akhashveròsh, e ciò indica che i loro concetti separati (passato, presente e futuro) sono uniti.
Pertanto, dato che la Meghillà allude al fatto che il nome di Dio è Akhashveròsh, ne consegue che tutti i concetti della Meghillà sono legati a questa idea, ossia che passato, presente e futuro sono Uno. Anche un evento che è avvenuto nel passato, “Reshìt”, si applica al presente e al futuro “Akharìt”; e poiché sono scritti come una sola parola “Akhashveròsh”, deve applicarsi al presente e al futuro esattamente nello stesso modo in cui lo era in origine, all’”inizio”. Quindi non c’è contraddizione tra leggere e comprendere la Meghillà letteralmente (che racconta un evento nel lontano passato) e leggere la Meghillà come se fosse “nuova”. Perché nonostante accada “all’inizio” (passato), l’evento si estende anche alla “fine” (presente e futuro), come è accaduto originariamente: la sintesi di “inizio” e “fine” in un’unica parola, Akhashveròsh.
Questa è il significato della frase “questi giorni sono ricordati e conservati”. Quando leggiamo la Meghillà e “ricordiamo” tutti gli eventi del passato, dovremmo capire che si tratta di un modo per “conservarli”: il loro effetto è nuovo, come lo era in origine. In parole povere, ciò significa che proprio come Purìm in origine segna la trasformazione della guerra, il 13 di Adàr, in “luce e gioia, felicità e onore”, con la celebrazione di Purìm il 14 di Adàr, così avviene anche oggi. Ciò viene effettuato mediante il servizio di Purìm: la lettura della Meghillà e delle altre mitzvòt della giornata.
Quindi, quale evento del passato possiamo e dobbiamo preservare e ricordare come se fosse accaduto oggi?
Il miracolo di Purìm sembra iniziare dal capitolo relativo all’ira di Hamàn contro Mordekhai, che fu la ragione del suo decreto contro tutti gli ebrei, che portò al miracolo di Purìm. Perché allora la Meghillà ci racconta (in modo così dettagliato) gli eventi precedenti: il motivo dell’elezione di Ester a regina e la storia di Mordekhai “seduto alla porta del re”. A quei tempi questo non era un evento insolito. Troviamo altri esempi di ebrei, prima del tempo di Mordekhai, che erano consiglieri reali. Ad esempio, Daniel era il consigliere di Nabucodonosor.
Pertanto, dato che la Torà è scritta nello stile più conciso possibile, dobbiamo dire che questi eventi raccontati in grande dettaglio ci insegnano (oltre alla catena degli eventi raccontati nella Meghillà) lezioni di halakhà. Come spiegato sopra, la lettura della Meghillà è una lezione eterna.
Una delle lezioni della Meghillà viene dalla festa preparata dal re Akhashveròsh, durante la quale egli si assicurò che tutto fosse fatto “secondo il desiderio di ogni uomo”. Vale a dire che se Mordekhai l’Ebreo, o chiunque del suo popolo, fosse venuto alla festa, avrebbe avuto cibo e bevande kosher. Nonostante la potenza e la grandezza di Akhashveròsh e, nonostante, la posizione degli ebrei di essere “sparsi tra le nazioni” del suo regno, egli voleva assicurarsi che ci fosse cibo kosher per gli ebrei che volevano venire al banchetto.
La lezione che ne deriva a noi oggi è la seguente: un ebreo può pensare che quando si trova nella capitale di un paese, alla “porta del re”, cioè una posizione di influenza nel governo, non dovrebbe mostrare apertamente il suo essere ebreo. Non dovrebbe, chiedendo cibo kosher, dimostrare che la sua condotta è diversa da quella delle altre persone. Perché dovrebbe permettersi di “distinguersi”? Dato che in esilio il popolo ebraico è solo una piccola minoranza, dispersa tra le nazioni, perché ad esempio, per quanto riguarda la kasherùt, dovrebbe mostrare il suo ebraismo chiedendo cibi kosher, dimostrando così che non mangia il cibo di tutti gli altri. Perché toccare la sensibilità dei non ebrei mostrando che “la religione ebraica è diversa da quella di tutti i popoli?!”
La Meghillà ci insegna diversamente: anche quando un ebreo è nella capitale e sa che uno dei ministri è “Hamàn” che desidera fare del male agli ebrei, deve comunque mostrare apertamente la sua ebraicità e chiedere cibo kosher, “secondo il desiderio di ogni uomo!”.
Il desiderio di ogni uomo, infatti, è quello di dimostrare di essere un uomo integro. Se si vergogna di essere un “uomo”, si vergogna della sua identità. Lo stesso vale nel nostro caso: un ebreo deve essere orgoglioso della sua identità e non deve cercare di nasconderla.
Dio lo ha creato ebreo, e quindi non si può mettere in discussione la sensibilità di nessuno agendo in conformità con il modo in cui è stato creato. E poiché i non ebrei sanno comunque che è ebreo, cercare di nasconderlo non servirà a nulla. Non solo non riceverà onore dai non ebrei, così facendo, ma questi lo considereranno un “truffatore” che cerca di nascondere la verità. In effetti, se il proprio desiderio è entrare nei “circoli giusti” e quindi avere successo “alla porta del re”, il modo per farlo è mostrare il proprio giudaismo. Quindi, anche quando si è seduti alla “tavola del re”, si deve chiedere che gli venga dato cibo kosher. Dio, il Re dei re, ha decretato che quando un ebreo agisce in questo modo, alla fine le sue richieste verranno soddisfatte.
La condotta sopra descritta è applicabile a tutti gli ebrei, indipendentemente dal fatto che si trovi nella “porta del re” della capitale o di un’altra città, o se sia semplicemente la “porta del re” di casa sua, il suo quartiere ecc. Un detto ben noto è che “la casa di una persona è il suo castello (palazzo)” – e quindi esiste una “porta del re” che riguarda la sua casa privata, scuola, quartiere, affari ecc. La Meghillà ci insegna che ovunque egli si trovi, un ebreo dovrebbe comportarsi apertamente secondo la sua religione. Solo, in questo modo egli avrà maggior successo in tutte le sue questioni, trovando anche il favore dei non ebrei.
Quanto sopra vale non solo per coloro che vedono la sua condotta, ma anche per la persona stessa. Ci sono alcune cose che una persona può cambiare, ad esempio, il suo aspetto esteriore, cambiando i vestiti; ma ve ne sono altre che è impossibile cambiare: la sua stessa essenza, la sua anima. Nonostante i suoi pensieri, le sue parole o le sue azioni, la sua anima donata da Dio rimane la sua essenza per tutta la vita.
È vero, una persona ha libera scelta nella condotta concreta (nel pensiero, nella parola e nelle azioni). Ma scegliere di comportarsi in modo sbagliato equivale a lottare contro la propria anima. L’anima è sempre in uno stato di purezza e di per sé non può sopportare cibo non kosher e comportamenti antitetici allo spirito dell’ebraismo. Quindi, se un ebreo sceglie la strada sbagliata e combatte contro la sua anima, sta creando una crisi di personalità: la sua anima lo tira da una parte e il suo corpo dalla parte opposta, il che causerà danni alla sua anima. E poiché l’uomo non può cambiare la sua essenza, la sua condotta deve essere consona alla sua anima, e allora l’anima lo aiuterà in tutte le sue attività. Avrà allora una personalità sana e armoniosa.
Coloro che sostengono che è impossibile ottenere qualcosa con i non ebrei se allo stesso tempo si mostra una condotta diversa dalla loro, dicono la stessa cosa del malvagio Hamàn! Hamàn sosteneva che gli ebrei non potevano comportarsi in modo tale che “la loro religione fosse diversa da quella di tutti i popoli”, pur essendo “diffusi e dispersi tra le nazioni”.
Questo è un paradosso, perché se ci riflettiamo bene, il pensiero di Hamàn è contraddittorio, poiché afferma da un lato che il popolo ebraico non poteva comportarsi in modo tale che “la loro religione fosse diversa da quella di tutti i popoli”; dall’altro che se il popolo si comporta in questo modo, non ha il diritto di vivere nel paese.
Ciononostante, ci dice la Meghillà, gli ebrei si comportarono come Mordekhai: “non si inchinò né si prostrò”, nemmeno alla “porta del re”. Gli ebrei, infatti, non si comportarono così solo per combattere contro Hamàn, ma per agire come ebrei in consonanza con la direttiva di Dio. E, pertanto, ogni volta che gli israeliti continueranno a comportarsi così, tutti gli incitamenti contro gli ebrei saranno solo temporanei e alla fine la verità trionferà. Come leggiamo nella Meghillà, che la condotta orgogliosa di una sola persona Mordekhai, questo gli fece guadagnare onore al punto che “il re tolse il suo anello ad Hamàn e lo diede a Mordekhai”.
Che tutti noi possiamo ottenere le benedizioni di Dio, un aumento di “luce e gioia, letizia e onore” in questa festa di Purìm. E, come afferma il Talmud (Meghillà 6b), “un periodo di redenzione si avvicina a un altro” – immediatamente dopo la redenzione di Purìm, verrà la redenzione futura, di cui si afferma “come nei giorni della tua uscita da Egitto, ti mostrerò meraviglie”.
LADRI SINCERI
Anche oggi vi proponiamo due brani estratti dal Libro “Saggezza Quotidiana”. La saggezza
chassidica del Rebbe e dei suoi predecessori permette a tutti noi di riuscire, con una certa facilità, ad
“assaggiare” l’aspetto nascosto della Torà.
I brani scelti per voi trattano alcuni insegnamenti che possiamo apprendere dai “sacrifici”. Agli occhi
dei più, il concetto stesso di “sacrificio”, inteso come offrire un animale, può sembrare una pratica
che poco o nulla a che fare con un percorso spirituale. Invece, la chassidut ci spiega come, anche oggi,
possiamo comprendere dal complicato sistema delle offerte del Tabernacolo molti insegnamenti utili
nella nostra quotidiana lotta per rivelare il divino in noi e in questo mondo di materia.
Conoscere il Nostro Animale Interiore
Il primo brano tratta di un concetto forse poco noto. Spesso siamo portati a credere che compiere
volontariamente, quindi consapevolmente, una azione sbagliata sia più grave di compierla
intenzionalmente. Spesso, infatti, siamo portati a credere che mettendo la nostra consapevolezza in
un determinato comportamento inappropriato, in qualche modo, lo rendiamo “più grave”. Questa idea,
da un certo unto di vista, è indubbiamente vera. Tuttavia, la Torà ci insegna che ogni cosa nella vita
andrebbe vista sotto diversi aspetti.
Compiere inconsapevolmente un’azione sbagliata, denota una mancanza di consapevolezza di quello
che esiste dentro di noi: una persona avara, che non sa di esserlo, potrebbe addirittura credere,
illudendosi, di essere generosa; oppure una persona poco rispettosa del prossimo, potrebbe illudersi
di essere fin troppo gentile ed educato con i colleghi di lavoro o con i membri della sua famiglia, ad
esempio.
Pertanto, la gravità dei misfatti involontari non consiste tanto nel fatto che l’azione commessa sia più
grave di una consapevole e volontaria, ma nel fatto di non conoscere una determinata mancanza o
difetto da cui scaturisce quel determinato comportamento sbagliato. Quindi, come possiamo
correggere qualcosa di cui non conosciamo l’esistenza?
Per questo la Torà prescrive un sacrificio appositamente destinato ad espiare i cosiddetti “peccati
intenzionali”, l’offerta di espiazione. La logica di questo è che non abbiamo bisogno di espiare il
misfatto stesso, poiché è stato fatto involontariamente. Invece, quello di cui abbiamo veramente
bisogno è espiare tutta la precedente condotta e il lassismo che ha plasmato il nostro sé interiore in
“qualcosa” i cui interessi sono contrari alla volontà di Hashèm e che spontaneamente e
involontariamente Lo respingono. Non a caso la parola ebraica utilizzata per indicare “il sacrificio”
o “offerta” è korbàn che significa “avvicinarsi”.
Restituire Cosa?
Il secondo brano è intimamente legato a quanto detto sopra. La Torà prevede che attraverso un certo
tipo di offerta, quella di “colpevolezza”, è possibile espiare il furto. Affinché questo sacrificio possa
espiare il peccato è necessario che il ladro restituisca prima l’oggetto che ha rubato. Questo gesto, la
restituzione del “malloppo” rubato, simboleggia il “pentimento”, la teshuvà che è indispensabile per
rettificare le nostre mancanze.
Restituire le cose rubate al loro legittimo proprietario, significa riorientare tutto ciò che è stato dato
alla “causa del male” e indirizzarla, restituirla, verso il Divino. Questa è l’essenza del pentimento:
riportare il mondo al suo naturale stato divino.
Tuttavia, questo fatto spiega più chiaramente la problematicità di quanto detto sopra, circa i “peccati”
involontari. Come possiamo, infatti, pentirci, ossia “restituire il mal tolto” se non sappiamo di essere
dei “ladri” di aver rubato qualcosa, ossia di aver peccato?
Da ciò possiamo imparare come uno dei lavori più importanti che dovremmo fare, per rettificare noi
stessi, è quello della conoscenza di noi: tirare fuori dal nostro subconscio tutto ciò che nascondiamo.
Occorre, infatti, riuscire ad essere sinceri e “leali”, prima di tutto con noi stessi, per quanto possa
essere doloroso e difficile ricordarci dei nostri limiti e mancanze. Solo in questo modo possiamo
veramente avvicinarci ad Hashèm attraverso la teshuvà.
Buon proseguo di lettura e un caro saluto a tutti voi.
Vayikrà
Sacrifici
Levitico da 1, 1 fino a 5, 26
Il Levitico, il terzo libro della Torà, contiene pochissima “azione”; poiché è principalmente dedicato
alle norme che regolano il rapporto tra Hashèm, Israèl e ogni singola persona. I primi due capitoli e
mezzo descrivono le procedure per offrire sacrifici. La prima parashà (sezione) del libro di Levitico
si apre con Hashèm che “chiama” (vayikrà in ebraico) Moshè, chiedendogli di entrare nel Tabernacolo
in modo da insegnargli alcune regole.
Vayikrà 4, 1–26
Successivamente alle procedure per le offerte di ascensione e di pace, Hashèm insegna a Moshè anche
quelle per le offerte di espiazione. Questi ultimi sacrifici sono destinati principalmente per i misfatti
non intenzionali.
Peccati Involontari
[Hashèm disse a Moshè] «Se una persona trasgredisce involontariamente». (4, 2)
La ragione per cui i sacrifici erano offerti per i misfatti non intenzionali è perché i nostri interessi e le
aspirazioni più profonde – così come le nostre aspirazioni e preoccupazioni più intime – sono rivelate
in modo specifico dalle nostre azioni impulsive. Attraverso queste azioni il nostro sé, “il subconscio”,
emerge involontariamente. Pertanto, non abbiamo bisogno di espiare il misfatto stesso, poiché è stato
fatto involontariamente. Invece, quello di cui abbiamo veramente bisogno è espiare tutta la precedente
condotta e il lassismo che ha plasmato il nostro sé interiore in “qualcosa” i cui interessi sono contrari
alla volontà di Hashèm e che spontaneamente e involontariamente Lo respingono.
In questa prospettiva, i nostri misfatti involontari giustificano una maggiore espiazione, rispetto a
quelli intenzionali, poiché i primi indicano che abbiamo un profondo attaccamento nel nostro
subconscio a un genere di comportamento contrario alla volontà di Hashèm. Invece, i misfatti
intenzionali e non quelli involontari, al contrario di quello che parrebbe logico, indicano che non
risentiamo di questo difetto nascosto.
*
Uno dei peccati espiati dall’offerta di colpevolezza è il furto. Affinché questo sacrificio possa espiare
il peccato, tuttavia, è necessario che il ladro restituisca prima l’oggetto che ha rubato.
Restituzione delle Merci Spiritualmente Rubate
[Hashèm disse a Moshè che se un ladro vuole espiare il suo peccato, offrendo un sacrificio per
espiare la sua colpa] Dovrà [prima] restituire l’oggetto che ha rubato. (5, 23)
Gli “articoli rubati” dal punto di vista spirituale sono tutto ciò che abbiamo “rubato” ad Hashèm con
il peccato a beneficio delle forze del male, sia che si tratti di un oggetto fisico, di un momento del
nostro tempo o di un nostro talento.
Il nostro compito nella vita è quello di restituire tutte le cose rubate in tutto il mondo al loro legittimo
proprietario, ossia riorientare tutto ciò che è stato dato alla “causa del male” verso il Divino; a
cominciare da ciò che noi stessi abbiamo “rubato” ad Hashèm con i nostri misfatti. Questa è l’essenza
del pentimento: riportare il mondo al suo naturale stato divino. Attraverso il pentimento è
ulteriormente possibile raggiungere livelli ancora più elevati di quelli che avevamo prima di peccare.
לעילוי נשמת אבי מורי ורבי ועטרת ראשי
יעקב בן שלמה ורחל
In memoria di mio padre Yaakov ben Shelomo
SACRIFICIO CON AUTOSTIMA
Andare Oltre Il SÉ
Un uomo d’affari di grande successo incontra il suo nuovo genero. “Amo mia figlia e ora ti do il benvenuto in famiglia”, disse l’uomo. “Per mostrarti quanto ci prendiamo cura di te, ti faccio socio con il 50%, della mia attività. Tutto ciò che devi fare è andare in fabbrica ogni giorno e controllare l’attività”.
Il genero lo interruppe dicendo: “Ma io odio le fabbriche, non sopporto il rumore”.
“Capisco!”, rispose il suocero. “Bene, allora lavorerai in ufficio e ne diventerai il responsabile.”
“Odio i lavori d’ufficio”, disse il genero. “Non posso sopportare di rimanere bloccato dietro una scrivania tutto il giorno”.
“Aspetta un minuto”, disse il suocero. “Ti ho appena fatto diventare comproprietario di un’attività per farti fare tanti soldi, ma tu cosa mi rispondi… che non ti piacciono le fabbriche e non vuoi lavorare in un ufficio. Che cosa dovrei fare di te?”.
“Facile”, disse il giovane, “dammi direttamente i soldi…”.
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Da Parte Di Te
La porzione della Torà di questa settimana, Vayikrà, regola le leggi dei sacrifici che costituivano una parte essenziale del servizio nel Tabernacolo e successivamente nel Tempio Santo di Gerusalemme. Sono passati quasi 2000 anni da quando il Tempio fu distrutto e i sacrifici animali terminarono, tuttavia il loro messaggio rimane senza tempo e pertinente, anche oggi.
E come spesso accade nello studio biblico, un apparente difetto grammaticale nasconde dimensioni psicologiche ed esistenziali inaspettate e stupefacenti.
“Parla ai figli d’Israele (Dio dice a Mosè all’inizio di Vayikrà) e dì loro: Un uomo che sacrificherà tra di voi un sacrificio a Dio; da una mucca, da un toro, e dalle pecore offrirai la tua offerta” (Vayikrà 1, 2).
La costruzione della frase sembra scorretta. Nella Torà avrebbe dovuto scrivere: “Un uomo tra voi che porterà un sacrificio a Dio”. Non: “Un uomo che sacrificherà tra di voi un sacrificio a Dio”!!!
Il rabbino Shneur Zalman di Liadi (1745-1812), il primo Rebbe di Chabad e uno dei grandi giganti del Talmud e della Khassidùt e mistica ebraica, offrì la seguente toccante interpretazione: la Torà sta tentando di insegnarci, attraverso questa frase grammaticalmente “imperfetta”, che il sacrificio più importante che Dio ama non è quello che viene dagli animali o le offerte farinacee; ma piuttosto quello derivante dalla persona stessa: SACRIFICHERÀ TRA DI VOI. La volontà divina ci chiede principalmente di offrire qualcosa di PERSONALMENTE NOSTRO.
Il versetto, quindi, deve essere inteso in questo modo: “Un uomo che si sacrifica”, quando un individuo desidera di fare un sacrificio e avvicinarsi al Creatore, continua il verso, “in mezzo a te, un sacrificio a Dio”, lui o lei deve ricordare che il sacrificio primario deve essere portato da LUI STESSO: offrire un pezzo del proprio cuore e dell’anima ad Hashèm.
Un’Arte Dimenticata
Il sacrificio, inteso come il coraggio di abbandonare qualcosa di veramente prezioso per un ideale o una persona al di fuori di se stessi, è diventato, soprattutto ai nostri giorni, veramente inconcepibile. Nella mente di molti è una sorta di ‘parolaccia’ che evoca un dogma o un abuso. Il concetto di sacrificare qualcosa di sé è spesso visto come un ‘acerrimo nemico’ delle presunte virtù che sono diventate rilevanti per i nostri tempi: autoespressione, autoaffermazione e indipendenza emotiva.
Il sacrificio, ci viene spesso esposto come una stampella per le vittime insicure e dipendenti che eclissano la loro disfunzione emotiva attraverso il “mito eroico” del sacrificio. La base della psicologia moderna insegna che la felicità viene dal dare libertà e sfogo ai sentimenti interiori. Infatti, è importante combattere le forme di sacrificio che intaccano, e affermare le qualità della propria vita e la stima di sé. Il sacrificio che alimenta l’abuso e la tirannia non è una virtù. Una moglie maltrattata non dovrebbe tollerare il comportamento immorale del coniuge, come un dipendente maltrattato non dovrebbe tollerare il comportamento del proprio datore di lavoro in nome del sacrificio.
Dall’altra parte, nonostante la nostra ipersensibilità verso il perseguimento della libertà individuale e dell’autoaffermazione, il piano Superiore è di educare noi stessi e i nostri figli. Educazione che deve possedere la consapevolezza essenziale che VIVERE significa anche SACRIFICARE qualcosa di noi stessi per la verità, per Dio, per un altro essere umano, per il matrimonio, per i nostri valori, per rendere il mondo un posto migliore.
Nella dialettica secolare contemporanea, nessuno ci chiama a sacrificare qualcosa di veramente valido per qualcuno o per qualsiasi altra cosa. Ci è stato insegnato a essere gentili e cordiali, tolleranti e rispettosi, a dare qualche euro a un senzatetto per strada ed essere sensibili ai sentimenti degli altri. Tutte cose belle, ma che non ci insegnano a fare i VERI SACRIFICI, quelli che sfidano i nostri piaceri e che ci costringono a uscire dalle nostre zone di comfort e che, inevitabilmente, richiedono impegni profondi e incrollabili.
Eppure quando non combattiamo per qualcosa, per qualsiasi cosa, come facciamo a sapere chi siamo veramente? Quando non sentiamo il bisogno di rinunciare a nulla, di noi stessi, in che modo possiamo acquisire la profondità, la dignità e la maturità che sono fondamentali per raggiungere un obiettivo con sacrificio?
Quando guardiamo dentro alle scuole, alle università, alle istituzioni educative e persino in molte yeshivòt o famiglie di oggi, ci chiediamo se riescono a tirare fuori e coltivare la nobiltà d’animo, l’idealismo dei nostri giovani? Chi sta dando loro qualcosa per cui possono combattere? Stanno riscoprendo le loro profondità interiori o piuttosto le loro qualità più superficiali?
Quando viviamo una vita che non ha alcun sacrificio, la nostra umanità diminuisce. Diventiamo, ogni giorno, più superficiali e timidi. L’intero libro di Vayikrà, che tratta dei sacrifici, è la via ebraica per affermare che VIVERE, significa VIVERE per QUALCOSA.
Un ALTARE In Lacrime
Nessuna area della società è stata così profondamente influenzata da questo vuoto come l’unità familiare. In un passato, non molto lontano, il legame familiare era considerato come un qualcosa per cui valeva la pena sacrificarsi. Oggi, invece, questa idea è facilmente scartata quando è in conflitto con le nostre comodità personali. Le coppie, spesso, non sentono che il matrimonio è un’istituzione così ideale e sacra da dover fare dei veri sacrifici, perché funzioni e fiorisca. Spesso i giovani cercano “l’amore facile” e non quello solido e duraturo che nasce e cresce anche dalla nostra disponibilità al sacrificio.
1700 anni fa, il trattato del Talmud che disciplinava le leggi ebraiche per il divorzio fu trascritto. I saggi dell’antichità hanno scelto di inserire nel libro queste parole:
“Ogni volta che qualcuno divorzia dalla sua prima moglie, anche l’Altare del Santuario versa lacrime. Come afferma la Torà: “Tu hai causato che l’Altare di Dio sia coperto di lacrime, di pianto e di sospiri; così che Dio non si rivolge più alle offerte con buona volontà. E potresti chiedere: perché? Perché Dio ha reso testimonianza tra te e la moglie della tua giovinezza, che hai tradito, sebbene sia la tua compagna e la moglie della tua alleanza”.
Non si parla di tradimenti o simili, bensì solo di divorzio… ma perché un divorzio provoca lacrime nell’Altare del tempio? Il Tempio Santo di Gerusalemme aveva molti arredi e recipienti, come il candelabro, il tavolo dei pani, e naturalmente l’Arca Santa in cima alla quale erano scolpiti i volti di un bambino e una bambina che si guardavano l’un l’altro, a simboleggiare il rapporto tra Dio e l’uomo. Perché era SOLO l’Altare che piangeva e non gli altri oggetti del Santuario?
La spiegazione potrebbe essere questa:
L’Altare era il luogo nel Tempio dove venivano offerti tutti i sacrifici quotidiani di grano, vino e animali. L’Altare rappresentava l’assioma profondo, ma spesso dimenticato, che la relazione con Dio esigeva sacrificio di sé e della propria ricchezza. Per secoli, l’Altare è stato testimone silenzioso della profondità e dignità che caratterizzavano le vite fatte d’impegno e sacrificio. Giorno dopo giorno, l’Altare interiorizzava la VERITÀ ASSOLUTA: solo il sacrificio di sé conduce verso la realizzazione personale.
Quando l’Altare “osserva” un matrimonio in cui l’uomo e la donna non hanno il coraggio di fare sacrifici l’uno per l’altro, PIANGE, per la più grande delle opportunità perdute, per sempre.
Ci sono, naturalmente, delle eccezioni. A volte il divorzio è una tragica necessità. Quando gli abusi e le disfunzioni pervadono un matrimonio e non è possibile trovare alcun rimedio, la risposta giusta potrebbe essere il divorzio. Purtroppo, nella nostra epoca, molti divorzi avvengono, non a causa di una situazione impossibile, ma a causa della nostra riluttanza a trascendere il nostro ego, a sfidare le nostre paure e trascendere la nostra natura egoista. Per questo è proprio l’ALTARE a piangere.
Questa semplice verità così ben nota all’Altare è stata dimenticata da molti. Abbiamo paura di fare sacrifici, poiché temiamo che ci privino della nostra ILLUSORIA FELICITÀ. La nostra autostima è così fragile che sentiamo disperatamente il bisogno di proteggerla da qualsiasi intrusione esterna per paura che svanisca?
Ma la felicità è un “Altare”. PIÙ DAI, PIÙ RICEVI, non come la società moderna che vuole farci credere PIÙ RICEVI E PIÙ DAI.
L’anima è più in pace con se stessa quando si unisce profondamente con un’altra anima.
Perciò quando rinunciamo a tutte le forme di sacrificio, ci priviamo del raggiungimento delle nostre POTENZIALITÀ PIÙ PROFONDE.
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Strada Lunga Ma Corta
La vita è fatta di tanti bivi. Come la famosa storia Talmudica di Rabbi Yehoshua che chiede a un bambino quale fosse la strada più corta per raggiungere la città.
Il bimbo gli dice: la strada a sinistra è corta ma più lunga, mentre quella a destra è lunga ma più corta.
Il grande maestro prende la via corta, ma viene bloccato da un muro di spine. Perciò torna indietro e chiede al ragazzino come mai gli aveva indicato che quella era la strada più corta? Questo gli risponde in effetti è più corta, ma anche più lunga, perché è molto difficile raggiungere la meta per via degli ostacoli.
Mentre l’altra strada è più lunga e bisogna scalare la montagna, ma si arriva sani e salvi alla meta. Perciò è una strada PIÙ LUNGA MA CHE È PIÙ CORTA.
La nostra strada è fatta di continui bivi, la società ci spinge, sempre di più, verso le “scorciatoie” che in realtà sono strade bloccate che non portano a destinazione.
Questa parabola dovremmo inciderla nella nostra mente e ricordarci sempre che spesso la strada più lunga è quella più corta. Ad esempio quando ci sacrifichiamo per la pace coniugale, non dobbiamo vedere questa cosa come una perdita di autostima e debolezza personale. Mettere da parte se stessi per un “bene superiore”, come il matrimonio significa avere una forza dello spirito che ci fa ottenere l’armonia in casa. Mettere da parte il proprio ego che, la causa di tutti i problemi, è solo APPARENTEMENTE la STRADA PIÙ LUNGA e faticosa, ma invece è la strada più corta per avere una vita equilibrata e serena.
La parashà di questa settimana ci invita a fare questa domanda: quando è stata l’ultima volta che ho fatto un VERO sacrificio?
Un aneddoto del Rebbe può aiutarci a capire meglio.
Una volta un ebreo osservante andò a chiedere aiuto e consiglio al Rebbe e gli disse: “Quando studio la Torà, prego o faccio le mitzvòt, soffro, perché non ho voglia e spesso sono distratto e penso ad altro”. Il Rebbe sorprendentemente gli rispose: “Beato te! A me invece piace studiare la Torà e fare le mitzvòt…!”.
L’uomo ovviamente rimase molto sorpreso di questa risposta. Tuttavia il Rebbe, come sempre, gli ha e ci ha dato un insegnamento di vita importantissimo. Sacrificarsi per qualcosa, vincere il nostro “istinto al male” è un modo per servire Hashem, per offrire in sacrificio il nostro “animale interiore”, per elevare il male in bene. Attraverso lo studio della Torà le mitzvòt e più in generale adempiendo i precetti, acquisiamo quei buoni tratti del carattere che ci permettono di sottometterci a una volontà superiore, quella divina. Questo può accadere solo attraverso l’offerta del nostro SÉ, fatto di tante grandi e piccole abitudini, vizi e piccoli egoismi.
Quando l’uomo dimentica le regole del mondo e non si educa con le buone allora va educato con le “cattive maniere” purtroppo. Ci troviamo in un periodo strano ma molto istruttivo dove impariamo a valorizzare la famiglia, a fare dei sforzi per stare insieme chiusi in casa e imparare che l’amore non bisogna cercarlo fuori casa e che bisogna sacrificarci per lasciare spazio alla famiglia.
Speriamo che questo periodo difficile sia “l’ultimo esame per la maturità” che ci manca per completare la rettificazione di questo mondo e permettere l’arrivo di Mashìakh presto ai nostri giorni, Amen.
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Shabbat ShalomRav Shlomo Bekhor
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LA KABBALÀ DEGLI SCACCHI
Perché solo il “pedone”, il pezzo maggiormente limitato,
può raggiungere il massimo e diventare regina?
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AMORE NON PLATONICO!
Qual è l’errore di Platone che è agli antipodi della fede ebraica?
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E come spesso accade nello studio biblico, un apparente difetto grammaticale nasconde dimensioni psicologiche ed esistenziali inaspettate e stupefacenti.
“Parla ai figli d’Israele (Dio dice a Mosè all’inizio di Vayikrà) e dì loro: Un uomo che sacrificherà tra di voi un sacrificio a Dio; da una mucca, da un toro, e dalle pecore offrirai la tua offerta” (Vayikrà 1, 2).
La costruzione della frase sembra scorretta. Nella Torà avrebbe dovuto scrivere: “Un uomo tra voi che porterà un sacrificio a Dio”. Non: “Un uomo che sacrificherà tra di voi un sacrificio a Dio”!!!
Il rabbino Shneur Zalman di Liadi (1745-1812), il primo Rebbe di Chabad e uno dei grandi giganti del Talmud e della Khassidut e mistica ebraica, offrì la seguente toccante interpretazione: la Torà sta tentando di insegnarci, attraverso questa frase grammaticalmente “imperfetta”, che il sacrificio più importante che Dio ama non è quello che viene dagli animali o dal grano; ma piuttosto quello derivante dalla persona stessa: TRA DI VOI. La volontà divina ci chiede principalmente di offrire qualcosa di PERSONALMENTE NOSTRO, qualcosa di VERO.
Il versetto, quindi, deve essere inteso in questo modo: “Un uomo che sacrifica”, quando un individuo cerca di fare un sacrificio, continua il verso, “di mezzo a te un sacrificio a Dio”, lui o lei deve ricordare che il sacrificio primario deve essere portato da LORO STESSI: offrire un pezzo del loro cuore e della loro anima a Dio.
Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor
VAYIKRA 5771 – LA KABBALÀ DEGLI SCACCHI
Perché solo il pedone limitato può raggiungere il massimo e diventare regina?
VAYIKRA 5770 – FILO SOTTILE TRA EGOCENTRISMO E ANNULLAMENTO!
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VAYIKRA 5766 – PIGRIZIA ED ENTUSIASMO + RESTITUIRE GLI OGGETTI RUBATI
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VAYIKRA 5765 – IL RISPETTO DELLA VOLONTÀ DIVINA!
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