BEHA’ALOTEKHA 5784 : 8 LEZIONI

15 Giugno 2024 1 Di HaiimRottas

Questo Shabbàt 22 Giugno 2024, 16 del mese di SIVAN 5784 leggeremo la Parashà di Behalotekhà Numeri 8: 1 – 12: 16
HAFTARÀ
Zaccaria 2: 14 – 4: 7.

PARASHA INTEGRALE BEHAALOTEKHA CON PANORAMICA, RIASSUNTO E HAFTARA
https://virtualyeshiva.it/wp-content/uploads/2024/06/03_Behaalotekha.pdf

Sintesi Beha’alotekhà
Accensione della Menorà. Hashèm mostra ad Aharòn come accendere i sette lumi della Menorà, il candelabro sacro, scolpito da un unico blocco d’oro.
Purificazione e consacrazione dei leviti. Moshè procede alla purificazione dei leviti e alla cerimonia della loro consacrazione a Hashèm, accompagnata dai sacrifici, in preparazione del loro servizio al Tabernacolo, che durerà dall’età di venticinque anni ai cinquanta.
Istituzione di Pèssakh Shenì. Un anno dopo l’uscita dall’Egitto, Israèl celebra il sacrificio di Pèssakh, come Hashèm aveva ordinato a Moshè. Poiché alcuni non avevano potuto offrire il sacrificio pasquale, in quanto impuri, viene istituito Pèssakh Shenì (Secondo Pèssakh), da compiere un mese più tardi, per permettere anche a loro di adempiere alla mitzvà.
La nube della Presenza divina. Il giorno in cui viene eretto il Tabernacolo, la Nube della Presenza divina si posa su di esso, assumendo, di notte, l’aspetto di un fuoco. Dalla Nube dipendono gli spostamenti del popolo ebraico nel deserto: quando questa si solleva dalla Tenda, Israèl si mette in viaggio e, là dove si posa, si accampano. Hashèm ordina, inoltre, a Moshè di fabbricare due trombe d’argento che i cohanìm avrebbero suonato a ogni partenza, prima di accamparsi e al seguito delle truppe in battaglia.
Primo spostamento nel deserto. Seguendo la nube, il popolo si mette in marcia dal deserto del Sinày in direzione di quello di Paràn. Descrizione dettagliata dell’ordine di marcia delle tribù. Moshè invita il suocero Yitrò a proseguire verso terra di Israèl, ma questi rifiuta. Prima della partenza dell’aròn, l’Arca Santa, era la prima a spostarsi, segnalando a tutti l’inizio del viaggio, Moshè pronuncia un’invocazione a Dio. Il medesimo rituale avviene quando l’aròn si ferma.
Le lamentele del popolo. I bené Israèl esprimono scontento nei confronti di Hashèm che li punisce scatenando un incendio che divora i peccatori. Molti di essi si lamentano per la manna, della quale si dichiarano stanchi, reclamando carne, pesce e verdure.
Moshè chiede aiuto. Moshè confessa ad Hashèm di non avere la forza di portare sulle spalle il peso dell’intero popolo e Hashèm gli comanda di nominare settanta saggi affinché lo aiutino nel suo compito. Un forte vento scaraventa migliaia di quaglie nell’accampamento; gli ebrei ne raccolgono in eccesso e Hashèm li punisce, facendoli morire con la carne ancora fra i denti.
Aharòn, Miryàm e Moshè. Miryàm e Aharòn “criticano” Moshè, Hashèm li redarguisce e colpisce Miryàm con la tzarà’at; Moshè intercede per lei, ma Hashèm ordina che venga fatta uscire dall’accampamento per sette giorni, fino alla sua purificazione. In seguito, gli ebrei si mettono in viaggio e si accampano nel deserto di Paràn.
ACCENDI CON AMORE
La parashà di questa settimana comincia con le istruzioni ad Aharòn riguardo all’accensione della menorà, il candelabro nel Mishkàn.
Il candelabro nel Mishkàn e nel Sacro Tempio aveva sette braccia. Una delle mansioni giornaliere principali di Aharòn, il Cohèn Gadòl, era di accendere il candelabro. Il verso, tuttavia, utilizza un’espressione inusuale per l’accensione dei lumi: quando fai salire i lumi, al posto della più comune espressione accendere i lumi. Rashì spiega che il cohèn doveva “persuadere” la fiamma finché non ardeva da sola.
Basato su un verso in Zekharyà che paragona il popolo ebraico a un candelabro d’oro, Rabbi Shneur Zalman di Liadi spiega che ognuno dei sette lumi del candelabro corrisponde a uno dei sette santi attributi: bontà (khèssed), austerità (ghevurà), compassione (tifèret), ecc.
Il Rebbe di Lubavitch sottolinea che una delle conclusioni che dobbiamo trarre da questo è che ci sono realmente varie strade differenti nell’ebraismo. Vi sono sette diverse vie. Non siamo tutti uguali e non tutti siamo fatti per esserlo. Come ci sono sette tratti caratteriali fondamentali, così, allo stesso modo, ci sono sette modi altrettanto legittimi e validi di essere un candelabro – un lume. Non devi essere una copia carbone di qualcun altro per essere un buon ebreo. La questione fondamentale è: sei illuminato? Sei acceso? Se sei acceso e stai illuminando ciò che ti circonda come un candelabro di ebraismo, allora la tua via è valida. La Torà ci insegna questo attraverso il fatto che il candelabro non ha un braccio, ma sette, così che tutti possono essere se stessi e servire Hashèm secondo la propria personalità e il proprio modo, a condizione che stiano illuminando il mondo nei modi che Hashèm vuole.
Le finestre del Tempio a Yerushalayim erano molto insolite. La maggior parte delle volte, quando si costruisce una casa, si fanno le finestre in modo che la luce esterna entri in casa. Nel Tempio invece, le finestre erano costruite in modo che la luce interna potesse risplendere all’esterno, ma non viceversa, come si evinceva dal fatto che lo spessore delle pareti circostanti si allargava verso fuori. Anche questo è un insegnamento per ogni persona – che non si suppone sia influenzata dal mondo “esterno”, da quello che la strada ha da offrire. Al contrario deve accendere il proprio candelabro e illuminare il mondo intorno a sé, anche la strada fuori.
Abbiamo menzionato prima che ci sono sette vie, sette approcci all’ebraismo. C’è la via dell’amore (ahavà) e la via del timore (yirà), austerità o severità. Ognuno probabilmente ha familiarità con entrambi gli approcci. Tutti siamo stati a scuola e abbiamo verosimilmente sperimentato maestri che insegnano con amore. Gli alunni li amano ed essi amano loro. C’è una sensazione di gioia e di partecipazione. Poi tutti abbiamo avuto insegnanti che erano strettamente ferrei nella disciplina. Se si faceva muovere qualcuno si era fuori dalla classe, o in piedi nell’angolo, o a scrivere centinaia di volte la stessa parola alla lavagna. Entrambi erano insegnanti, entrambi stavano cercando di fare la medesima cosa: insegnare agli alunni. Ma avevano approcci differenti, uno con amore, l’altro con timore. Ora potresti chiederti quale sia la differenza. Farlo con amore, o farlo con timore, fin tanto che raggiungi i tuoi obiettivi, che differenza fa quale metodo si utilizza?
Tuttavia il Rebbe dice che vi è una differenza. Benché il metodo della persona che ti accende con timore sia legittimo, nondimeno, quanto migliore e quanto più piacevole è quando il tuo modo di “accendere” è all’insegna dell’amore!
——————————————————————————————

Ti riporto una storia che ho sentito da Rav David Menashe sulla Menorà e la potenza della lettura del salmo 67.

A Parigi c’era una donna che soffriva di fortissimi mal di testa che la costringevano a stare a letto per giorni. La donna disperata consultò i migliori specialisti al mondo, ma non ottenne alcun risultato apprezzabile.
Quando era ormai sull’orlo della disperazione, si trovò per caso a una conferenza di David Menashe sul salmo 67 e la potenza della lettura a forma di Menorà.
La donna, dopo aver ascoltato attentamente, gli chiese dunque consiglio ed egli le prescrisse di recitarlo tutti i giorni in questa forma.
In breve tempo, con sommo stupore di tutti gli specialisti, ella guarì completamente e smise di soffrire dei suoi terribili mal di testa!
Dopo un certo periodo, pensando che ormai fosse inutile, interruppe la sua lettura quotidiana, ma subito ricominciò a soffrire dello stesso mal di testa.
Circa quattro mesi dopo, la donna si recò nuovamente da David Menashe, che teneva un’altra conferenza sempre a Parigi, e gli riferì l’accaduto.
Da quel momento non smise più di recitare il salmo ogni giorno!
Di storie come questa ce ne sono molte… ognuno di noi è invitato a provarlo in prima persona.

Una Natura Aggiuntiva
Nella prima parte del Libro dei Numeri, si descrive la formazione di Israèl in un esercito alla vigilia del viaggio che dovrà compiere nel deserto. La prima metà della parashà Beha’alotekhà completa questa formazione.
Con la seconda parte della parashà inizia il secondo argomento fondamentale del Libro dei Numeri, nella quale vediamo il popolo avviarsi nell’importante viaggio verso la Terra Promessa.
Tuttavia, non più tardi della loro partenza, vediamo gli ebrei commettere una rapida successione di errori, che persistono nelle due parashòt seguenti. Il tragico risultato di questo degrado spirituale a spirale è il decreto divino che condanna quella intera generazione a perire nel deserto e a rimandare l’ingresso nella Terra Promessa dopo trentotto anni. Questa tragedia contrasta duramente il tono ottimistico della prima metà della parashà.
Andando nel dettaglio, la parashà Beha’alotekhà si apre con il comandamento di accendere il Candelabro del Tabernacolo. Aharòn viene incaricato di mantenere accesi i lumi finché gli stoppini non colgono la fiamma e bruciano da soli e, come verrà spiegato, questa è un’allegoria dello scopo della nostra esistenza sulla terra: accendere la fiamma della coscienza divina fino a che il creato bruci da solo con l’entusiasmo richiesto a completare il suo scopo divino in questo mondo. Per questo motivo, l’accensione del Candelabro racchiude lo scopo intero della creazione: trasformare il mondo in una dimora per Hashèm.
Come si spiega che concetti così totalmente opposti vengano compressi all’interno della stessa parashà? La domanda diventa ancora più pertinente quando consideriamo che il nome della parashà Beha’alotekhà, che viene dal comandamento di accendere il Candelabro, significa “quando farai salire” e si riferisce all’insegnamento di fare in modo che la fiamma “salga” [bruci] da sola. In che modo l’atto di accendere la coscienza divina nel mondo, fino a che bruci da sola, si adatta al declino morale che si rivela man mano che la narrazione progredisce?
Possiamo cominciare a capire ricordando che la missione divina di rendere il mondo una dimora adatta ad Hashèm si applica a tutte le fasi della vita e a ogni creatura; quindi, il solo modo di completarla è trasformare tutti gli aspetti della vita in sfaccettature ed elementi della nostra relazione con Dio. Non è sufficiente sentirsi vicini ad Hashèm o insegnare ad altri a percepire la stessa cosa quando stiamo esplicitamente svolgendo azioni sante – ovvero quando studiamo la Torà e seguiamo i comandamenti di Hashèm. La Divinità deve permeare allo stesso modo le nostre azioni mondane.
Questo modo di agire può essere acquisito attraverso la pratica, allenando noi stessi o gli altri a superare la tendenza innata della realtà fisica a oscurare la presenza di Hashèm nelle nostre vite e nel creato. Quindi vivere in modo conforme al Creatore diventa una seconda natura, altrettanto reale come la precedente prospettiva del mondo materiale.
Il modo più profondo di ripensare se stessi e gli altri in tal senso è, tuttavia, rivelare la nostra innata divinità. Allorché diventiamo completamente consapevoli che l’esistenza di Hashèm è la sola vera realtà, e che tutto il resto è meramente contingente a Lui, scopriamo anche la nostra autentica natura, come parte della realtà assoluta di Dio, la nostra percezione del mondo è simile a quella divina.
Scopriamo che l’attitudine di vedere Hashèm ovunque e di essere consci della Sua presenza in ogni cosa che facciamo non è una seconda natura (qualcosa che prende il posto della prima), ma è in effetti la nostra natura primaria, il nostro sé effettivo, che in realtà è la nostra vera essenza, ancora di più di quella che pensavamo fosse la nostra reale “prima” natura.
Questo è il significato profondo dell’espressione “accendere uno stoppino fino a che bruci da solo”: dobbiamo lottare per rifinire noi stessi, gli altri e il mondo intorno a noi fino a che la natura intrinseca di ogni persona e di ogni cosa venga rivelata, e quindi bruci di consapevolezza divina come parte della sua natura intrinseca. Solo quando avremo compiuto ciò, potremo dire di aver trasformato veramente e in modo completo questo mondo per essere una dimora di Hashèm, che si completerà nella redenzione finale.
Questo significa, allo stesso tempo, rivelare la nascosta divinità che si trova all’interno delle nostre ribellioni. Certamente, la rivolta (o, a un livello più sottile, l’idea di rivolta) deve essere domata il più velocemente possibile e questo ci richiede di “forzarci” ad acquisire una seconda natura, quella divina. Ma il modo più profondo per sedare una ribellione è di rivelare la sua vera natura: il rifiuto a ritenerci soddisfatti del grado di comprensione di Hashèm che abbiamo in quel momento e una reazione indignata verso la superficialità della relazione intrattenuta con l’Altissimo. La ribellione evidenzia la vera causa, cioè la disperazione: “Se questo è tutto ciò che c’è nella vita divina, io non lo voglio affatto!”
Viste da questa prospettiva, queste ribellioni articolano il nostro sincero desiderio di ritornare ad Hashèm (teshuvà), in modo da ristabilire la relazione con Lui a un livello molto più profondo di quanto non fosse mai stato prima. Le ribellioni del popolo ebraico, subito dopo la partenza per il loro importante viaggio, possono essere comprese in questa ottica; quindi, il posto adeguato per collocarle è certamente nella parashà il cui tema principale è alimentare la coscienza divina del mondo fino a che tutta la realtà non ne sia illuminata.
Questa è una delle ragioni per cui la Torà parla proprio di Aharòn come di colui che accende il Candelabro, anche se in effetti a chiunque – persino un laico – è permesso farlo. Aharòn era famoso per il suo amore incondizionato per tutti, anche verso coloro i quali non possedevano altre qualità che li riscattassero se non quella di essere una creazione di Dio: “Sii tra i discepoli di Aharòn, che amano la pace e la ricercano, che amano tutte le creature e le avvicinano alla Torà. Aharòn si interessava persino di persone che sembravano molto distanti dalla santità, faceva fluire in loro la divina coscienza grazie all’amore che trasmetteva e accendeva la loro anima per attirarli sulla via di Hashèm. Questa accensione è quindi parallela al ruolo di Aharòn di portare in risalto l’essenza divina in ogni persona.
Quando riveliamo la nostra profonda natura divina, anche nei momenti più bassi della nostra vita, quando ci sentiamo il meno entusiasti possibile per tutto ciò che è santo, ecco che guadagniamo l’abilità di “accendere lo stoppino” della realtà “finché brucia da solo” in ogni circostanza e a ogni livello, e gli alti e bassi della vita diventano così parte dello stesso processo di “accensione dei lumi”.
Perciò la luce del Candelabro rappresenta la luce infinita che porterà Mashìakh e che illuminerà la vera identità del creato, permettendoci di vedere il divino non solo come una natura secondaria, ma come l’unica vera natura del mondo che è la dimora di Hashèm.
Ribellione Radicale
וַיְהִי הָעָם כְּמִתְאֹנֲנִים וגו’: (במדבר יא, א)

Il popolo cercava un pretesto [per ribellarsi ad Hashèm]. (11, 1)

Israèl copre miracolosamente un viaggio di tre giorni in uno solo: il primo giorno del suo viaggio attraverso il deserto. Questo, perché Hashèm è ansioso di portarli nella terra di Israele. Tuttavia, quando gli israeliti stanno per arrivare, alcuni convertiti di recente – che li avevano accompagnati da quando avevano lasciato l’Egitto – iniziano ad avere ripensamenti sulla sottomissione alle leggi di Hashèm. Cercando una scusa per il loro atteggiamento, già il primo giorno si lamentano di dover fare un viaggio così lungo.

Certamente non dovremmo permetterci di ribellarci ad Hashèm (o solo pensarlo). Se questo richiede di “forzarci” di acquisire un tipo di rapporto diverso col Divino, abituandoci a vivere secondo la volontà di Hashèm, allora così sia.
Anche se, il modo più radicale di reprimere una ribellione contro Hashèm è scoprire l’origine del problema del nostro rapporto con Lui: il rifiuto di essere soddisfatti della nostra attuale comprensione di Hashèm e la nostra repulsione per la superficialità della nostra attuale relazione con Lui. La nostra ribellione esprime la nostra disperazione: “Se questo è tutto ciò che c’è nella vita divina, non voglio nulla di ciò!”.
Viste in questa luce positiva, le nostre ribellioni – e le ribellioni degli israeliti subito dopo aver intrapreso i loro viaggi – sono un grido disperato al fine di ritornare sinceramente ad Hashèm per ristabilire la nostra relazione con Lui a un livello molto più profondo di prima.

(tratto dal nuovo libro Saggezza Quotidiana)

Eldàd E Medàd: Umiltà Infinita
Come Si Può Andare Contro il Piano Divino e Non Essere un Fuorilegge?
Uno dei punti cardine della parashà di Beha’alotekhà è il valore dell’umiltà come è
scritto (12, 3): E l’uomo Moshè era molto umile, più di qualunque persona sulla faccia
della terra. Non a caso troviamo nella stessa porzione la vicenda di Eldàd e Medàd (da
11, 27 e segg.) che rappresenta molto bene il concetto dell’umiltà, poiché tutti gli
argomenti della stessa parashà sono collegati.
Dopo le tante lamentele del popolo, Moshè chiede di essere affiancato da settanta
saggi in sostituzione di quelli morti nel fuoco (11, 3). Allora Hashèm gli dice di
nominare altri settanta saggi, ai quali conferirà parte della sua profezia, e formare un
nuovo Sinedrio. Poiché il Sinedrio è formato da soli settanta membri, Moshè per non
creare disparità tra le tribù (settanta non è un numero divisibile per dodici il numero
delle tribù), escogita un sorteggio dove la scelta degli esclusi sarebbe stata
direttamente di Hashèm: su settanta biglietti è scritta la parola “anziano”, mentre i
rimanenti due sono vuoti. Chi sorteggiava il biglietto con la parola “anziano”, riceveva
il dono profetico ed era chiamato a far parte del Sinedrio, e si doveva recare alla Tenda
dell’Adunanza per essere investito della profezia. L’umiltà di Eldàd e Medàd che
rifiutano di diventare profeti, si innesta in questa delicata fase del popolo ebraico nel
deserto.
Troviamo due opinioni su come si siano svolti i fatti del sorteggio dei membri del
Sinedrio e delle sue conseguenze (Talmud Sanhedrìn 17a e Midràsh Sifrì).
a) La prima ritiene che Eldàd e Medàd non vogliono estrarre nessun biglietto, perché
non si sentono idonei per essere dei profeti, e allora non sono ufficialmente scelti
come membri del Sinedrio, anche se dovrebbero esserlo, poiché i biglietti con scritto
‘anziani’, rimasti nel cesto, sono comunque destinati a loro. Secondo questa opinione,
Eldàd e Medàd non partecipando al sorteggio non vengono nominati profeti, quindi
non hanno l’obbligo di presentarsi insieme agli altri scelti come profeti.
b) La successiva opinione afferma che Eldàd e Medàd prendono il biglietto con scritto
la parola ‘anziani’ e sono ufficialmente scelti nei settanta profeti, ma poi non si
presentano con gli altri membri del Sinedrio alla Tenda dell’Adunanza, quando
devono essere investiti della profezia.
L’ipotesi a) e quella b) comportano conseguenze importanti circa la gravità del loro
gesto. Per la prima, Eldàd e Medàd non avevano un vero obbligo di presentarsi,
perché non essendo stati scelti ufficialmente non commettono una violazione vera e
propria della legge.
Per la seconda, invece, la gravità del loro gesto è maggiore perché, pur essendo
designati, visto che hanno estratto il biglietto con scritto ‘anziani’, si sono comunque
rifiutati di presentarsi con gli altri componenti scelti.
Si Può Dire No A Dio?
Per meglio comprendere il profondo significato che si nasconde dietro queste due
diverse prospettive a) e b), sopra riportate, ci viene in aiuto una discussione talmudica
(Berakhòt 7a). Il Talmud si domanda come mai, quando Moshè chiede a Hashèm di
rivelare a lui la Shekhinà, la “Sua Gloria”, Dio gli risponde: «Non potrai vedere il Mio
volto»? (Shemòt 32, 20). Il motivo del rifiuto è legato al fatto che quando Hashèm
voleva rivelarsi a Moshè dal cespuglio ardente, durante il suo esilio a Midyàn, “Moshè
nascose il suo volto, poiché ebbe timore di guardare verso Dio” (Shemòt 3, 6). Ossia,
Moshè aveva rifiutato di vedere Dio non obbedendo alla Sua volontà.
Anche su questo episodio vi sono due opinioni talmudiche. Secondo Rabbì Yehoshù’a,
figlio di Korkhà, Moshè meritava di essere punito. Invece, secondo rabbì Shemuèl,
figlio di Nakhmani, a nome di rabbì Yonatàn, non solo Moshè non doveva essere
punito ma, addirittura, con il suo gesto ha meritato di ricevere tre premi, per tre
distinti meriti: dato che “nascose il suo volto a Dio”, il volto di Moshè diventerà
luminoso; dato che “ebbe timore” di Dio, quando la sua faccia ha iniziato a brillare,
Moshè sarà temuto dal popolo; infine, come merito per aver avuto “[timore] di
guardare”, Moshè ha ottenuto la facoltà di contemplare l’immagine di Dio, ossia di
ricevere un incredibile livello di profezia, come è scritto (12, 8): Con lui parlo bocca a
bocca, con chiarezza e non per enigmi, ed egli può vedere l’immagine di Hashèm.
Tuttavia, rimane da capire cosa si nasconde dietro opinioni così radicalmente diverse,
per giunta riportate da maestri talmudici di grandissima statura. La risposta è che, in
realtà, la discussione verte sul fatto se sia possibile o meno comportarsi umilmente
(ossia nascondersi o rifiutare un dono spirituale da parte di Hashèm, come fecero
Eldàd e Medàd) anche di fronte a una rivelazione divina che vuole innalzare il livello
spirituale di una persona, fino a farla diventare un profeta.
Secondo Rabbì Yehoshù’a non si può fare! Quindi, Moshè ha commesso un errore nel
rifiutare la rivelazione divina poiché, anche se una persona non deve cercare quello
che non gli spetta, se Hashèm si vuole rivelare non bisogna essere così umili da
opporsi al Suo piano. Pertanto, Moshè doveva essere punito per la sua disobbedienza
ad Hashèm.
Secondo, rabbi Shemuèl, invece, dato che l’umiltà non ha limiti può andare anche
contro il piano divino! Quindi, Moshè non solo non è stato punito, ma addirittura
doveva essere premiato, proprio grazie alla sua umiltà.
Il Segreto della Profezia
Questa discussione talmudica ci permette di comprendere meglio la vicenda di Eldàd
e Medàd alla luce delle due opinioni riportate all’inizio, a) e b):
la prima, secondo cui Eldàd e Medàd non partecipano di fatto al sorteggio e
comunque vengono ricompensati e non puniti, è legata a quella di rabbì Yehoshù’a,
figlio di Korkhà. Non essendo ufficialmente designati tra i settanta del Sinedrio, Eldàd
e Medàd non hanno di fatto rifiutato un ordine di Hashèm e quindi non sono stati
puniti. Dato che l’aver agito con umiltà contro il piano divino non li avrebbe potuti
salvare.
La seconda opinione è in linea con quella di rabbì Shemuèl figlio di Nakhmani. In
questa ottica, Eldàd e Medàd pur estraendo nel sorteggio ‘anziani’ e quindi dopo
essere stati designati ufficialmente come saggi membri del Sinedrio (incarico dato per
volontà di Hashèm) non solo non sono puniti, ma sono premiati con un livello di
profezia molto più elevato e addirittura capace di arrivare lontano nel tempo, proprio
grazie alla loro grandiosa umiltà.
La condizione primaria per essere profeti è quella di essere nulli, ossia di abbattere
totalmente il proprio ego; solo così si diventa recipienti idonei per la luce infinta di
Hashèm. Quindi, l’umiltà è una precondizione essenziale per diventare profeta, più
una persona è umile maggiore sarà la sua profezia. Non a caso Moshè, considerato
dalla Torà il più grande profeta mai esistito, è anche considerato come la persona più
umile mai esistita.
Questo spiega il motivo per cui Eldàd e Medàd saranno premiati pur infrangendo un
ordine divino: più si è umili, più è grande lo spirito di profezia, anche se questo
significa andare contro il progetto divino. Perciò, Eldàd e Medàd riceveranno
direttamente da Hashèm lo spirito profetico e non tramite Moshè, a differenza degli
altri saggi designati al Sinedrio.
Da questo episodio complesso e avvincente, impariamo come l’umiltà è l’unico
attributo che non deve essere sottoposto a limiti.
La Strada Divina
Il Ràmbam descrive nei dettagli come in ogni comportamento occorre sempre trovare
un equilibrio, ad esempio non essere né troppo avari, né troppo generosi, non troppo
rigorosi, né troppo accomodanti etc. Trovare l’asse centrale delle nostre emozioni è
un percorso che il Maimonide definisce “la strada di Hashèm”, chiamata anche la
strada dorata, quella perfetta. Invece, riguardo all’attributo dell’umiltà, dove una
persona è spinta a essere l’opposto della sua natura, per via del proprio ego, non c’è
bisogno di ricercare una via mediana. Perciò, l’umiltà non è mai esagerata e in questo
attributo occorre sempre essere all’estremo e mai al “centro della strada” (vedi
l’approfondimento del Maimonide De’òt cap. 1).
Adesso possiamo comprendere il significato della frase (11, 26) “essi erano fra gli
iscritti come saggi”. L’interpretazione della parola “iscritti” può variare a seconda delle
due opinioni a) e b), in riferimento all’esito del sorteggio di Eldàd e Medàd.
Secondo la prima, ossia quella per cui loro non estraggono i biglietti, la parola “iscritti”
significa che Eldàd e Medàd come se fossero “iscritti” nei due biglietti rimasti nella
cesta, ossia che Eldàd e Medàd avrebbero dovuto essere scelti, ma non lo sono stati
perché non hanno estratto un biglietto.
La seconda opinione afferma che “iscritti”, si riferisce al fatto che Eldàd e Medàd sono
designati tra i saggi scelti poiché, prendendo il biglietto, sono prescelti ufficialmente
tra i membri del Sinedrio. Tuttavia non si sono presentati, rifiutando la carica per la
loro grande umiltà.
Quest’ultima interpretazione è conforme con l’opinione di Rashi secondo cui Eldàd e
Medàd, essendo stati eletti, sono tra i ‘scelti’ per il Sinedrio. Rashi ritiene che la
seconda spiegazione talmudica, la più letterale, è quella da seguire, quindi Eldàd e
Medàd hanno già estratto il loro biglietto, ma non si sono presentati alla Tenda
dell’Adunanza e, nonostante ciò, vengono ricompensati.
Risulta da Rashi che la Torà esalta e mette in primo piano la forza e le qualità
dell’umiltà senza limiti, anche a livello di un bambino di cinque anni, l’età alla quale
Rashisi riferisce nei suoi commenti. Il fatto che tale opinione abbia la forza di giungere
anche a un bambino rende l’umiltà una qualità assoluta, perfino quando è contro il
piano divino, che è vincente in ogni situazione, nel lavoro, nella famiglia e soprattutto
nel nostro rapporto con Dio, poiché tutti i peccati nascono da un senso di orgoglio.
Per poter entrare in Israèl e completare la missione di elevare la materia è
fondamentale maturare questa facoltà dell’anima che è la chiave per vincere ogni
sfida materiale e spirituale. Questa è una sfida valida anche per noi, la generazione
che è vicinissima alla redenzione totale, che non può esimersi dal seguire l’esempio
di Moshè e di Eldàd e Medàd. Come è scritto nel libro di proverbi del Rebbe, in questa
generazione non si può subordinare il nostro rapporto con l’Eterno solo con la logica,
perché si rischia di deviare. Pertanto, occorre servire Hashèm soprattutto con umiltà
e accettazione del giogo divino, solo così potremmo presto entrare nella terra
promessa e nel terzo Santuario presto nei nostri giorni.
Da Likuté Sikhòt vol XXVIII, p. 323

Israèl copre miracolosamente un viaggio di tre giorni in uno solo: il primo giorno del suo viaggio attraverso il deserto. Questo, perché Hashèm è ansioso di portarli nella terra di Israele. Tuttavia, quando gli israeliti stanno per arrivare, alcuni convertiti di recente – che li avevano accompagnati da quando avevano lasciato l’Egitto – iniziano ad avere ripensamenti sulla sottomissione alle leggi di Hashèm. Cercando una scusa per il loro atteggiamento, già il primo giorno si lamentano di dover fare un viaggio così lungo.

Il popolo cercava un pretesto [per ribellarsi ad Hashèm]. (11, 1)

Certamente non dovremmo permetterci di ribellarci ad Hashèm (o solo pensarlo). Se questo richiede di “forzarci” di acquisire un tipo di rapporto diverso col Divino, abituandoci a vivere secondo la volontà di Hashèm, allora così sia.
Anche se, il modo più radicale di reprimere una ribellione contro Hashèm è scoprire l’origine del problema del nostro rapporto con Lui: il rifiuto di essere soddisfatti della nostra attuale comprensione di Hashèm e la nostra repulsione per la superficialità della nostra attuale relazione con Lui. La nostra ribellione esprime la nostra disperazione: “Se questo è tutto ciò che c’è nella vita divina, non voglio nulla di ciò!”.
Viste in questa luce positiva, le nostre ribellioni – e le ribellioni degli israeliti subito dopo aver intrapreso i loro viaggi – sono un grido disperato al fine di ritornare sinceramente ad Hashèm per ristabilire la nostra relazione con Lui a un livello molto più profondo di prima.

(tratto dal nuovo libro Saggezza Quotidiana in uscita)

BEHA’ALOTEKHA

B”H

Sintesi Beha’alotekhà
Accensione della Menorà. Hashèm mostra ad Aharòn come accendere i sette lumi della Menorà, il candelabro sacro, scolpito da un unico blocco d’oro.
Purificazione e consacrazione dei leviti. Moshè procede alla purificazione dei leviti e alla cerimonia della loro consacrazione a Hashèm, accompagnata dai sacrifici, in preparazione del loro servizio al Tabernacolo, che durerà dall’età di venticinque anni ai cinquanta.
Istituzione di Pèssakh Shenì. Un anno dopo l’uscita dall’Egitto, Israèl celebra il sacrificio di Pèssakh, come Hashèm aveva ordinato a Moshè. Poiché alcuni non avevano potuto offrire il sacrificio pasquale, in quanto impuri, viene istituito Pèssakh Shenì (Secondo Pèssakh), da compiere un mese più tardi, per permettere anche a loro di adempiere alla mitzvà.
La nube della Presenza divina. Il giorno in cui viene eretto il Tabernacolo, la Nube della Presenza divina si posa su di esso, assumendo, di notte, l’aspetto di un fuoco. Dalla Nube dipendono gli spostamenti del popolo ebraico nel deserto: quando questa si solleva dalla Tenda, Israèl si mette in viaggio e, là dove si posa, si accampano. Hashèm ordina, inoltre, a Moshè di fabbricare due trombe d’argento che i cohanìm avrebbero suonato a ogni partenza, prima di accamparsi e al seguito delle truppe in battaglia.
Primo spostamento nel deserto. Seguendo la nube, il popolo si mette in marcia dal deserto del Sinày in direzione di quello di Paràn. Descrizione dettagliata dell’ordine di marcia delle tribù. Moshè invita il suocero Yitrò a proseguire verso terra di Israèl, ma questi rifiuta. Prima della partenza dell’aròn, l’Arca Santa, era la prima a spostarsi, segnalando a tutti l’inizio del viaggio, Moshè pronuncia un’invocazione a Dio. Il medesimo rituale avviene quando l’aròn si ferma.
Le lamentele del popolo. I bené Israèl esprimono scontento nei confronti di Hashèm che li punisce scatenando un incendio che divora i peccatori. Molti di essi si lamentano per la manna, della quale si dichiarano stanchi, reclamando carne, pesce e verdure.
Moshè chiede aiuto. Moshè confessa ad Hashèm di non avere la forza di portare sulle spalle il peso dell’intero popolo e Hashèm gli comanda di nominare settanta saggi affinché lo aiutino nel suo compito. Un forte vento scaraventa migliaia di quaglie nell’accampamento; gli ebrei ne raccolgono in eccesso e Hashèm li punisce, facendoli morire con la carne ancora fra i denti.
Aharòn, Miryàm e Moshè. Miryàm e Aharòn “criticano” Moshè, Hashèm li redarguisce e colpisce Miryàm con la tzarà’at; Moshè intercede per lei, ma Hashèm ordina che venga fatta uscire dall’accampamento per sette giorni, fino alla sua purificazione. In seguito, gli ebrei si mettono in viaggio e si accampano nel deserto di Paràn.per il pdf di TUTTA LA PARASHA cliccare qui:
www.virtualyeshiva.it/files/03_Behaalotekha.pdf—–
Ti riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor
A proposito della Menorà che leggiamo questa settimana troviamo un parallelismo con i salmi.
Tutti sappiamo che la lettura quotidiana del salmo 67 (Lamnatzèakh su Neghinòt) con le parole poste a forma di Menorà (candelabro) è molto propizia e permette alla persona di trovare grazia agli occhi di Ha-Shèm e del prossimo.
Re Davìd incise questo salmo su una lastra d’oro che portava sempre con sé in guerra e grazie a essa ogni volta sconfiggeva tutti i nemici.
È molto importante leggerlo a forma di Menorà cominciando da destra, in alto sulle fiamme, andando verso sinistra. Si continua poi sul primo braccio da sinistra, per poi continuare a leggere tutti i bracci da sinistra a destra.
Sul seguente link viene letto con il salmo davanti con la melodia che si dice risalga al tempo del Santuario: https://www.youtube.com/watch?v=rCKXc-3vi5o
Chi legge il salmo in questa forma, facendo attenzione a tenere il libro in posizione verticale (e non orizzontale sul tavolo), viene protetto tutto il giorno in maniera speciale e il suo operato avrà successo.
Se non lo si avesse scritto a forma di Menorà si immagina nella mente questa forma mentre si recita.
Se poi si legge da una pergamena dove è scritto a mano, e non stampato, è molto meglio. È importante non inclinare il libro a destra o sinistra quando si leggono le braccia che sono diagonali, al massimo si può inclinare la testa.

Vedi sotto una storia sulla potenza della Menorà.

Ti riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.

Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor

nuova lezione video (30mn)
COME SUPERARE IL PECCATO INIZIALE
youtube: https://youtu.be/TJGZfi-pF6A

BEHA’ALOTEKHA

Al seguente link troverai la pagina web con la lezione sulla nostra parashà:
www.virtualyeshiva.it/2010/05/15/behalotekha-5770-potere-ed-influenza/
dal seguente link si può scaricare il file audio immediatamente, senza aprire la pagina web:
http://www.virtualyeshiva.it/files/10_05_27_behalotekha_eldadmedad_potere_influenzare_korakh.mp3

PEGGIORE CRISI DI MOSHE!

Consiglio di Sigmund Freud al Rebbe di Lubavitch nel 1903 a Vienna!

——-

Virtual Yeshiva non ha nessun finanziatore pubblico.
Virtual Yeshiva non fa pagare nessuna iscrizione al sito perché la Torà sia accessibile a TUTTI e SEMPRE.Se ascolti le lezioni aiuta a mantenere viva questa grande opera di divulgazione di Torà.
Aiutando Virtual Yeshiva diventi soci nella diffusione della Torà ed è un segno di riconoscenza per chi insegna e così potremo diffondere insieme molti più valori di vita e insegnamenti.Le donazioni sono deducibili dalla “decima”.
Per saperne di più si può scrivermi una mail o collegarsi al seguente link:
http://www.virtualyeshiva.it/voglio-aiutare/
—– —–
Per ascoltare le altre lezioni sulla nostra parashà cliccare al seguente link:

UNA NATURA AGGIUNTIVA

La prima parte del Libro dei Numeri, descrive la formazione di Israèl in un esercito alla vigilia del viaggio che dovrà compiere nel deserto. La prima metà della parashà Beha’alotekhà completa questa formazione.
Con la seconda parte della parashà inizia il secondo argomento fondamentale del Libro dei Numeri, nella quale vediamo il popolo avviarsi nell’importante viaggio verso la Terra Promessa.
Tuttavia, non più tardi della loro partenza, vediamo gli ebrei commettere una rapida successione di errori, che persistono nelle due parashòt seguenti. Il tragico risultato di questo degrado spirituale a spirale è il decreto divino che condanna quella intera generazione a perire nel deserto e a rimandare l’ingresso nella Terra Promessa dopo trentotto anni. Questa tragedia contrasta duramente il tono ottimistico della prima metà dellaparashà.
Andando nel dettaglio, la parashà Beha’alotekhà si apre con il comandamento di accendere il Candelabro del Tabernacolo. Aharòn viene incaricato di mantenere accesi i lumi finché gli stoppini non colgono la fiamma e bruciano da soli e, come verrà spiegato, questa è un’allegoria dello scopo della nostra esistenza sulla terra: accendere la fiamma della coscienza divina fino a che il creato bruci da solo con l’entusiasmo richiesto a completare il suo scopo divino in questo mondo. Per questo motivo, l’accensione del Candelabro racchiude lo scopo intero della creazione: trasformare il mondo in una dimora per Hashèm.
Come si spiega che concetti così totalmente opposti vengano compressi all’interno della stessa parashà? La domanda diventa ancora più pertinente quando consideriamo che il nome della parashà – Beha’alotekhà, che viene dal comandamento di accendere il Candelabro, significa “quando farai salire” e si riferisce all’insegnamento di fare in modo che la fiamma “salga” [bruci] da sola. In che modo l’atto di accendere la coscienza divina nel mondo, fino a che bruci da sola, si adatta al declino morale che si rivela man mano che la narrazione progredisce?
Possiamo cominciare a capire ricordando che la missione divina di rendere il mondo una dimora adatta ad Hashèm si applica a tutte le forme; quindi, il solo modo di completarla è trasformare tutti gli aspetti della vita in sfaccettature ed elementi della nostra relazione con Dio. Non è sufficiente sentirsi vicini ad Hashèm o insegnare ad altri a percepire la stessa cosa quando stiamo esplicitamente svolgendo azioni sante – ovvero quando studiamo la Torà e seguiamo i comandamenti di Hashèm. La Divinità deve permeare allo stesso modo le nostre azioni mondane.
Questo modo di agire può essere acquisito attraverso la pratica, allenando noi stessi o gli altri a superare la tendenza innata della realtà fisica a oscurare la presenza di Hashèm nelle nostre vite e nel creato. Quindi vivere in modo conforme al Creatore diventa una seconda natura, altrettanto reale come la precedente prospettiva del mondo materiale.
Il modo più profondo di ripensare se stessi e gli altri in tal senso è, tuttavia, rivelare la nostra innata divinità. Allorché diventiamo completamente consapevoli che l’esistenza di Hashèm è la sola vera realtà, e che tutto il resto è meramente contingente alla Sua realtà, scopriamo anche la nostra autentica natura, come parte della realtà assoluta di Dio, la nostra percezione del mondo è simile a quella divina.
Scopriamo che l’attitudine di vedere Hashèm ovunque e di essere consci della Sua presenza in ogni cosa che facciamo non è una seconda natura (qualcosa che prende il posto della prima), ma è in effetti la nostra natura primaria, il nostro sé effettivo, che in realtà è la nostra vera essenza, ancora di più di quella che pensavamo fosse la nostra reale “prima” natura.
Questo è il significato profondo dell’espressione “accendere uno stoppino fino a che bruci da solo”: dobbiamo lottare per rifinire noi stessi, gli altri e il mondo intorno a noi fino a che la natura intrinseca di ogni persona e di ogni cosa venga rivelata, e quindi bruci di consapevolezza divina come parte della sua natura intrinseca. Solo quando avremo compiuto ciò, potremo dire di aver trasformato veramente e in modo completo questo mondo per essere un dimora di Hashèm, che si completerà nella redenzione finale.
Questo significa, allo stesso tempo, rivelare la nascosta divinità che si trova all’interno delle nostre ribellioni. Certamente, la rivolta (o, a un livello più sottile, l’idea di rivolta) deve essere domata il più velocemente possibile e questo ci richiede di “forzarci” ad acquisire una seconda natura, quella divina. Ma il modo più profondo per sedare una ribellione è di rivelare la sua vera natura: il rifiuto a ritenerci soddisfatti del grado di comprensione di Hashèm che abbiamo in quel momento e una reazione indignata verso la superficialità della relazione intrattenuta con l’Altissimo. La ribellione evidenzia la vera causa, cioè la disperazione: “Se questo è tutto ciò che c’è nella vita divina, io non lo voglio affatto!”
Viste da questa prospettiva, queste ribellioni articolano il nostro sincero desiderio di ritornare ad Hashèm (teshuvà), in modo da ristabilire la relazione con Lui a un livello molto più profondo di quanto non fosse mai stato prima. Le ribellioni del popolo ebraico, subito dopo la partenza per il loro importante viaggio, possono essere comprese in questa ottica; quindi, il posto adeguato per collocarle è certamente nella parashà il cui tema principale è alimentare la coscienza divina del mondo fino a che tutta la realtà non ne sia illuminata.
Questa è una delle ragioni per cui la Torà parla proprio di Aharòn come di colui che accende il Candelabro, anche se in effetti a chiunque – persino un laico – è permesso farlo[1]. Aharòn era famoso per il suo amore incondizionato per tutti, anche verso coloro i quali non possedevano altre qualità che li riscattasse se non quella di essere una creazione di Dio: “Sii tra i discepoli di Aharòn, che amano la pace e la ricercano, che amano tutte le creature e le avvicinano alla Torà”[2]. Aharòn si interessava persino di persone che sembravano molto distanti dalla santità, faceva fluire in loro la divina coscienza grazie all’amore che trasmetteva e accendeva la loro anima per attirarli sulla via di Hashèm. Questa accensione è quindi parallela al ruolo di Aharòn di portare in risalto l’essenza divina in ogni persona.
Quando riveliamo la nostra profonda natura divina, anche nei momenti più bassi della nostra vita, quando ci sentiamo il meno entusiasti possibile per tutto ciò che è santo, ecco che guadagniamo l’abilità di “accendere lo stoppino” della realtà “finché brucia da solo” in ogni circostanza e a ogni livello, e gli alti e bassi della vita diventano così parte dello stesso processo di “accensione dei lumi”[3].
Perciò la luce del Candelabro rappresenta la luce infinita che porterà Mashiàkh e che illuminerà la vera identità del creato, permettendoci di vedere il divino non solo come una natura secondaria, ma come l’unica vera natura del mondo che è la dimora di Hashèm.

(estratto dal nuovo libro della Torà Bemidbàr)


[1] Vedi 8, 2
[2] Avòt 1:12
[3] Sèfer Hassikhòt 5751, vol.2, pagg. 598-610

Il midrash ci racconta che questa è stata una delle situazioni in cui il popolo ebraico ha sbagliato, perciò la Torà interrompe la narrazione dei fatti per separare tra loro e le azioni sbagliate.
“Il popolo ebraico si allontanò dalla montagna di Hashèm…” (Bamidbàr 10, 33)

In che cosa sbagliarono gli ebrei allontanandosi dalla montagna di Hashèm? Effettivamente essi s’incamminarono soltanto quando Dio diede loro un segnale. Perciò, se hanno avuto il consenso per mettersi in viaggio, perché peccarono?
I rabbini spiegano che gli ebrei si spostarono come “bambini che escono da scuola”, di fretta, cioè ansiosi di lasciare il luogo di studio.
Il fatto che i bambini vogliano andarsene appena suona la campana è prevedibile ma quando degli adulti che hanno studiato e appreso la Torà di Hashèm per un anno, al monte Sinai, si affrettano ad andarsene, questo non è giustificabile e questo evento ci insegna che il popolo ebraico non aveva realmente interiorizzato la Torà.
Se guardiamo la Torà come un lavoro opprimente, essa non avrà un effetto positivo su di noi, arricchendo le nostre vite come dovrebbe.
Proviamo a pensare a questo ogni volta che finiamo di pregare o studiare Torà! Allora permettiamo alla Torà e alla tefillà di arricchire le nostre vite in modo che sia sempre un piacere per noi essere veri ebrei.

Speriamo presto di vedere la redenzione e il terzo Santuario e la verità che Hashem ha scelto in Israel e gli ha dato Eretz Hakodesh in eterno.

Riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.

BEHA’ALOTEKHA 5770 – POTERE ED INFLUENZA
Perché Moshè risponde in maniera così delicata alla “competizione” di Eldad e Medad, e invece con tanta aggressività alla “competizione” di Korakh?

BEHA’ALOTEKHA 5769 – PEGGIORE CRISI DI MOSHE!
Consiglio di Sigmund Freud al Rebbe di Lubavitch nel 1903 a Vienna!

BEHA’ALOTEKHA 5768 – COME VINCERE LA DEPRESSIONE SECONDO LA TORA!
Depressione? Non di notte!

BEHA’ALOTEKHA 5766 – MANNA, CIBO PER LO SPIRITO!
Dalla conversione di Yitrò al valore spirituale della manna, sollievo spirituale nell’attraversata del deserto!

BEHA’ALOTEKHA 5765 – ACCENDERE I LUMI DELLA MENORAH!
La prima lezione di Virtual Yeshiva sulla parashà di Beha’alotekha! Un contenuto di grande valore da non perdere!