Nitzavìm Vayelech 5784 : 3 LEZIONI
Questo Shabbàt 28 Settembre 2024, 25 del mese di ELUL 5784 leggeremo le Parashot di Nitzavìm Vayelech:
Deuteronomio 29: 9 – 31: 30
HAFTARÀ:
Italiani Gios. 8:30-9:27
Milano/Sefarditi/Ashkenaziti Is. 61:10-63:9
B’H’
Ci stiamo avvicinando all’ultimo Shabbàt dell’anno, una riflessione sul valore delle nostre azioni.
***
Perdonare i nostri nemici per ciò che ci hanno fatto è compito di Dio.
Il compito dell’esercito è quello di organizzare l’incontro tra loro.
Questa Guerra Finirà Mai?
Uno degli argomenti più interessanti sul futuro è quello che riguarda le mitzvòt nel tempo della redenzione/gheulà. Questa domanda assume maggiore importanza durante il mese di Elùl, un periodo in cui siamo impegnati a fare un resoconto spirituale dell’adempimento delle mitzvòt dell’anno precedente, di ciò che abbiamo fatto e non abbiamo fatto e di ciò che dobbiamo ancora fare.
In futuro, sentiremo ancora la paura degli imminenti giorni di Rosh Hashanà e Kippùr? In futuro, inizieremo a dire le Selikhòt/richieste di perdono prima del Capodanno ebraico?
Nelle parashòt di questa settimana, Nitzavìm-Vayèlekh, troviamo un versetto esplicito che fa luce sull’argomento (29, 28): “Le cose nascoste appartengono all’Eterno, il nostro Dio, ma le cose rivelate valgono per noi e per i nostri figli per sempre: dobbiamo adempiere tutte le parole di questa Torà”. Questo versetto ci insegna che è chiaro ed esplicito nella Torà che i comandamenti [divini] valgono per sempre… e di adempiere a tutte le direttive della Torà in eterno”, come dice il Ràmbam in Hilkhòt Yessodè Hatorà 9, 1, basandosi su questo versetto. Infatti, in Yemot HaMashìakh (I giorni del Mashìakh) adempiremo alle mitzvòt proprio come facciamo oggi.
Tuttavia, troviamo una dichiarazione dei Saggi che sembra contraddire ciò. La Ghemarà (Niddà 61a) dice: “Le mitzvòt saranno abrogate in futuro”, e questo è riportato nella halakhà/codice di leggi ed è il motivo per cui è permesso seppellire i morti coperti con tessuti fatti di kilayim (il divieto di indossare un misto di lana e lino), perché “le mitzvòt saranno abrogate in futuro”, quindi la persona morta non trasgredirà il divieto di kilàyim, né ora né in futuro.
Come possiamo conciliare tutto ciò?
LA VITTORIA FINALE NELLA GUERRA TRA IL BENE E IL MALE
Il primo a venirci in aiuto è l’Alter Rebbe con il Tanya. All’interno di una lunga lettera in cui spiega la questione dei Mitnagdim (oppositori della chassidùt) su ciò che ha detto il Baal Shem Tov, inserisce una breve riga (tra parentesi) che spiega questa palese contraddizione. Ecco cosa scrive:
“E quello che i nostri Saggi dicono che le mitzvòt saranno abrogati in futuro, questo sarà al tempo della Resurrezione dei Morti, ma nei Giorni del Mashìakh prima della Resurrezione dei Morti non saranno abrogati”.
Il Rebbe aggiunge una prova semplice e incisiva a ciò che l’Alter Rebbe dice a partire dalla mitzvà delle città rifugio (parashà Vaetkhannàn), dove la Torà ordina di aggiungere in futuro nell’era messianica altre tre città rifugio alle sei già esistenti. Quando dovremmo fare ciò? Solo quando “l’Eterno tuo Dio espande i tuoi confini” (Devarìm 19, 8) nella vera e completa redenzione! Quindi, non solo le mitzvòt non verranno annullate in futuro, ma ci saranno mitzvòt che si compiranno solo in futuro! Pertanto, dobbiamo dire che l’abrogazione delle mitzvòt avverrà solo in seguito, al momento della Resurrezione dei Morti. Nella prima fase dell’era messianica, le mitzvòt saranno una parte inseparabile della vita ebraica.
Inoltre, secondo la Chassidùt, solo nei Giorni del Mashìakh avremo il merito di compiere le mitzvòt nel modo più perfetto. Ogni mitzvà, infatti, dipende da tre fattori generali: 1) la persona che compie la mitzvà; 2) l’oggetto con cui compie la mitzvà; 3) l’ambiente generale (il mondo) in cui la mitzvà viene compiuta. Oggi, tutti e tre i fattori sono carenti. L’uomo non è perfetto, l’oggetto fisico è sotto l’influenza delle klipòt (buccia o guscio che nasconde il bene, simbolo del male), e pertanto il mondo soffre della malattia maligna chiamata “esilio della Shekhinà (la presenza Divina)”.
Ovviamente, in circostanze così basse dal punto di vista spirituale, è impossibile aspettarsi che le mitzvòt vengano compiute alla perfezione. Solo in futuro, nei Giorni del Mashìakh quando l’uomo sarà perfetto e l’oggetto fisico non sarà coperto dalle klipòt, e il mondo intero sarà elevato, arriverà il momento sperato in cui adempieremo alle mitzvòt “secondo il comando della Tua volontà”, proprio come Dio intendeva che le adempissimo.
Se è così, non solo le mitzvòt non saranno revocate nei Giorni del Mashìakh, ma sarà proprio allora che saranno adempiute alla massima perfezione.
Alcuni potrebbero essere turbarti leggendo questo. Vuoi dire che anche nei Giorni del Mashìakh dovremo lavorare sodo? Anche allora dovremo dire le Selikhòt (le preghiere penitenziali) per tutto ciò che non abbiamo fatto? Anche allora avremo un’inclinazione al male che non ci darà pace?
La Guerra È Finita
L’approccio del Rebbe a questo tema è innovativo e piuttosto interessante. In una lunga lettera, spiega a un certo Elchanan Cohen cosa accadrà alle anime ebraiche quando arriverà Mashìakh. Il Rebbe divide l’esistenza del mondo in tre epoche: 1) Questo mondo; 2) i Giorni del Mashìakh; 3) la Resurrezione dei morti.
1) La prima era è un tempo di guerra tra il bene e il male, tra lo spirituale e il materiale. E in guerra, a volte si vince e a volte…
2) Dopo la guerra, ci sarà la Gheulà (amen!), il popolo ebraico separerà il bene dal male e raggiungerà lo stato perfetto dell’uomo come prima del peccato dell’Albero della Conoscenza. Ciò significa che il mondo non sarà sotto il controllo delle klipòt, ma le klipòt esisteranno ancora nel mondo. A proposito di quest’epoca si dice: “e getterò su di voi acqua pura”, ma solo su “voi”, ogni singolo ebreo, il popolo ebraico nel suo insieme e quelli che hanno aiutato Israèl nella sua missione.
3) Solo nella terza era, quella della Risurrezione dei Morti, si compirà il versetto “e lo spirito di impurità toglierò dalla terra” e allora il male cesserà di esistere.
Secondo questa categorizzazione, nei Giorni del Mashìakh il male potrà ancora esistere, anche il male vero e proprio, e gli ebrei avranno ancora il libero arbitrio e potranno persino scegliere il male (Dio non voglia!). D’altra parte, questo male sarà solo esterno, ossia non sarà un male che è impiantato dentro di noi come oggi, non il male che ci disturba internamente. Non avremo una guerra interiore con lo yètzer (l’istinto al male) e non avremo bisogno di lavorare duramente per superarlo. Questo spiega anche perché nell’era della redenzione riceveremo una ricompensa per aver scelto il bene, perché non sarà automatico e sarà comunque una scelta. Tuttavia, non sarà una scelta difficile o complicata come lo è oggi che abbiamo il male dentro di noi, ma sarà semplice e (quasi) naturale.
Il Rebbe fa un paragone con la nostra epoca. Anche oggi dice il Talmùd “se non fosse per l’aiuto di Dio (verso l’essere umano, per superare l’inclinazione al male), l’uomo non potrebbe affrontarlo”.
Tuttavia, anche oggi abbiamo la ricompensa per aver fatto le mitzvòt, come si deduce dalla nostra parashà, perché nonostante l’aiuto dall’Alto, è ancora una nostra scelta, e se abbiamo scelto il bene meritiamo una ricompensa. Anche in futuro Dio ci aiuterà, molto più di quanto faccia oggi. Ci aiuterà con l’”acqua pura” che ci spruzzerà addosso. Ci purificherà a tal punto che il male ci abbandonerà. Immaginatevi una sensazione di purezza, più grande dell’immersione nel mikvè dell’Arizal (come simbolo di un luogo di grande santità) in una giornata torrida.
Ciò che dice il Rebbe fa luce sull’intera questione, al punto che il Rebbe stesso osserva, con modestia (com’è nel suo stile) e senza dilungarsi, che questo nuovo approccio spiega questioni complicate dei commentatori del Ràmbam (il Raavàd, il Kèssef Mishnè e il Lèkhem Mishnè) che molti commentatori hanno faticato a conciliare.
In sintesi, anche nei Giorni del Mashìakh, almeno nella prima parte, dovremo dire le Selikhòt per ciò che abbiamo fatto, ma possiamo presumere che non avremo molto per cui chiedere perdono.
Storia Conclusiva
Concludiamo con una storia chassidica per prepararci alle Selikhòt di motzaè Shabbàt.
IL LUOGO: Berditchev.
L’ORA: Erev Rosh Hashanà, nelle prime ore del mattino.
L’EVENTO: gli ebrei di Berditchev si recano a casa dello tzaddik, Rabbi Levi Yitzchok, per stare con lui per le Selikhòt, “Zechor Brit” (la preghiera del Ricordo del Patto il giorno prima di Rosh Hashanà).
Entrando in casa sua, non lo trovarono subito e questo fu strano. Dopo un po’, uscì dalla cucina con in mano un cestino che conteneva una bottiglia di mashke (vodka) e prodotti da forno.
“Venite, andiamo”, chiamò, e il gruppo si avviò. Rav Levi Yitzchok non entrò nella sinagoga ma andò oltre e i suoi stupiti chassidìm lo seguirono. Camminarono fino alla fine del paese, dove entrarono in una casa. Nell’aria c’era un odore sgradevole di tabacco e whisky. Sul pavimento di terra battuta dormivano ebrei e gentili, vicini come aringhe. Il suono del russare era così forte che poteva scacciare una mandria di elefanti. Rav Levi Yitzchok si avvicinò a uno dei dormienti, un ebreo magro che indossava gli tzitzìt e una grande yarmukla. Lo svegliò dolcemente e gli suggerì di bagnarsi la gola con un po’ di mashke e di mangiare qualche prodotto da forno.
L’ebreo guardò lo tzaddik, ma a causa della semioscurità non vide chi gli stesse parlando. Disse irritato: “A cosa stai pensando? Dovrei prendere la mashke senza lavarmi le mani? Come posso assaggiare qualcosa prima di essermi lavato le mani, aver fatto la tefillà e la bracha? Credi forse che io non sia un ebreo?”.
Rav Levi Yitzchok ripeté la cosa con alcuni altri ebrei e tutti risposero allo stesso modo. Poi svegliò un ragazzo e gli disse: “Ivan, alzati e bevi un po’ di whisky!”. Il ragazzo sentì solo l’odore della mashke e si alzò di scatto. Afferrò la tazza dello tzaddik e la svuotò in un sol sorso. Poi divorò allo stesso modo alcune aringhe e prodotti da forno e, quando vide che non c’era altro, si girò e tornò a russare.
Allora Rav Levi Yitzchok guardò verso il cielo e disse: “Maestro dell’universo, guarda dal cielo e vedi come quando Ya’akov si sveglia non pensa ai suoi bisogni corporei ma a quelli della sua neshamà. Non mangia e non beve finché non si lava le mani, non prega e non dice una bracha. Essàv, invece, afferra e mangia, afferra e beve, senza lavarsi le mani, senza una bracha”.
Con il volto splendente, lo tzaddik si rivolse ai suoi chassidìm e disse: “Ora, andiamo a ‘Zechor Brit’”.
CHI HA IL DIRITTO DI
“RIMPACCHETTARE” L’EBRAISMO?
Se Uscire Dalla Scatola o No”: Un Dibattito Lungo 2000 Anni
La porzione di questa settimana (Vayèlekh) racconta gli eventi drammatici che si sono verificati durante l’ultimo giorno di Mosè sulla terra. Tra le tante cose che egli ha fatto in quella fatidica giornata ha TRASCRITTO l’intero Pentateuco, i Cinque Libri della Torà. I rotoli di Torà che usiamo oggi sono copie, di copie, di copie dell’originale rotolo della Torà scritto da Mosè nel giorno del suo passaggio, il 7 Adar dell’anno 2488, esattamente 3.292 anni fa.
Dopo aver completato la scrittura di tutta la Torà, Mosè comanda ai Leviti: «Prendi questo rotolo della Torà e mettilo al fianco dell’Arca dell’Alleanza del Signore tuo Dio e sarà come un testimone per te» (Vayèlekh 31, 26). Il Tabernacolo nel deserto e più tardi il Tempio di Gerusalemme ospita l’Arca Santa contenente le due Tavole con incisi i Dieci Comandamenti e il nuovo rotolo della Torà, appena completato, deve essere posto al fianco di questa Arca.
L’esatta posizione del rotolo della Torà sul lato dell’arca ha ispirato un dibattito tra i saggi del Talmud (Torà Orale): Rabbì Meìr sosteneva che il rotolo della Torà doveva essere collocato nell’Arca, a lato delle Due Tavole; Rabbì Yehudà era del parere che una mensola sporgeva dall’esterno dell’Arca e che il rotolo della Torà veniva posto su quel ripiano.
Essendo questa discussione parte della Torà Orale vuole dire che entrambe le opinioni sono VERE e ogni versione ha un messaggio di vita celato voluto da Dio.
Le loro diverse tesi originano non da loro mere interpretazioni personali, ma dal fatto che i due grandi maestri accoglievano una tradizione differente delle parole di Mosè sopra citate: «Prendi questo rotolo della Torà e mettilo al fianco dell’Arca». Secondo Rabbì Yehudà il verso “al fianco dell’Arca” deve essere inteso letteralmente e che quindi il rotolo della Torà stava fuori dell’Arca. Rabbì Mèir, d’altra parte, ha ricevuto dai suoi maestri, che le parole “a fianco dell’Arca” intendono solo dirci che il rotolo della Torà deve essere posto non tra le due tavole della legge ma piuttosto sul lato delle tavole accanto alla parete interna dell’Arca.
Essendo questa discussione parte della Torà Orale vuole dire che entrambe le opinioni sono VERE e ogni versione ha un messaggio di vita celato voluto da Dio.
Le loro diverse tesi originano non da loro mere interpretazioni personali, ma dal fatto che i due grandi maestri accoglievano una tradizione differente delle parole di Mosè sopra citate: «Prendi questo rotolo della Torà e mettilo al fianco dell’Arca». Secondo Rabbì Yehudà il verso “al fianco dell’Arca” deve essere inteso letteralmente e che quindi il rotolo della Torà stava fuori dell’Arca. Rabbì Mèir, d’altra parte, ha ricevuto dai suoi maestri, che le parole “a fianco dell’Arca” intendono solo dirci che il rotolo della Torà deve essere posto non tra le due tavole della legge ma piuttosto sul lato delle tavole accanto alla parete interna dell’Arca.
Alcune domande:
Non è chiaro perché Rabbì Meìr interpreta in un modo che (apparentemente) distorce il significato letterale delle parole “sul fianco dell’Arca”? Perché Rabbì Meìr non abbraccia la semplice e diretta spiegazione di Rabbì Yehudà secondo cui quando Mosè istruì di appoggiare il rotolo della Torà “sul fianco dell’Arca” significa letteralmente fuori dall’Arca?
In secondo luogo, perché c’è la necessità avere il rotolo della Torà così vicino all’Arca?
Come spiegato, numerose volte, tutti i comandamenti ed episodi della Torà sono la trascrizione del progetto che Dio ha fatto per noi, una sorta di “mappa” per guidarci negli impervi e insidiosi percorsi della vita. Come può un essere umano del XXI secolo godere della saggezza e trarre ispirazione da un antico comandamento solo per il fatto che è stato messo un rotolo della Torà al fianco dell’Arca, piuttosto che dentro? In un momento in cui non abbiamo l’arca e il Tempio quale tipo di utilità può avere oggi per noi il precetto che Mosè diede ai Leviti?
La Radice e I Rami
I nostri saggi hanno detto che i dieci comandamenti ricevuti nel monte Sinày e iscritti sulle due Tavole dell’Alleanza che si trovano dentro l’Arca Santa, raffigurano la quintessenza dell’intera Torà: tutte le prospettive, i temi, le idee, le leggi, l’etica e le storie dei cinque libri della Torà sono incapsulate nelle sole 620 lettere dei Dieci Comandamenti. Quindi, tutta la Torà di Mosè è essenzialmente un commento ai Dieci Comandamenti che elabora e spiega il significato di questi dieci pilastri della fede ebraica.
Se le tavolette costituiscono la fonte, l’epicentro, il nucleo dell’ebraismo; i cinque Libri sono la loro elaborazione, spiegazione ed espansione.
Il dibattito tra Rabbì Mèir e Rabbì Yehudà, circa la collocazione del rotolo della Torà, non è solo un argomento tecnico sulla vicinanza di due entità fisiche; ma piuttosto una divergenza sulle metodologie fondamentali, sullo sviluppo e la divulgazione dell’ebraismo.
Quanto abbiamo bisogno di sostenere la connessione tra il nucleo della Torà e la sua interpretazione? Siamo in grado di “staccarci dalla scatola” contenente le Tavole dei dieci comandamenti senza perdere la “sostanza, il suo fulcro”?
Questo non è affatto un dilemma astratto. Come si comunicano le verità antiche a una giovane generazione modellata in una vita secolare? Come si presenta una Torà che ha più di 3.332 anni di età a un uomo moderno abituato a interagire con gli IPhone del 21° secolo? Come facciamo a spiegare o rendere attuale la frase: “In principio Dio ha creato il cielo e la terra” ai laureati della Normale di Pisa o dell’Università Statale di Milano per i quali Charles Darwin ha più sovranità, in questo mondo, di Mosè?
Dobbiamo presentare l’ebraismo nella sua forma e composizione originale, senza impiegare termini, tecniche e strutture del pensiero moderno o possiamo portare l’ebraismo “fuori dalla scatola” e RICONFEZIONARLO nel linguaggio contemporaneo?
L’argomento è attualissimo! Alcuni insegnanti e divulgatori dell’ebraismo sono accusati di non avere la capacità di comunicare alla “nuova generazione”, mentre altri insegnanti sono accusati di “liberalizzare” troppo il pensiero ebraico e di diluirlo per accogliere la società moderna.
Possiamo prendere esempio da uno dei Dieci Martiri uccisi dai romani nel secondo secolo, Rabbì Khutzpìt HameTurgeman, il cui nome significa Khutzpìt “Il traduttore”. Egli aveva la funzione di tradurre e spiegare alla massa gli insegnamenti del Capo della Yeshivà.
I Cabbalisti dicono che per chiarire e presentare qualcosa in una nuova forma devi avere tanta khutzpà – sfrontataggine, quindi il suo nome era Khutzpìt, poiché elaborava con sue parole l’insegnamento del grande Maestro, per renderlo comprensibile al popolo. Da questo si evince che il messaggio viene tradotto, ma non “adattato”.
La Luce e il Recipiente
Nel Talmud è espresso un pensiero profondamente commovente su Rabbì Meìr: “È noto al Creatore del Mondo che Rabbì Meìr ha superato tutta la sua generazione e non ha avuto uguali. Perché allora non hanno stabilito sempre la legge secondo la sua opinione? Poiché i Saggi non riuscivano a comprendere sempre la profondità della sua saggezza”. Rabbì Meìr è stato spesso frainteso dai suoi colleghi, poiché le sue idee erano troppo avanzate per i suoi tempi.
Infatti “Meir” in ebraico significa illuminazione. La luce che emerse dalla mente e dal cuore di Rabbì Meìr era troppo profonda per i suoi colleghi e studenti. Perché? Perché Rabbì Meìr seguiva la tradizione secondo cui tutta l’interpretazione e lo sviluppo del pensiero della Torà devono rimanere intimamente legati alla sua fonte. Il commento e l’esposizione non possono mai staccarsi dallo spazio del loro progenitore. Il rotolo della Torà deve essere posto proprio accanto alle Tavole. Chi diluisce la luce della Torà, per renderla più “accogliente”, compie un’ingiustizia verso l’integrità e la purezza del suo messaggio Divino.
Secondo la tradizione seguita da Rabbì Yehudà, tuttavia, la parola di Dio può lasciare l’Arca Sacra ed essere portata all’esterno per renderla più comprensibile al RECIPIENTE.
Yehudà in ebraico, significa umiltà o sottomissione. Ovvero bisogna abbandonare il proprio stato di coscienza elevato al fine di raggiungere e presentare la Torà allo studente che non può assorbire la luce intensa che c’è “dentro l’Arca”. L’ebraismo, sostenuto da Rabbì Yehudà, doveva essere presentato in modo da renderlo più comprensibile possibile, anche a persone formate in una mentalità diversa e persino a quelle istruite nelle scuole di Atene.
Secondo Rabbì Yehudà, questo è un grande atto nobile che ci costringe a cambiare radicalmente: facile è ripetere le vecchie frasi e parole, per rimanere sicuri negli antichi percorsi. Difficile è invece uscire e trascendere i nostri “sicuri” e “comodi” metodi di insegnamento, per portare la luce e la verità della Torà a quelli che ne sono lontani.
Tuttavia anche per Rabbì Yehudà la Torà deve sempre rimanere collegata alla sua fonte per mezzo di una tavola di legno.
Ciò significa che c’è una differenza tra presentare l’ebraismo nella terminologia e nella metodologia che può parlare alla mente e al cuore dell’uomo moderno, rispetto al tentativo di trasformare l’ebraismo per renderlo conforme alle tendenze della società moderna. Il primo è un percorso nobile, mentre quest’ultimo percorso è disonesto, poiché non cerca di scoprire il messaggio autentico dell’ebraismo, ma crea una nuova forma di giudaismo che non “disturba” le esigenze dell’ebreo moderno.
Questa distinzione tra i due approcci è stata profondamente offuscata negli ultimi anni e i risultati sono evidenti. L’approccio precedente ha dato a innumerevoli studenti l’opportunità di confrontarsi con le verità divine della Torà; il secondo approccio più “moderno” approccio ha portato la Torà ad “adattarsi” alla fantasia di ogni immaginazione.
Alla fine si arriva alla domanda: quanto siamo sicuri nella verità della Torà? Stiamo impiegando il pensiero moderno per comunicare la Torà e l’ebraismo o lo stiamo alleggerendo per conformarlo agli altri?
Rabbì Yehudà ci risponde così: quando il tuo viaggio è “fuori dalla scatola”, una “tavola di legno” deve sempre connetterti alle originali e intatte “tavolette” all’interno della scatola. Il legame tra il nucleo della Torà e le sue espansioni deve sempre rimanere MOLTO evidente e rivelato. In caso contrario, potresti privare te stesso e i tuoi studenti dalle vibranti fonti di divinità della parola di Dio.
Facili Messaggi
Non molto tempo fa ho avuto una conversazione con un amico, un rabbino popolare, che è fortemente coinvolto nella trasmissione del giudaismo nel mondo secolare. Gli ho detto che, a mio modesto parere, la sua comunicazione dei valori ebraici mancava l’energia che emana da qualcuno che è radicato nel serio apprendimento della Torà. Gli ho detto che occorre dedicare ogni giorno a studiare il Talmud, anche e soprattutto quelle parti che si occupano di leggi complicate e non di “consumo pubblico”. Solo quando sarà radicato nella “fonte della saggezza”, la sua comunicazione al mondo esterno sarà reale ed efficace. Alla fine ha rifiutato il mio consiglio. Eppure credo che questa sia la verità: solo quando sei sommerso nel più alto e profondo livello dello studio della Torà, la tua comunicazione dell’ebraismo sarà autentica ed efficace. Solo allora si potrà trovare la forza di trasportare i Rotoli anche fuori dalla Santa Arca, perché esiste sempre una “tavola di legno” che collega l’esterno verso l’interno.
E qui arriva l’insegnamento fondamentale al giorno d’oggi:
Chi ha il diritto di “RICONFEZIONARE” l’ebraismo? Solo qualcuno che è totalmente umile (Yehudà) e non ha alcun ego coinvolto; qualcuno il cui unico scopo è quello di condividere la parola di Hashèm con gli altri, una persona che è completamente fedele alla fonte autentica. In mancanza di queste qualità si rischia solo di compromettere e diluire, o Dio non voglia, addirittura pervertire, l’acqua pura dell’ebraismo con “batteri patogeni” di tendenze e nozioni che sono estranei alla Torà.
Come è scritto nel primo capitolo delle Massime dei Padri:
«Segui l’esempio di Aharòn: amava la pace e rincorreva la pace. Amava tutte le persone e le avvicinava col suo amore alla Torà».
OCCORRE PORTARE LE PERSONE ALLA TORÀ E NON LA TORÀ ALLE PERSONE!!!
I nostri saggi hanno detto che i dieci comandamenti ricevuti nel monte Sinày e iscritti sulle due Tavole dell’Alleanza che si trovano dentro l’Arca Santa, raffigurano la quintessenza dell’intera Torà: tutte le prospettive, i temi, le idee, le leggi, l’etica e le storie dei cinque libri della Torà sono incapsulate nelle sole 620 lettere dei Dieci Comandamenti. Quindi, tutta la Torà di Mosè è essenzialmente un commento ai Dieci Comandamenti che elabora e spiega il significato di questi dieci pilastri della fede ebraica.
Se le tavolette costituiscono la fonte, l’epicentro, il nucleo dell’ebraismo; i cinque Libri sono la loro elaborazione, spiegazione ed espansione.
Il dibattito tra Rabbì Mèir e Rabbì Yehudà, circa la collocazione del rotolo della Torà, non è solo un argomento tecnico sulla vicinanza di due entità fisiche; ma piuttosto una divergenza sulle metodologie fondamentali, sullo sviluppo e la divulgazione dell’ebraismo.
Quanto abbiamo bisogno di sostenere la connessione tra il nucleo della Torà e la sua interpretazione? Siamo in grado di “staccarci dalla scatola” contenente le Tavole dei dieci comandamenti senza perdere la “sostanza, il suo fulcro”?
Questo non è affatto un dilemma astratto. Come si comunicano le verità antiche a una giovane generazione modellata in una vita secolare? Come si presenta una Torà che ha più di 3.332 anni di età a un uomo moderno abituato a interagire con gli IPhone del 21° secolo? Come facciamo a spiegare o rendere attuale la frase: “In principio Dio ha creato il cielo e la terra” ai laureati della Normale di Pisa o dell’Università Statale di Milano per i quali Charles Darwin ha più sovranità, in questo mondo, di Mosè?
Dobbiamo presentare l’ebraismo nella sua forma e composizione originale, senza impiegare termini, tecniche e strutture del pensiero moderno o possiamo portare l’ebraismo “fuori dalla scatola” e RICONFEZIONARLO nel linguaggio contemporaneo?
L’argomento è attualissimo! Alcuni insegnanti e divulgatori dell’ebraismo sono accusati di non avere la capacità di comunicare alla “nuova generazione”, mentre altri insegnanti sono accusati di “liberalizzare” troppo il pensiero ebraico e di diluirlo per accogliere la società moderna.
Possiamo prendere esempio da uno dei Dieci Martiri uccisi dai romani nel secondo secolo, Rabbì Khutzpìt HameTurgeman, il cui nome significa Khutzpìt “Il traduttore”. Egli aveva la funzione di tradurre e spiegare alla massa gli insegnamenti del Capo della Yeshivà.
I Cabbalisti dicono che per chiarire e presentare qualcosa in una nuova forma devi avere tanta khutzpà – sfrontataggine, quindi il suo nome era Khutzpìt, poiché elaborava con sue parole l’insegnamento del grande Maestro, per renderlo comprensibile al popolo. Da questo si evince che il messaggio viene tradotto, ma non “adattato”.
Nel Talmud è espresso un pensiero profondamente commovente su Rabbì Meìr: “È noto al Creatore del Mondo che Rabbì Meìr ha superato tutta la sua generazione e non ha avuto uguali. Perché allora non hanno stabilito sempre la legge secondo la sua opinione? Poiché i Saggi non riuscivano a comprendere sempre la profondità della sua saggezza”. Rabbì Meìr è stato spesso frainteso dai suoi colleghi, poiché le sue idee erano troppo avanzate per i suoi tempi.
Infatti “Meir” in ebraico significa illuminazione. La luce che emerse dalla mente e dal cuore di Rabbì Meìr era troppo profonda per i suoi colleghi e studenti. Perché? Perché Rabbì Meìr seguiva la tradizione secondo cui tutta l’interpretazione e lo sviluppo del pensiero della Torà devono rimanere intimamente legati alla sua fonte. Il commento e l’esposizione non possono mai staccarsi dallo spazio del loro progenitore. Il rotolo della Torà deve essere posto proprio accanto alle Tavole. Chi diluisce la luce della Torà, per renderla più “accogliente”, compie un’ingiustizia verso l’integrità e la purezza del suo messaggio Divino.
Yehudà in ebraico, significa umiltà o sottomissione. Ovvero bisogna abbandonare il proprio stato di coscienza elevato al fine di raggiungere e presentare la Torà allo studente che non può assorbire la luce intensa che c’è “dentro l’Arca”. L’ebraismo, sostenuto da Rabbì Yehudà, doveva essere presentato in modo da renderlo più comprensibile possibile, anche a persone formate in una mentalità diversa e persino a quelle istruite nelle scuole di Atene.
Secondo Rabbì Yehudà, questo è un grande atto nobile che ci costringe a cambiare radicalmente: facile è ripetere le vecchie frasi e parole, per rimanere sicuri negli antichi percorsi. Difficile è invece uscire e trascendere i nostri “sicuri” e “comodi” metodi di insegnamento, per portare la luce e la verità della Torà a quelli che ne sono lontani.
Tuttavia anche per Rabbì Yehudà la Torà deve sempre rimanere collegata alla sua fonte per mezzo di una tavola di legno.
Ciò significa che c’è una differenza tra presentare l’ebraismo nella terminologia e nella metodologia che può parlare alla mente e al cuore dell’uomo moderno, rispetto al tentativo di trasformare l’ebraismo per renderlo conforme alle tendenze della società moderna. Il primo è un percorso nobile, mentre quest’ultimo percorso è disonesto, poiché non cerca di scoprire il messaggio autentico dell’ebraismo, ma crea una nuova forma di giudaismo che non “disturba” le esigenze dell’ebreo moderno.
Questa distinzione tra i due approcci è stata profondamente offuscata negli ultimi anni e i risultati sono evidenti. L’approccio precedente ha dato a innumerevoli studenti l’opportunità di confrontarsi con le verità divine della Torà; il secondo approccio più “moderno” approccio ha portato la Torà ad “adattarsi” alla fantasia di ogni immaginazione.
Alla fine si arriva alla domanda: quanto siamo sicuri nella verità della Torà? Stiamo impiegando il pensiero moderno per comunicare la Torà e l’ebraismo o lo stiamo alleggerendo per conformarlo agli altri?
Rabbì Yehudà ci risponde così: quando il tuo viaggio è “fuori dalla scatola”, una “tavola di legno” deve sempre connetterti alle originali e intatte “tavolette” all’interno della scatola. Il legame tra il nucleo della Torà e le sue espansioni deve sempre rimanere MOLTO evidente e rivelato. In caso contrario, potresti privare te stesso e i tuoi studenti dalle vibranti fonti di divinità della parola di Dio.
Non molto tempo fa ho avuto una conversazione con un amico, un rabbino popolare, che è fortemente coinvolto nella trasmissione del giudaismo nel mondo secolare. Gli ho detto che, a mio modesto parere, la sua comunicazione dei valori ebraici mancava l’energia che emana da qualcuno che è radicato nel serio apprendimento della Torà. Gli ho detto che occorre dedicare ogni giorno a studiare il Talmud, anche e soprattutto quelle parti che si occupano di leggi complicate e non di “consumo pubblico”. Solo quando sarà radicato nella “fonte della saggezza”, la sua comunicazione al mondo esterno sarà reale ed efficace. Alla fine ha rifiutato il mio consiglio. Eppure credo che questa sia la verità: solo quando sei sommerso nel più alto e profondo livello dello studio della Torà, la tua comunicazione dell’ebraismo sarà autentica ed efficace. Solo allora si potrà trovare la forza di trasportare i Rotoli anche fuori dalla Santa Arca, perché esiste sempre una “tavola di legno” che collega l’esterno verso l’interno.
Chi ha il diritto di “RICONFEZIONARE” l’ebraismo? Solo qualcuno che è totalmente umile (Yehudà) e non ha alcun ego coinvolto; qualcuno il cui unico scopo è quello di condividere la parola di Hashèm con gli altri, una persona che è completamente fedele alla fonte autentica. In mancanza di queste qualità si rischia solo di compromettere e diluire, o Dio non voglia, addirittura pervertire, l’acqua pura dell’ebraismo con “batteri patogeni” di tendenze e nozioni che sono estranei alla Torà.
«Segui l’esempio di Aharòn: amava la pace e rincorreva la pace. Amava tutte le persone e le avvicinava col suo amore alla Torà».
OCCORRE PORTARE LE PERSONE ALLA TORÀ E NON LA TORÀ ALLE PERSONE!!!
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Basato su un discorso del Rebbe di Lubàvitch e uno scritto di YY Jacobson N.Y.
MELE O MIELE?
Domanda:
Rosh Hashanà mangiamo mele intinte nel miele come augurio di un nuovo anno dolce.
Durante il rito della sera di Rosh Hashanà facciamo tanti atti simbolici e il più importante e più famoso di tutti è proprio MELE e MIELE.
La domanda è spontanea, perché questa usanza è la più osservata da tutti e perché si unisce proprio le mele e miele? Ci sono molti cibi dolci. C’è qualcosa di significativo tra di loro?
Risposta:
C’è una differenza tra la dolcezza di una mela e la dolcezza del miele.
La mela è un frutto dolce che cresce su un albero. Non c’è niente di sorprendente: molti frutti sono dolci per cui è una dolcezza NATURALE e SCONTATA.
Ma il miele deriva da un’ape un insetto che non solo è immangiabile ed amaro, ma ancora peggio delle volte ci può pungere e fare male.
Tuttavia il miele che produce è dolce, addirittura il miele è più dolce delle mele!!!
Allo stesso modo, ci sono due tipi di dolcezze nella nostra vita: abbiamo momenti di celebrazione familiare, successi nelle nostre carriere, trionfi personali e relazioni armoniose. Questi sono momenti dolci che diamo per scontati, proprio come la mela che è dolce, perché un frutto è dolce.
Poi c’è un diverso tipo di dolcezza, una dolcezza che proviene nei tempi di ostacoli e prove: quando le cose non vanno nel modo in cui vorremmo; quando ci colpisce una tragedia; quando il nostro lavoro rischia di saltare; quando non riusciamo a raggiungere gli obiettivi che ci proponiamo; quando i nostri rapporti con gli altri divengono tesi e sono messi a dura prova; o quando ci sentiamo abbandonati.
Nel momento in cui affrontiamo queste sfide queste ci sembrano amare e insormontabili, come la puntura di un’ape che non ha niente di buono e ci provoca solo dolore.
Ma se siamo forti e sopportiamo i tempi difficili con la forza interiore che abbiamo e superiamo gli ostacoli per trasformarli in felicità, riveleremo gli strati nascosti della nostra personalità. Aspetti che non avremmo mai saputo di avere se non fossimo stati messi alla prova. Come avere un motore di una Ferrari e andare a 50km all’ora. Senza un autodromo con dei lunghi rettilinei, non scopriremmo mai il potenziale della nostra “Ferrari”.
Qualcosa di più profondo viene estrapolato quando siamo testati. La tensione in una relazione è dolorosa, ma non c’è niente di meglio che riconciliarsi dopo quella tensione.
Perdere un lavoro è degradante, ma spesso troviamo cose più grandi e migliori per andare avanti: SI CHIUDE UNA PORTA E SI APRE UN PORTONE!
La solitudine può intristirci, ma ci può aprire i livelli più alti di conoscenza di sé.
Abbiamo tutti passato degli eventi negativi nelle nostre vite che in quel momento erano MOLTO dolorosi, ma in retrospettiva abbiamo detto: “Grazie a Dio per i tempi difficili, immaginate dove saremmo senza di loro!”
Così mangiamo mele e miele il primo giorno del nuovo anno: due parole molto simili, ma il miele ha la lettera “I” in più, che ha qualcosa in più da darci.
Ci si benedice l’un l’altro e ci si augura che nel prossimo anno le mele ci porteranno tanta dolcezza (tanti eventi felici) e che le api con i loro pungiglioni (prove della vita) diventino ancora più dolci delle mele e che potremo vedere il bene nascosto in tutti gli ostacoli e prove delle vita e uscirne più forti di prima!
LA DOLCEZZA DEL MIELE È SUPERIORE ALLE MELE, SOLO SE NELLE PROVE VIENE FUORI LA NOSTRA “FERRARI NASCOSTA”!
SHANA TOVA UMETUKA – ANNO FELICE E “MOLTO” DOLCE
La porzione di questa settimana (Vayèlekh) racconta gli eventi drammatici che si sono verificati durante l’ultimo giorno di Mosè sulla terra. Tra le tante cose che egli ha fatto in quella fatidica giornata ha TRASCRITTO l’intero Pentateuco, i Cinque Libri della Torà. I rotoli di Torà che usiamo oggi sono copie, di copie, di copie dell’originale rotolo della Torà scritto da Mosè nel giorno del suo passaggio, il 7 Adar dell’anno 2488, esattamente 3.292 anni fa.
Dopo aver completato la scrittura di tutta la Torà, Mosè comanda ai Leviti: «Prendi questo rotolo della Torà e mettilo al fianco dell’Arca dell’Alleanza del Signore tuo Dio e sarà come un testimone per te» (Vayèlekh 31, 26). Il Tabernacolo nel deserto e più tardi il Tempio di Gerusalemme ospita l’Arca Santa contenente le due Tavole con incisi i Dieci Comandamenti e il nuovo rotolo della Torà, appena completato, deve essere posto al fianco di questa Arca.
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La nona sezione del libro del Deuteronomio continua con la descrizione del terzo e ultimo discorso di addio di Moshè a Israèl. Moshè inizia con il racconto di come “andò” (vayèlekh, in ebraico) a nominare Yehoshù’a come suo successore. Poi continua con il racconto di come Moshè ha scritto la Torà e ordinato al popolo di radunarsi ogni sette anni per ascoltarlo leggere nel Santuario.
Moshè informa il popolo che questo giorno, il 7 di Adàr, il suo centoventesimo compleanno, sarà anche il giorno della sua morte.
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Ci troviamo alla vigilia di Shabbat Shuva o Shabbat Teshuvà che è il Shabbat tra Rosh Hashanà e Yom Kippur.
Shabbat vuole dire gioia e allegria e teshuvà vuole dire pentimento e pianto per gli errori passati per cui come possono le due cose conciliare???
Il pensiero della Khassidut insegna che in ogni cosa bisogna trovare il lato felice e allegro. Che bisogna sempre vedere il positivo che c’è in ogni cosa per cui anche nella settimana del pentimento quando arriviamo al giorno allegro dello Shabbat possiamo e dobbiamo trovare il lato positivo e allegro della Teshuvà.
In primis dobbiamo essere felici perché stiamo ritornando al PADRE ETERNO e alle nostre origini ed è la cosa più bella riconciliare con il porprio Padre.
Poi come tutte le mizvòt bisogna farle con allegria anche questa va fatta con allegria, come abbiamo letto nella parashà di Ki Tavò che tutti i problemi arrivano principalmente perché abbiamo servito Hashem senza felicità.
Durante il periodo del comunismo un khassid ha fatto la aliyà in Israele dalla Russia e finalmente ha potuto portare i suoi tefillin da un sofer per farli controllare. Questo sofer come li apre si rende conto che non erano kasher e forse non lo sono mai stati ma non sa come comunicare questo spiacevoloe messaggio al khassid. Quando il nuovo arrivato capisce che i suoi tefillin non sono kasher inizia a ballare di gioia come se avesse vinto la lotteria…
Il sofer molto stupito non capisce la grande gioia e gli chiede: come mai sei così felice? Il khassid risponde: perché adesso sono sicuro che da domani metterò tefillin KASHER.
Anche la peggiore notizia che fino ad ora metteva tefillin non kasher può essere e deve essere ribaltata in positivo e in gioia.
Questo è il modo di servire Hashem Shabbat Shuvà!
Ti riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.
Shabbat Shalom e Gmar Khatima Tovà
Rav Shlomo Bekhor
se il talmid non va dal rabbi, il rabbi va dal talmid!
Non perdere l’appuntamento con la parash・ mistica e psicologia nella Tora
Per informazioni: www.virtualyeshiva.it
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Al seguente link potrai scaricare la lezione della Parashà di questa settimana sul tuo mobile:
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C’era un chassid che, ogni volta che gli si avvicinava con la richiesta di una donazione per beneficenza, si metteva la mano in tasca e tirava fuori alcune monete. Poi, con un borbottio frettoloso, “solo un minuto…”, si sarebbe di nuovo scavato in tasca e avrebbe tirato fuori altre monete.
I link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.
Shabbat Shalom e
Rav Shlomo Bekhor
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Dopo quattro millenni, gli occhi del mondo sono sempre puntati su Israele!!!
PERCHE’?
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commento di Kippur dell’anno scorso altamente consigliabile:
L’IMPOSSIBILE È POSSIBILE!
NITZAVIM
NITZAVIM 5765 – UNO PER TUTTI E TUTTI PER UNO!
L’Unità del popolo ebraico: una breve ma interessante lezione su Nitzavim.