Questo Shabbàt 14 Dicembre 2024, 13 del mese di Kislèv 5785 leggeremo la Parashà di Vayishlàkh Gen. 32,4-36,43.
Si legge l’Haftarà di
Italiani-Sefarditi: Obadià 1, 1-21
Askenaziti: Osea 12°, 13-14°, 10
Questa settimana (9/12/24) si è tenuto l’incontro in Israele tra Geert Wilders, leader del più grande partito al Parlamento e al governo olandese, e il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Durante l’incontro il premier olandese ha detto parole molto saggie che hanno dimostrato che è una persona di alto spessore intellettuale e degno di essere il leader di uno stato democratico e sovrano:
“In quest’ultimo anno Israele, grazie alle scelte di Bibi ha sconfitto Hamas e Hezbollah e l’Iran è stato indebolito notevolmente. Tutto questo lavoro complicato e pericoloso ha fatto di più per combattere il terrorismo internazionale di quanto L’Unione Europea ha fatto negli ultimi 70 anni”.
Pochi hanno il coraggio di dire queste verità, ma qualcuno di autentico e sincero esiste nella falsa Europa (Eurabia)!
L’Europa dovrebbe sostenere Israele a spada tratta, visto che combatte la guerra contro l’asse del male e contro il fanatismo religioso anche per conto del vecchio continente. Meno male che qualcuno è “rimasto normale” come Wilders e appoggia Israele e anche lo ringrazia, cosa che gli altri capi di stato non hanno ancora fatto.
UN DETTAGLIO DA NON PERDERE
Vorrei fare notare una cosa MOLTO INTERESSANTE. In questo incontro si vede nella foto qui riportata che sotto la mano di Bibi ci sono i libri di Tanya che sono stati stampati in Libano, a Beirut, durante la guerra del Libano. Non solo ma si vede accanto ai Tanya la foto di quando Bibi è stato dal REBBE di Lubavitch e ha ricevuto una benedizione di successo e il consiglio di non farsi intimidire dalle falsità del mondo e in particolare dell’ONU.
Si vede che Bibi ci tiene a queste benedizioni e quando incontra un vero leader politico, ci tiene a evidenziare che sotto la sua stretta di mano c’è una benedizione infallibile della guida della generazione.
Grazie Rebbe e grazie Bibi!
GLI EBREI SONO IL POPOLO ELETTO?
Perché L’ossessione per Israele e gli Ebrei?
Iniziamo con una storia che rappresenta perfettamente la riflessione “atomica” sul concetto del popolo eletto che verrà trattato subito dopo.
Il mio caro amico Gregory Bronfman, nato a Lippoli, poi trasferitosi in Israele, è venuto tempo fa in Italia a studiare a Pavia, dove risiede tuttora con la sua famiglia. Essendo un chimico ha lavorato come Quality Assurance manager di una fabbrica, a Settimo Milanese, l’azienda si chiamava Teva – Industrie Chimiche Italiane. Nel 2004, questa azienda è stata sottoposta a un’ispezione da parte della KIFDA: l’ente che certifica la bontà dei farmaci per lo stato della Corea del Sud. La sig. Hyeon Jeong Kim ha svolto i controlli per conto del suo paese che intendeva acquistare i farmaci della Teva, così da introdurli nel sistema sanitario coreano.
Durante la pausa pranzo la, l’ispettrice coreana pose a Gregory e a Adi Lavi una domanda “fuori contesto” che la incuriosiva parecchio: «Siccome noto che voi siete israeliani immagino che siete ebrei?». E Gregory e la sua collaboratrice risposero di sì. Allora la Sig. Hyeon gli chiese se potesse fare anche una domanda indiscreta. E gli risposero di sì. Allora Hyeon chiese: «Voi siete orgogliosi di essere ebrei? Are you proud to be Jews?».
Questa domanda li ha lasciati spiazzati ed entrambi si guardarono negli occhi, senza avere risposta. Adi risponde prima di Gregory: «Perché dovremmo essere orgogliosi? Siamo solo nati ebrei». Allora la coreana che era una studiosa di storia di religioni rimase sorpresa della risposta banale e gli disse: «Dovreste essere orgogliosi di chi siete e del vostro tesoro spirituale, Dio ha dato la Bibbia a voi e non a nessun altro popolo»!!!
Adi e Gregory si guardarono un po’ imbarazzati e Gregory gli disse: «Se qualcuno ci fa ancora questa domanda, adesso sappiamo cosa rispondere». Adi confermò pienamente questa affermazione. Da questa storia loro hanno imparato che da una parte non si può ignorare che Israele non è un popolo come gli altri, e dall’altra parte spesso questa missione spirituale non crea un sentimento di superiorità ma il contrario, proprio come Adi rispose “siamo solo nati ebrei”, questo appartenenza non ci dà alcun sentimenti di supremazia.
(ps vedi le business card di Adi e di Kim)
Concetto di Popolo Eletto Causa Antisemitismo?
L’unica spiegazione razionale dell’odio ossessivo per Israele e per gli ebrei, si basa sul fatto che gli ebrei sono il popolo eletto da Dio per rendere il mondo un luogo di bontà e gentilezza, e non tutti riescono a digerire questo fatto.
Cerchiamo di analizzare questo fatto. il popolo ebraico non costituisce nemmeno un quarto di 1% dell’umanità (0, 25%), tuttavia va avanti da quasi 4000 anni. Non ha senso che 500.000 persone tra cui decine di migliaia di bambini siano state assassinate in Siria – da una dittatura che finalmente è appena terminata, e non si è sia sentito parlare di una sola manifestazione in difesa del popolo siriano. Invece Israele che cerca di proteggere i propri figli dall’essere massacrati e difende la propria esistenza, combattendo un nemico che è disposto a sacrificare perfino i propri figli solo per demonizzare Israele, e tuttavia sono gli ebrei che vengono condannati continuamente di falsità come il genocidio.
Gli ebrei traumatizzati che odiano se stessi e gli antisemiti, hanno persino la faccia tosta di chiamare Gaza un “campo di concentramento” ebraico, mentre Israele ha espulso ogni singolo israelita da Gaza nel 2005. Se la popolazione di Gaza non avesse votato per Hamas nel 2006 e scelto di spendere tutte le sue risorse per assassinare gli ebrei, Gaza sarebbe potuta essere la Singapore o la Dubai del Medio Oriente. Incolpano Israele per aver creato posti di blocco, che esistono solo perché senza di essi ci sarebbero attacchi terroristici ogni giorno, come è successo il 7 Ottobre. Vogliono un aeroporto a Gaza, di modo gli aerei possano trasportare munizioni e missili per assassinare decine di migliaia di ebrei ogni giorno!
L’ossessione per Israele non ha senso se non si riesce ad apprezzare la verità che siamo il popolo di Dio, che siamo stati scelti per servire come una luce per le nazioni, una fiamma divina accesa sulla via cosmica, quindi accendiamo il mondo in tanti modi inimmaginabili.
Ma questo non è facile da accettare per gli ebrei, anche se il mondo lo sa. Praticamente ogni altra nazione si è percepita come prescelta oppure divinamente speciale. Ad esempio, Cina significa “Regno di Mezzo” in cinese, il che significa che la Cina è al centro del mondo; e il Giappone si considera la terra dove ha origine il sole (“Terra del Sol Levante”). Gli inglesi consideravano di essere i prescelti e ovviamente i musulmani e i cristiani si considerano i prediletti o “nuovo Israele”, e sarebbero felici di sentirselo dire. Ma quando si dice a un ebreo che “sei stato scelto”, lui risponde: “Io? Mai. Sono solo un semplice essere umano”.
Naturalmente, l’essere “scelti” da parte degli ebrei non può essere razzista perché gli ebrei non sono una razza, poiché ci sono ebrei di ogni razza. Inoltre qualsiasi persona di qualsiasi razza, etnia o nazionalità può diventare un membro del popolo ebraico e quindi essere parte del popolo scelto proprio come lo sono Abramo, Mosè, Geremia, Maimonide o il rabbino capo di Israele.
Come si può razionalizzare il fatto che un miscuglio di ex schiavi sia stato in grado di cambiare la storia, di introdurre il Creatore morale che conosciamo come Dio, di introdurre il monoteismo etico; di scrivere il libro più influente del mondo, la Bibbia? Come è possibile che sia diventata l’unica civiltà a negare la visione ricorrente del mondo e a dare all’umanità la fede con uno scopo? A fornire profeti guidati dalla moralità e molto altro ancora, senza che Dio abbia svolto un ruolo decisivo nella storia di questo popolo?
Ma siamo ancora a disagio: perché doveva succedere proprio così? Chi ha bisogno di questa idea che un popolo debba essere eletto? Sembra poco illuminante questa tesi. Dire che per il fatto che siamo ebrei siamo in qualche modo più vicini a Dio di tutte le altre nazioni, sa di arroganza e pregiudizio.
Questo è dovuto al fatto che non capiamo cosa significhi “scelto”.
La lettera del Rebbe del 1798
Questa storia ci riporta indietro di circa due secoli. Nel 1798, il rabbino Shneur Zalman di Liadi (1745-1812), fondatore di Chabad e noto come Alter Rebbe, fu arrestato e accusato di tradimento sulla base di petizioni allo zar da parte degli oppositori del chassidismo. Fu un momento devastante nella storia ebraica. Avrebbe potuto ricevere la pena capitale, Dio non voglia, e quella sarebbe stata la fine non solo di Chabad, ma anche di gran parte del movimento chassidico, poiché ne era il principale difensore, sostenitore intellettuale nonché la figura più influente. Dopo 53 giorni di prigionia, fu scagionato da tutte le accuse e liberato. L’evento, celebrato fino a oggi il 19° giorno di Kislèv, e che quest’anno cade Sabato 20/21 di dicembre, segnò la decisiva vittoria del movimento chassidico e l’inizio di una nuova fase espansa nell’esplorazione e nella diffusione dell’infinita profondità spirituale dell’ebraismo, rappresentata dal chassidismo.
Dopo il suo rilascio, il rabbino Shneur Zalman inviò una breve e potente lettera a tutti i suoi discepoli. È una delle lettere più straordinarie che si possano leggere. (È pubblicata in Tanya, Ighèret Hakòdesh, capitolo 2). Il Rebbe soffrì così tanto a causa dei suoi oppositori; perseguitarono lui e i suoi seguaci anche prima dell’arresto; poi arrivarono a farlo arrestare e in seguito ci fu il suo terrificante processo. Tuttavia il Rebbe in questa lettera mette in guardia i suoi discepoli da qualsiasi dimostrazione di arroganza come risultato della loro vittoria. Li istruisce a non denigrare, a non prendere in giro e a non mostrare disprezzo per coloro che desideravano ardentemente la loro caduta.
La lettera si apre con il versetto affermato da Giacobbe nella Genesi nella porzione di Vayishlàkh: “Sono diventato piccolo per tutte le gentilezze e per tutta la verità che hai dato al tuo servo” (Genesi 32, 11), che era la lettura della Torà dello Shabbàt precedente il giorno della liberazione del rabbino Shneur Zalman, martedì 19 Kislèv 5759-1798). L’Alter Rebbe è turbato dall’ovvia domanda. Perché Giacobbe si sentì umile da tutta la gentilezza che gli era stata mostrata? Perché non rafforzò il suo orgoglio pensando: se Dio mi ha dato tutto questo, probabilmente me lo merito!
L’Alter Rebbe ci trasmette un’idea profonda rispondendo a questa domanda.
Chi Ti Ha Scelto?
Nella concezione ebraica, essere scelti non porta all’arroganza, ma piuttosto all’umiltà. Se fosse stato un re umano a sceglierci come suo popolo speciale, allora l’ipotesi di vantarsi sarebbe corretta: saremmo diventati dei privilegiati. Quando un potere mortale mostra favoritismo verso un suddito, quel suddito diverrà più arrogante di conseguenza: più sei vicino al re, più sei importante, e più sei importante, più senti di meritare rispetto.
Ma Israele è stato scelto da Dio non da un Re umano, e più si è vicini a Dio, più ci si sente nulli davanti all’infinita divina. Mentre essere amico di un leader umano gonfia il tuo ego, una relazione con Dio fa scoppiare la tua bolla egoistica. Perché Dio è un’entità infinita e tutte le illusioni di meschina presunzione svaniscono quando ci si trova di fronte all’infinito. Essere vicini a Dio richiede introspezione e auto-miglioramento, non presunzione.
Nell’ebraismo Dio è il nucleo della realtà, ed è l’intera realtà dell’esistenza. Siamo tutti parte di questa realtà, siamo tutti nella realtà, siamo tutti parte di Dio, all’interno del divino. C’è un’unità organica che unisce tutta l’esistenza, tutta l’umanità, tutto il cosmo, e questa unità organica è ciò che chiamiamo Dio. “Hashèm Ekhàd” – Dio è uno, non significa solo che c’è un Dio e non venti dei; significa che Dio è sinonimo di unità. La parola Dio è un altro modo di dire che “ce n’è solo uno”, che c’è un’unità che pervade tutta l’esistenza e che siamo tutti riflessi della realtà Unica divina, il nucleo di tutto. Siamo tutti manifestazioni e diverse espressioni di una sola realtà.
Essere consapevoli di Dio significa non permettere mai al proprio ego di avvolgerci nell’immaginazione superficiale tipica dell’ego. Quando non ci rendiamo conto che la nostra vera grandezza e valore sono un riflesso dell’infinita unicità di Dio, dobbiamo ricorrere al nostro ego per sentirci bene con noi stessi. Diventare coscienti di Dio significa che in ogni momento non ho bisogno di proteggere il mio ego, poiché mi sento completamente a mio agio con la mia vera realtà, come espressione della luce divina. Più sono cosciente di Dio, più divento piccolo e più divento grande contemporaneamente: a un livello divento nulla, poiché non c’è nulla se non l’unicità assoluta infinita di Dio, che pervade tutto. Allo stesso tempo diventiamo più grandi, poiché la vita diventa un’espressione piena come se fosse la continuità della coscienza superiore, unificante, integrativa ed eterna del nucleo eterno di tutta la realtà.
Essere vicini a Dio ci sprona a rispettare di più gli altri, non di meno. Più si è coscienti di Dio, più si diventa amorevoli e caritatevoli, poiché si è consapevoli che la luce di Dio pervade ogni persona e ogni creatura; quindi è doveroso aiutare ogni creatura poiché racchiude la luce di Dio e merita di essere aiutata. Quando in nome dell’essere “scelti” una persona diventa bigotta, irrispettosa e arrogante, ha perso il treno. Invece quando si diventa consapevoli che Dio ci ha scelto, si elimina il giudizio a cui ricorriamo per proteggere il nostro ego – per sentirci meglio con noi stessi e il nostro posto nel mondo. Il successo altrui non equivale mai al fallimento proprio, visto che io rifletto un aspetto di Dio, come tu ne rifletti un altro.
Questa è l’idea del “Popolo Eletto”, una nazione di individui a cui è stata data l’opportunità di percepire la vicinanza di Dio, ascoltare la Sua verità e trasmettere il Suo messaggio al mondo. Tutti concordano sul fatto che furono gli ebrei a introdurre il mondo al monoteismo e a un sistema di etica e morale che ha plasmato la visione moderna della vita e il suo scopo. Ed è la sopravvivenza dell’ebraismo fino a oggi che attesta il valore eterno di questo sistema.
Chiunque, di qualsiasi estrazione etnica, può convertirsi all’ebraismo e diventare scelto. L’essere scelto ebraico non è un gene, non è una razza, bensì è uno stato dell’anima. Chiunque desideri assumersi la responsabilità di questa missione è benvenuto, a patto che sia pronto a far scoppiare la propria bolla. Chiunque può unirsi a questo gruppo di “persone scelte”, a patto che sia pronto a percepire se stesso come un nulla…
Questo vuole dire essere un ebreo.
Ed è per questo che così tante persone detestano il popolo ebraico, perché siamo stati scelti per insegnare a ogni singola persona vivente che ognuno di loro è stato scelto, per servire Dio e diventare un ambasciatore di amore, luce e bontà per il Suo mondo. Come dice il profeta Isaia: voi Israèl siete i miei testimoni che io esisto. Annullare il proprio ego può risultare incompatibile per persone egocentriche, perciò la presenza di Israèl crea fastidio.
Cosa Comporta L’essere Scelti?
Quando guardo Israèl, mi pongo una domanda: la nostra convinzione di essere il popolo scelto ci ha trasformati in persone assassine che si sentono in diritto di abusare, perseguitare, prendere di mira e annientare altre culture e popoli diversi? O ci ha fatto sentire responsabili di condividere, dare, contribuire e aiutare gli altri? L’idea di popolo scelto ci ha trasformati in persone che non sono mai introspettive, o forse ci ha trasformati nella nazione più autocritica e introspettiva sulla terra? (Spesso, i peggiori critici di Israele sono proprio gli ebrei!)
La vera prova dell’essere scelti è quanto sei umile. La maggior parte degli ebrei oggi ha superato questa prova a pieni voti. La loro umiltà è così profonda che non consente loro di accettare di essere stati scelti. Mentre la maggior parte delle altre religioni si sente abbastanza a proprio agio nell’affermare di essere i migliori, noi ebrei faremmo di tutto per dire che non siamo niente di speciale. Ecco come definiamo un popolo scelto.
Katònti!
Questo, spiegò il rabbino Shneur Zalman, era il segno distintivo di Giacobbe. Per la persona egocentrica, una gentilezza da parte di Dio è la prova del suo significato e valore. Per la persona spiritualmente matura, tuttavia, una gentilezza da parte di Dio è, prima di tutto, un atto di amore divino: Dio sta avvicinando la persona a Sé. E più ci si avvicina a Dio, più ci si rende conto della propria insignificanza di fronte all’infinito divino.
Questo è ciò che significa pensare come ebreo. Quando sei stato benedetto con un dono, quando sei stato inondato di una benedizione, il primo istinto dell’ebreo è: Katònti! Sono umiliato.
Questa, insegnò l’Alter Rebbe, deve essere la risposta dei suoi seguaci alla grazia che hanno visto: diventare molto più umili, autentici e divini. Sospendere il proprio ego e diventare canali per l’unità divina.
Quando realizziamo di essere stati scelti, coltiviamo una sana sicurezza che non deriva dall’ego ma dall’umiltà, che è un modo di rispettare il nostro ruolo di ambasciatori divini per la bontà e la verità. Allora non ci facciamo mai intimidire alla pressione Allora non facciamoci mai intimidire dalla pressione di coloro che vogliono che compromettiamo la nostra missione eterna di eliminare il male e coltivare la bontà.
Tratto in parte da una riflessione di Y. Y. Jacobson
DIVERSAMENTE ANGELI
Fatti Non Parole
Il Rebbe di Satmer, Rabbi Yoèl Teitelbaum (1887-1979), ha trasmesso la seguente spiegazione a nome di Rabbi Chaim Halberhstam, il Divre Chaim di Tzanz (1793-1876): il contesto è quello che conta, la parola può essere la stessa, “ish”, ma la domanda è cosa fa questo “ish”, ossia quest’uomo, come si comporta?
In entrambe le storie, c’è una persona in difficoltà. In Vayishlàkh, “Ya’akòv rimane solo”, nel cuore della notte, dopo essere stato lontano da casa per 34 anni e aver avuto a che fare con un imbroglione di livello mondiale, Lavàn. In Vayèshev, invece, Yossèf, un giovane di 17 anni, anch’egli è perso e vulnerabile. Ha lasciato suo padre, è rimasto orfano di madre e si è trovato sulla strada di fratelli che lo disprezzavano. Yossèf in quel frangente ancora non conosce il suo destino, ma questo viaggio lo porterà alla schiavitù, alla prigione e alla completa alienazione dalla sua famiglia.
In entrambe le storie, due persone sono profondamente vulnerabili. Padre e figlio, Ya’akòv e Yossèf. Entrambi incontrano uno sconosciuto. Un uomo che spunta all’improvviso. Tuttavia, secondo l’insegnamento riportato dal Rebbe di Satmer, la domanda che bisogna porsi è: come si comporta questo “ish”, quest’uomo?
Ecco la risposta da dove si deduce la fondamentale differenza: nel caso di Ya’akòv, l’ “uomo” vede una persona in difficoltà, sola nel bel mezzo della notte, e si avventa su di lui. C’è un Ya’akòv, un uomo solitario, nel cuore della notte? Bene! Posso avventarmi su di lui, aggredendolo, approfittandomi del suo stato di debolezza e difficoltà!
E nel secondo racconto? Anche qui Yossèf è solo e un “uomo” lo incontra. Ma cosa dice e cosa fa l’uomo? “Poi un uomo lo trovò, ed ecco che si aggirava nei campi, e l’uomo lo interrogò dicendo: “Che cosa stai cercando?”.
Vedete la differenza? Non si avventa su Yossèf. Non sfrutta la sua vulnerabilità, non manipola il suo momento di debolezza per raggiungere i propri obiettivi. Al contrario, questo Ish vede come un’occasione per aiutare il prossimo. Quindi, chiede al giovane ragazzo: “«Che cosa cerchi?»”. In altre parole l’ “uomo” si accorge dei “limiti” del ragazzo, che è un sognatore e che sta cercando qualcosa, quindi non si approfitta del suo stato di difficoltà, dei suoi difetti, ma al contrario cerca di aiutarlo chiedendogli: “cosa ti serve e come posso aiutarti?”. La risposta di Yossèf è altrettanto significativa: “Sto cercando i miei fratelli!”. Ossia, il ragazzo sta cercando una relazione, un senso di appartenenza, la comprensione e l’attaccamento con qualcuno che stima, che lo possa aiutare e proteggere.
Pertanto qui, con la sue due diverse risposte, Rashi sta semplicemente rispecchiando il contesto delle due narrazioni. Quando un uomo incontra una persona vulnerabile, e coglie l’opportunità di attaccarla, quell’uomo, dice Rashi, è un angelo di Essàv. Ma quando un uomo, incontrando una persona vulnerabile, coglie l’opportunità di porgergli una mano amorevole, un aiuto che lo indirizzi verso la sua ricerca dell’amore, dell’affetto famigliare, questa persona, dice Rashi, deve essere l’angelo Gavrièl!
Orango o Uomo?
A tutti noi può sicuramente capitare di incontrare qualcuno (un bambino, un adolescente o un adulto) che è “solo”, vulnerabile, confuso, disorientato o sofferente. Proprio quando ci accorgiamo della vulnerabilità di quella persona, delle sue difficoltà, proprio in quel momento siamo in grado di compiere una scelta, ossia di essere come l’angelo di Essàv o l’angelo Gavrièl.
Alcuni “colgono l’opportunità” utilizzandola per trarne un profitto, un vantaggio, senza neanche pensare di cercare di aiutare quella persona: aggrediscono il malcapitato con azioni inappropriate, approfittandosi delle difficoltà o debolezze altrui oppure, nel “migliore dei casi”, si limitano semplicemente a emettere uno sprezzante giudizio.
Invece, molte altre persone, nell’identica situazione, hanno un atteggiamento completamente diverso e quindi chiedono: “Mio caro ragazzo, ragazza o mio caro amico, dimmi cosa stai cercando? Cosa ti serve e come posso aiutarti?”
Pertanto, ognuno di noi in tali occasioni deve scegliere che tipo di “uomo” sarà: una “brutta” copia di Essàv, oppure diventare come l’angelo Gavrièl.
Altruismo Trascendente
Un eccellente esempio di vita per quanto detto sopra lo troviamo nella figura del Rebbe Shneur Zalman di Liadi, noto anche come Alter Rebbe (1745-1812), il fondatore del movimento Chabad-Lubàvitch.
Era la notte di Yom Kippur, la notte più sacra dell’anno, e il Rebbe stava pregando. Avvolto nel suo tallìt e nel suo kittel (un indumento bianco che si indossa a Yom Kippur), era immerso nella sua preghiera, in intimità con Dio. Improvvisamente si tolse il tallìt e lasciò improvvisamente la sua Sinagoga. Per tutti i presenti fu un fatto inusuale e a dir poco sorprendente! Ma dove era diretto il Rebbe così di fretta?
Il Rebbe si recò a casa di una madre che aveva appena partorito. Il resto della famiglia era andato a pregare in sinagoga, quindi la donna non poteva contare sull’aiuto di nessuno. Il Rebbe accese una fiamma, riscaldò una zuppa sul fornello e diede da mangiare alla giovane madre che aveva un disperato bisogno di cibo.
Una volta, il Rebbe*, dopo aver raccontato questa storia, l’ha commentata: la grandezza della storia non sta nel fatto che l’Alter Rebbe è andato a salvare quella madre durante Kippur. Dopo tutto è noto che la salvezza di una vita umana prevale su Kippur. L’unicità della storia è che il Rebbe, nel bel mezzo delle sue preghiere di Kippur, mentre sperimentava l’unità con il Divino, è riuscito comunque a sentire il dolore e l’angoscia della giovane madre.
Molte persone spirituali, quando sono immerse nella trascendenza, diventano sorde al pianto di una madre e di un bambino. Al contrario, l’Alter Rebbe, mentre parlava con Dio nella notte più santa dell’anno, la sua anima non riuscì a calmarsi, finché non andò a soccorrere una giovane madre che chiedeva aiuto.
Come un angelo che pur essendo una creatura che trascendente il terreno e aspira solo verso l’alto, comunque in alcune circostanze come con Yossèf riesce a percepire i bisogni di una persona e quindi è scesa per aiutarla. Così il Rebbe nel giorno solenne di Kippùr quando assomigliamo tutti agli angeli e in particolare l’Alter Rebbe, ha messo da parte la sua ascesa spirituale e ha percepito l’estremo bisogno della donna (come l’angelo di Yossèf) ed è corso in suo aiuto.
* In data 19 Kislev 5744 (1983), in un fabrengen che celebrava il giorno della liberazione dell’Alter Rebbe che è successa il 19 Kislev del 1798. Tra qualche giorno sarà il 19 di Kislev ed è molto importante e di grande benedizione celebrare il grande miracolo successo in questo giorno e che ha cambiato il mondo.
Tratto da uno scritto di YY Jacobson
Un giorno il guardiano di uno zoo notò che un orango stava leggendo due libri: la Torà e l’origine delle specie di Darwin.
Sorpreso, chiese alla scimmia: “Perché stai leggendo entrambi i libri?”.
“Beh”, rispose l’orango, “Volevo sapere se tu eri mio fratello o il mio guardiano…”.
C’è Uomo e Uomo
La Torà utilizza il termine “Ish”, che di solito significa “uomo”, come in Bereshìt per descrivere il primo “uomo”, Adamo. Tuttavia, in due porzioni consecutive della Torà, Vayishlàkh e Vayèshev, viene usato lo stesso termine e Rashi, basandosi sulla tradizione dei nostri saggi, le commenta, sorprendentemente, in maniera molto diversa.
Nella porzione di questa settimana, Vayishlàkh (32, 25), troviamo il termine “ish-uomo” in riferimento a Ya’akòv quando “…fu lasciato solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’alba”. Qui, Rashi spiega che quel “uomo” era l’angelo spirituale di Essàv. In altre parole, quella battaglia nel cuore della notte tra Ya’akòv e quel misterioso “uomo”, faceva parte della lotta in corso tra Ya’akòv e suo fratello Essàv che rispettivamente simboleggiano il “bene e il male”, l’uomo retto e l’uomo malvagio.
Eppure, in Vayèshev (37, 15 – 16), viene usato lo stesso identico termine. Ma qui, la storia è molto diversa: Yossèf viene inviato da suo padre Ya’akòv a visitare i suoi fratelli e assicurarsi che stessero bene. Nonostante i suoi fratelli lo detestassero, Yossèf intraprese il viaggio, ma a un certo punto si perse per strada e la Torà ci dice che: “Un uomo (ish) lo incontrò mentre errava per la campagna. E l’uomo gli chiese: «Che cosa cerchi?». [Yossèf] rispose: «Cerco i miei fratelli, per favore dimmi dove stanno pascolando?»”. Chi era quest’uomo misterioso, “Ish”, che incontrò Yossèf in quel momento di estrema difficoltà? Rashi dice che era l’angelo Gavrièl, che è descritto, anche in altre parti del Tanàkh, come “Ish-uomo”.
In entrambi casi troviamo una persona in difficoltà: in Vayishlàkh Ya’akòv rimase solo e un “uomo” lottò con lui; in Vayèshev, Yossèf è solo, perso nel campo, e, ancora una volta, un “uomo” lo incontra e gli chiede cosa stia cercando e in entrambi i casi viene usata la stessa parola per descrivere questa persona “Ish”. Tuttavia, questo sembra strano e sorge la domanda sul perché in situazioni apparentemente simili Rashi in Vayèshev lo vede come l’angelo Gavrièl, mentre in Vayishlàkh come l’angelo di Essàv?
DIVERSAMENTE ANGELI
Fatti Non Parole
Il Rebbe di Satmer, Rabbi Yoèl Teitelbaum (1887-1979), ha trasmesso la seguente spiegazione a nome di Rabbi Chaim Halberhstam, il Divre Chaim di Tzanz (1793-1876): il contesto è quello che conta, la parola può essere la stessa, “ish”, ma la domanda è cosa fa questo “ish”, ossia quest’uomo, come si comporta?
In entrambe le storie, c’è una persona in difficoltà. In Vayishlàkh, “Ya’akòv rimane solo”, nel cuore della notte, dopo essere stato lontano da casa per 34 anni e aver avuto a che fare con un imbroglione di livello mondiale, Lavàn. In Vayèshev, invece, Yossèf, un giovane di 17 anni, anch’egli è perso e vulnerabile. Ha lasciato suo padre, è rimasto orfano di madre e si è trovato sulla strada di fratelli che lo disprezzavano. Yossèf in quel frangente ancora non conosce il suo destino, ma questo viaggio lo porterà alla schiavitù, alla prigione e alla completa alienazione dalla sua famiglia.
In entrambe le storie, due persone sono profondamente vulnerabili. Padre e figlio, Ya’akòv e Yossèf. Entrambi incontrano uno sconosciuto. Un uomo che spunta all’improvviso. Tuttavia, secondo l’insegnamento riportato dal Rebbe di Satmer, la domanda che bisogna porsi è: come si comporta questo “ish”, quest’uomo?
Ecco la risposta da dove si deduce la fondamentale differenza: nel caso di Ya’akòv, l’ “uomo” vede una persona in difficoltà, sola nel bel mezzo della notte, e si avventa su di lui. C’è un Ya’akòv, un uomo solitario, nel cuore della notte? Bene! Posso avventarmi su di lui, aggredendolo, approfittandomi del suo stato di debolezza e difficoltà!
E nel secondo racconto? Anche qui Yossèf è solo e un “uomo” lo incontra. Ma cosa dice e cosa fa l’uomo? “Poi un uomo lo trovò, ed ecco che si aggirava nei campi, e l’uomo lo interrogò dicendo: “Che cosa stai cercando?”.
Vedete la differenza? Non si avventa su Yossèf. Non sfrutta la sua vulnerabilità, non manipola il suo momento di debolezza per raggiungere i propri obiettivi. Al contrario, questo Ish vede come un’occasione per aiutare il prossimo. Quindi, chiede al giovane ragazzo: “«Che cosa cerchi?»”. In altre parole l’ “uomo” si accorge dei “limiti” del ragazzo, che è un sognatore e che sta cercando qualcosa, quindi non si approfitta del suo stato di difficoltà, dei suoi difetti, ma al contrario cerca di aiutarlo chiedendogli: “cosa ti serve e come posso aiutarti?”. La risposta di Yossèf è altrettanto significativa: “Sto cercando i miei fratelli!”. Ossia, il ragazzo sta cercando una relazione, un senso di appartenenza, la comprensione e l’attaccamento con qualcuno che stima, che lo possa aiutare e proteggere.
Pertanto qui, con la sue due diverse risposte, Rashi sta semplicemente rispecchiando il contesto delle due narrazioni. Quando un uomo incontra una persona vulnerabile, e coglie l’opportunità di attaccarla, quell’uomo, dice Rashi, è un angelo di Essàv. Ma quando un uomo, incontrando una persona vulnerabile, coglie l’opportunità di porgergli una mano amorevole, un aiuto che lo indirizzi verso la sua ricerca dell’amore, dell’affetto famigliare, questa persona, dice Rashi, deve essere l’angelo Gavrièl!Orango o Uomo?
A tutti noi può sicuramente capitare di incontrare qualcuno (un bambino, un adolescente o un adulto) che è “solo”, vulnerabile, confuso, disorientato o sofferente. Proprio quando ci accorgiamo della vulnerabilità di quella persona, delle sue difficoltà, proprio in quel momento siamo in grado di compiere una scelta, ossia di essere come l’angelo di Essàv o l’angelo Gavrièl.
Alcuni “colgono l’opportunità” utilizzandola per trarne un profitto, un vantaggio, senza neanche pensare di cercare di aiutare quella persona: aggrediscono il malcapitato con azioni inappropriate, approfittandosi delle difficoltà o debolezze altrui oppure, nel “migliore dei casi”, si limitano semplicemente a emettere uno sprezzante giudizio.
Invece, molte altre persone, nell’identica situazione, hanno un atteggiamento completamente diverso e quindi chiedono: “Mio caro ragazzo, ragazza o mio caro amico, dimmi cosa stai cercando? Cosa ti serve e come posso aiutarti?”
Pertanto, ognuno di noi in tali occasioni deve scegliere che tipo di “uomo” sarà: una “brutta” copia di Essàv, oppure diventare come l’angelo Gavrièl.Altruismo Trascendente
Un eccellente esempio di vita per quanto detto sopra lo troviamo nella figura del Rebbe Shneur Zalman di Liadi, noto anche come Alter Rebbe (1745-1812), il fondatore del movimento Chabad-Lubàvitch.
Era la notte di Yom Kippur, la notte più sacra dell’anno, e il Rebbe stava pregando. Avvolto nel suo tallìt e nel suo kittel (un indumento bianco che si indossa a Yom Kippur), era immerso nella sua preghiera, in intimità con Dio. Improvvisamente si tolse il tallìt e lasciò improvvisamente la sua Sinagoga. Per tutti i presenti fu un fatto inusuale e a dir poco sorprendente! Ma dove era diretto il Rebbe così di fretta?
Il Rebbe si recò a casa di una madre che aveva appena partorito. Il resto della famiglia era andato a pregare in sinagoga, quindi la donna non poteva contare sull’aiuto di nessuno. Il Rebbe accese una fiamma, riscaldò una zuppa sul fornello e diede da mangiare alla giovane madre che aveva un disperato bisogno di cibo.
Una volta, il Rebbe*, dopo aver raccontato questa storia, l’ha commentata: la grandezza della storia non sta nel fatto che l’Alter Rebbe è andato a salvare quella madre durante Kippur. Dopo tutto è noto che la salvezza di una vita umana prevale su Kippur. L’unicità della storia è che il Rebbe, nel bel mezzo delle sue preghiere di Kippur, mentre sperimentava l’unità con il Divino, è riuscito comunque a sentire il dolore e l’angoscia della giovane madre.
Molte persone spirituali, quando sono immerse nella trascendenza, diventano sorde al pianto di una madre e di un bambino. Al contrario, l’Alter Rebbe, mentre parlava con Dio nella notte più santa dell’anno, la sua anima non riuscì a calmarsi, finché non andò a soccorrere una giovane madre che chiedeva aiuto.
Come un angelo che pur essendo una creatura che trascendente il terreno e aspira solo verso l’alto, comunque in alcune circostanze come con Yossèf riesce a percepire i bisogni di una persona e quindi è scesa per aiutarla. Così il Rebbe nel giorno solenne di Kippùr quando assomigliamo tutti agli angeli e in particolare l’Alter Rebbe, ha messo da parte la sua ascesa spirituale e ha percepito l’estremo bisogno della donna (come l’angelo di Yossèf) ed è corso in suo aiuto.
* In data 19 Kislev 5744 (1983), in un fabrengen che celebrava il giorno della liberazione dell’Alter Rebbe che è successa il 19 Kislev del 1798. Tra qualche giorno sarà il 19 di Kislev ed è molto importante e di grande benedizione celebrare il grande miracolo successo in questo giorno e che ha cambiato il mondo.
Tratto da uno scritto di YY Jacobson
Anche oggi, alla vigilia dello Shabbàt, vi proponiamo dei brani tratti dal libro “Saggezza Quotidiana” pubblicato da Mamash. Questa settimana leggiamo la parashà Vayishlàkh – l’ottava porzione del libro della Genesi – che narra le sfide del patriarca Ya’akòv quando cerca di ritornare in terra di Israèl dopo la sua permanenza in Aràm. Questa parashà si apre con Essàv che, ancora pieno di rancore verso suo fratello, sta venendo incontro a Ya’akòv per affrontarlo. Ya’akòv manda (vayishlàkh, “ha mandato” in ebraico) un’ambasciata diplomatica per incontrare Essàv.
Gli insegnamenti cassidici del Rebbe e dei suoi predecessori ci raccontano e ci insegnano alcune regole di comportamento valide e attuali anche per noi oggi. Difficile, come spesso accade, riuscire a intravvedere in molti episodi della Torà degli insegnamenti di vita che possono essere applicati anche nel nostro quotidiano. In particolare, quando, come nel caso di questi brani della parashà, si parla, ad esempio, di “angeli”, “mitici monti” o di formidabili guerrieri e personaggi incredibili come Essàv. Luoghi e personaggi degni di un racconto di Tolkien o di Lewis.
Eppure, come sempre, possiamo accorgerci di come la saggezza della Torà si espanda e sviluppi in ogni direzione e in ogni aspetto della vita: dai concetti più alti ed elevati fino a quelli più apparentemente “piccoli e banali”.
Oggi, quindi, vi proponiamo alcuni modi per riuscire a vincere e superare i nostri “Essàv Quotidiani”, fuori e dentro di noi, che vogliono impedirci di raggiungere la nostra “Terra Promessa” per compiere la missione divina di cui ognuno è portatore, come Giacobbe.
DRITTI FINO ALLA CIMA
Vayishlàkh – Ya’akòv nella Terra di Israèl
Bereshìt 32, 14–30
Quella notte, l’angelo custode di Essàv lotta con Ya’akòv; alla fine Ya’akòv prevale, ma l’angelo riesce a slogare la sua coscia. Ya’akòv domanda all’angelo di benedirlo; così l’angelo lo informa che Hashèm sta per dargli il nome aggiuntivo di Israèl che significa “Colui che ha lottato con Hashèm [e ha prevalso]”.
Elevando il Mondo Materiale [L’angelo disse a Ya’akòv] «Il tuo nome non si dirà più Ya’akòv, bensì Israèl». (32, 29)
Il nome “Israèl” non sostituisce quello originale di Ya’akòv, ma lo completa. “Israèl”, infatti, esprime un nuovo e più elevato status che l’angelo gli ha donato. Mentre “Ya’akòv” deve lottare con Essàv per assicurarsi le benedizioni di Yitzkhàk, ora queste benedizioni sono concesse a “Israèl” esplicitamente dall’angelo custode di Essàv (ogni persona e ogni creatura ha un angelo custode nei mondi spirituali che lo rappresenta e lo influenza.).
I due nomi di Ya’akòv rappresentano i due modi in cui interagiamo con il mondo. A volte il mondo materiale o le nostre tendenze materialistiche possono intralciare il nostro rapporto con il divino a o la nostra missione nella vita. Quando questo accade dobbiamo, come “Ya’akòv”, lottare per rivelare la Divinità che sta alla base del mondo materiale. Altre volte, invece, il mondo può essere usato come mezzo per accrescere la coscienza divina o compiere la nostra missione santa. In questi frangenti la nostra sfida come “Israèl” è di usare queste opportunità sia per portare il mondo a un livello superiore di consapevolezza del Divino, sia per promuovere la nostra crescita spirituale.
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Bereshìt 33, 6–20
Essàv offre di scortare Ya’akòv e la sua famiglia in Canaàn ma Ya’akòv rifiuta il favore, promettendo di far visita a Essàv nella sua casa sul monte Se’ìr.
Mantenere la Concentrazione [Ya’akòv disse a Essàv] «Il mio signore oltrepassi il suo servo… [e aspetti lì], finché non arriverò dal mio signore a Se’ìr». (33, 14)
Ya’akòv qui allude alla futura trasformazione di Essàv nell’era messianica – “finché non arriverò dal mio signore [Essàv] al monte Se’ìr”. L’approccio di Ya’akòv ci insegna come neutralizzare la potenziale ostilità degli “Essàv” che incontriamo durante il nostro esilio.
Se cadiamo preda delle comodità esteriori dell’esilio e ci convinciamo che siamo asserviti al dominio di “Essàv”, il nostro atteggiamento diventerà una sorta di profezia che si auto-avvererà e il nostro esilio comincerà a governarci veramente.
Per neutralizzare il potere di Essàv dobbiamo vedere oltre la facciata dell’esilio, fino al suo scopo profondo, ossia quello di permetterci di preparare il mondo all’era messianica. A quel tempo, “Essàv” sarà sottomesso e trasformato.
Osservando la lunga avventura dell’esilio, come un viaggio verso il monte Se’ìr e concentrandoci sul nostro obiettivo finale, “Essàv” è reso innocuo anche durante l’esilio.
É doveroso onorare il ricordo di un fondamentale evento nella storia dell’ebraismo e non solo.
Il 19 di questo mese di kislèv, segna la nascita della Chassidùt Chabad. Infatti in questo giorno si ricorda la liberazione di Rabbi Shneur Zalman di Liadi (18 Elùl 1745 – 24 Tevèt 1812) dalla prigionia zarista. Rabbi Shneur Zalman, noto anche come l’Alter Rebbe, fu il principale discepolo ed erede del Màghid di Mèzritch, a sua volta erede del Bà’al Shem Tov.
Fondatore del movimento chassidico Chabàd Lubàvitch, l’Alter Rebbe fu autore del Tanya e dello Shulkhàn Arùkh. Il Bà’al Shem Tov lo definì “un’anima del mondo di Atzilùt scesa in questo mondo per illuminarlo con la profondità della Torà”. Tutto il mondo festeggia questa grande rivelazione di luce che ci accompagnerà fino alla redenzione finale.
In realtà la grandezza di questo giorno ci è stata rivelata ben 850 anni fa dal grandissimo maestro cabalista Rabbi Yaakov Levì, il quale dice che il 19 di kislèv è un giorno di grande benedizione in cui le nostre preghiere vengono esaudite.
Infatti, il Rebbe Shneur Zalmàn ha promesso che farà di tutto per esaudire le richieste di ogni persona. Poi quest’anno il 19 di kislèv ha in aggiunta l’ingrediente di Shabbàt che lo rende ancora più strepitoso. L’ultima volta che il 19 di kislèv è caduto di Shabbàt è stato ben 20 anni fa.
Cerchiamo di approfittare di questo Shabbàt per prendere delle decisioni per migliorare nello studio della Chassidùt e per chiedere che vengano soddisfatti i nostri bisogni e soprattutto il più importante di questi: chiedere la redenzione finale e l’arrivo di Mashìakh presto nei nostri giorni.
Festa di Khanukkà Otto Giorni, Vayishlakh 8° Parashà
Qual’è il Collegamento Mistico?
Perché Yaakòv si inchina a Essàv proprio SETTE VOLTE?
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COME LA BATTAGLIA DEI “GEMELLI COSMICI”
CAMBIATO IL CORSO DELLA STORIA
Un Po’ di Polvere per Cambiare il Mondo!
E Giacobbe fu lasciato solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’alba (Genesi 32, 25). Inoltre è scritto che durante la notte dell’esilio, le nazioni del mondo e il regno di Edom (Essàv) lotteranno con Giacobbe fino all’alba della redenzione (Midràsh Lekakh Tov). Quindi ora andiamo dalla padella alla brace! Dopo 20 anni di lavori forzati nella casa di Lavàn, Giacobbe avrebbe costruito una famiglia e raccolto le risorse necessarie solo per prepararsi ad entrare nella mischia e affrontare suo fratello gemello, ESSÀV? Ebbene sì! Questo ci insegna che solo quando abbiamo rafforzato le nostre risorse, formato una famiglia e una casa sicura – una base solida – solo allora saremmo pronti per entrare in combattimento con il difficile mondo dominato dai “guerrieri” (Essàv). Quindi proseguendo la nostra storia. Dopo 20 anni di lavori forzati nella casa di Lavàn ecc., Cosa fa Giacobbe? Non cerca il combattimento, il confronto con il fratello, bensì cerca di RIAPPACIFICARSI con Essàv per unire le forze. Giacobbe quindi invia messaggeri a suo fratello come un’“ouverture” per la riconciliazione. Quando i messaggeri tornano con la notizia che Essàv sta marciando con “400 uomini”, si rende conto che lui non è ancora pronto a vivere in pace. Giacobbe avrebbe quindi dovuto affrontare Essàv solo attraverso i suoi sforzi. Questi sforzi costituiscono il tema essenziale della parashà di questa settimana, Vayishlàkh. Quindi dopo aver capito la propria precaria e potenzialmente pericolosa posizione, Giacobbe divide la sua famiglia, la gente che si trova con lui e tutti i suoi averi in due accampamenti e, nel contempo, prepara dei regali per placare l’ira di suo fratello e si tiene pronto anche per la guerra. In quel fatidico e decisivo momento nella Torà è scritto che Giacobbe “Quella notte si alzò”, prese la sua famiglia e le sue proprietà e “attraversò il guado di Yabbòk” (Genesi 32, 23). Poi la Torà continua dicendo e “Giacobbe fu lasciato solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’alba. [L’uomo] vide che non ce la faceva contro Giacobbe e colpì l’articolazione dell’anca che si slogò mentre lottava con lui” (Genesi 32, 25-26). Allo spuntare dell’alba l’uomo chiede a Giacobbe di potersene andare. Giacobbe lo esaudisce solo dopo aver ottenuto dall’uomo una benedizione: che Giacobbe e i suoi discendenti, avrebbero avuto un nuovo nome, “Israèl”. Troppa Polvere nella Lotta Questo misterioso episodio di “lotta libera”, pieno di messaggi differenti, è molto criptico. I saggi e i commentari analizzano il significato della parola ebraica LOTTA usata qui: “vayeavèk”. L’opinione più diffusa spiega che questo termine deriva dalla parola “avàk”, polvere, come riferimento alla polvere che saliva dal terreno mentre Giacobbe e l’uomo lottavano. Come scrive il grandissimo commentatore della Torà, Rashì: “E un uomo si coprì di polvere, perché stavano sollevando polvere con i piedi attraverso i loro movimenti”. Seguendo questa interpretazione, una domanda nasce spontanea: perché questa polvere ha un ruolo così importante qui? Sembrerebbe che la polvere creata dalla loro lotta sia un effetto collaterale, un dettaglio marginale, una conseguenza insignificante di due persone che lottano per terra (se lottassero, per esempio, su un pavimento di pietre non ci sarebbe polvere). Perché allora la Torà concede un grande risalto a questo particolare e addirittura usa il termine “avàk”, che riguarda la polvere, e non un termine attinente alla lotta per descrivere questo fondamentale scontro? In effetti, dopo ulteriori approfondimenti possiamo capire come la “polvere, avàk” assume una rilevanza tutta sua: il Talmud spiega che: “La polvere dei loro piedi salì fino al Trono Divino” (Khullìn 91a). Il Midràsh (Shir Hashirìm Rabbà 3: 5/2) si spinge ancora più lontano e afferma non solo che tutti i doni di Giacobbe sono il risultato di questa “polvere”, ma che tutti i “doni che Israele guadagnerà in questo mondo e tutti i successi che avranno negli affari… e nelle battaglie TUTTO SARÀ per merito della polvere di Giacobbe”! Come è possibile imputare un tale potere a della semplice e insignificante polvere? Polvere che dovrebbe essere, addirittura, fonte di immense benedizioni nel corso della storia di Israele?
Rettificare il Caos
Per prima cosa dobbiamo capire che il misterioso “uomo” che ha lottato con Giacobbe era l’angelo custode di Essàv. Pertanto la lotta di Giacobbe con questo angelo, durata tutta la notte, simboleggia quella contro il materialismo e il male che Esaù e i suoi discendenti rappresentano e che Israèl dovrà intraprendere da quel momento in poi, durante tutta “la notte del lungo esilio”. Secondo lo Zohar (Vayikrà 100b) questa lotta ha avuto luogo nella vigilia di Yom Kippur. Cosa che sottolinea la centralità di questo evento. La lotta di Giacobbe con l’angelo di Essàv corrisponde anche al “malvagio” che sta dentro di noi nella battaglia spirituale che dobbiamo compiere fin dal primo momento della nostra vita tra la materia e lo spirito: Essàv il guerriero rappresenta il corpo, il mondo materiale, i cui elementi selvaggi devono essere conquistati; Giacobbe, il retto lo studioso simboleggia l’anima e il mondo spirituale. Fin da subito questi due mondi si scontrano e lottano per il controllo. In termini mistici questa “lotta eterna” rappresenta il processo chiamato il lavoro dei Birurìm (anche chiamato Tikkùn Olàm): dividere le scintille di santità dalla materia grezza. Processo basato sul presupposto che l’esistenza materiale contiene “scintille” divine, cioè energia spirituale. La nostra missione in questo mondo consiste nel riscattare ed elevare queste scintille. Solo quando riusciamo a vedere e rivelare la spiritualità celata in ogni esperienza umana possiamo riuscire a perfezionare l’universo materiale e trasformarlo nel suo vero scopo: un veicolo per l’espressione spirituale. In questo contesto mistico Essàv e Giacobbe sono l’incarnazione dei due mondi cosmici gemelli del Tòhu e del Tikkùn. Esaù è il “guerriero” – l’energia selvaggia e indomabile del mondo del Tòhu, che è racchiusa nella materia grezza. Questa energia è una forza molto potente, molto di più delle energie stabilmente definite che animano il mondo corretto e ordinato di Giacobbe, quello del Tikkùn. Tuttavia, senza la guida e il controllo della spiritualità strutturata del Tikkùn, l’universo materiale del Tòhu rischia di diventare una mera forza distruttrice: la materia ha bisogno dello spirito per incanalare la sua enorme energia verso obiettivi costruttivi e positivi. La vera sfida dell’umanità è quella di scavare sotto la superficie del mondo fisico per dissotterrare le “scintille di santità” che sono il residuo del mondo del Tòhu primordiale: sfruttare il loro enorme potenziale e integrare le due realtà. Solo attraverso la fusione dei “gemelli cosmici” l’uomo e l’umanità potranno catturare e incanalare definitivamente l’immensa energia del Tòhu negli “ampi contenitori” del Tikkùn. La lotta per ottenere questa sinergia è la storia della vita dei gemelli biblici e l’essenza stessa della storia umana nel suo complesso. Essàv e Giacobbe emergono dallo stesso grembo dove stavano già combattendo e il resto della loro vita è definito dalla ricerca della loro riconciliazione. Ma la dicotomia è troppo profonda per essere risolta in una vita. Le forze del Tòhu sono troppo espansive, troppo affamate e troppo grezze per sottomettersi ai rigori del Tikkùn; i recipienti del Tikkùn sono troppo definiti, troppo strutturati per abbracciare e contenere le passioni incontrollate del mondo del Tòhu. Quindi la ricerca di unire Tòhu e Tikkùn si estende oltre le vite di Giacobbe ed Essàv, oltre le nazioni di Israele e di Edom. Gli otto re che “regnarono in Edom, prima che regnasse un re sui figli di Israele” sono le forze instabili del Tòhu. All’opposto il popolo di Israele che procede nel Sinai, con il “bagaglio” dei 613 comandamenti, deve portare il Tikkùn olàm, la rettificazione e la civiltà del mondo. Tutta la storia successiva è la storia della tensione tra materia e spirito e i nostri sforzi per alleviare questa tensione e trovare una soluzione nell’armonizzare e integrare “Giacobbe ed Esaù”. Il conflitto infuria nelle battaglie tra il regno di Giuda e Roma, tra spirito e materia, tra il sacro e il mondano. Questa epica guerra si risolverà solo alla fine dei giorni e le lotte dell’umanità culmineranno quando “i salvatori saliranno sul Monte Sion per giudicare la montagna di Essàv” (Ovadyà 1, 21).
Solo Ma Non Troppo
In questo contesto possiamo arrivare a comprendere il significato della “polvere” che è sorta da Giacobbe mentre lotta con l’angelo di Essàv. Prima dell’incontro di Giacobbe con l’angelo, nella Torà è scritto che “rimase solo”. Tuttavia, prima di proseguire con il resto della storia, occorre dare una breve spiegazione sul significato esoterico di “rimase solo” secondo il midràsh. Il quale spiega come la “solitudine” di Giacobbe cela il fatto che il patriarca raggiunge un livello spirituale tale che rimane “solo”, poiché è l’unico umano ad averlo raggiunto. Inoltre il midràsh arriva a paragonare questo stato spirituale a quello di Hashèm che nelle sue vette spirituali è “solo”. Ovviamente questo esempio serve solo a noi umani per cercare di capire meglio. Sarebbe infatti come cercare di paragonare l’intelligenza di un moscerino a quella di un premio nobel. E anche quest’ultimo è un esempio insoddisfacente, poiché non esiste una misura per calcolare o paragonare la distanza spirituale tra l’essenza di Dio e qualunque altra creatura. Quindi, Giacobbe riesce, grazie a tutte le sue fatiche spirituali e materiali precedenti, ad ottenere una grande elevazione spirituale simile al Divino. Solo grazie a questo nuovo stato Giacobbe trova la forza spirituale per elevare le scintille nella materia. I saggi del Talmud spiegano, in maniera più prosaica, come Giacobbe: “Rimase da solo per via di alcuni piccoli vasetti che si era lasciato alle spalle. E da ciò apprendiamo che i giusti valorizzano i loro soldi più dei loro corpi” (Khullìn). Questa risposta sembra a dir poco strana! Come è possibile passare da una interpretazione della vicenda, come quella del midràsh, secondo cui “solo” significa “simile a Hashèm” a questa dove “solo” vuol dire che Giacobbe dimentica dei “vasetti”? I soldi che cosa c’entrano in questa mitica storia? E inoltre, perché Giacobbe avrebbe rischiato la sua vita per ritornare a prendere nient’altro che “piccoli vasetti”?
Estrarre le Scintille di Santità
Il Baal Shem Tov spiega in questo modo la vicenda dei “vasetti”: “I giusti sanno che i loro beni materiali contengono potenti “scintille di santità” che vengono riscattate ed elevate quando l’oggetto o la risorsa viene utilizzata per soddisfare la volontà divina. Le persone rette vedono queste scintille di potenziale divino come estensioni virtuali della loro stessa anima, forze che possono catapultare le loro anime ad altezze senza precedenti. Questo accade poiché comprendono che se la Divina Provvidenza ha fatto in modo di mettete quella cosa o risorsa nelle loro mani significa che la redenzione di quella cosa è parte integrante della loro missione nella vita in questo mondo”. Giacobbe è perfettamente consapevole del fatto che per realizzare lo scopo della sua esistenza ha bisogno di elevare le “scintille” di Essàv che giacciono nel mondo materiale, inclusi gli ultimi “piccoli vasi” rimasti. La sua elevazione, al livello “rimase solo”, non può prescindere dal riscattare le scintille occultate nella materialità. Missione simboleggiata dai “vasetti”. Quindi, Giacobbe rimane solo per svolgere tale compito e per questo incontra l’angelo di Essàv che lotta con lui fino all’alba. La visione del “mondo di Essàv” è finalizzata al godimento della materia e non di elevarla in santità, per questo l’angelo attacca subito Giacobbe, perché è contrario ai valori di vita che lui rappresenta e così cerca di imporre il suo approccio terreno. Questo racconto non è lontano dalle nostre vie quotidiane come sembrerebbe. Ad esempio quando ci immergiamo in un affare economico per estrarre le “scintille”, ci possiamo trovare di fronte a simili dilemmi, anche noi, anche oggi! Chi prevarrà? Le tentazioni egoistiche, così comuni, nella ricerca della ricchezza o il nostro altruismo che ci dice come le ricchezze devono essere usate per uno scopo più alto delle nostre mere esigenze? Chi trionferà? La voce che afferma: “Il mio successo è dovuto solo a me! Che è solo grazie alla mia intelligenza e forza che ho questa ricchezza”; oppure quella che dice “Non è stata la mia forza e il mio potere personale a portarmi tutta questa prosperità, poiché è solo Dio che ci dona il potere di diventare ricchi” (Deuteronomio 8,17-18).
Avàk o Yabòk? Orgoglio o Umiltà?
Questa “eterna” battaglia, tra i nostri “Giacobbe e Essàv interiori” produce un’abbondanza di “polvere, avàk”. Infatti, in yiddish la ghematria (equivalente numerico) delle parole “gelt” (denaro) è “blote” (fango) è di 112. Numero che corrisponde alla parola yabòk che rappresenta una di filosofia antitetica rispetto a quella simboleggiata da Essàv. La polvere, non produce (naturalmente) la vegetazione, come fa la terra. Tuttavia trasporta potenti energie. I Cabalisti spiegano che “yabòk” (112) – il fiume che Giacobbe attraversa con la sua famiglia e i suoi possedimenti – è composto da due, delle tre, lettere ebraiche che formano la parola “avàk”, mentre solo la prima lettera è differente: “Yabòk” inizia con una yud invece di una alef, come avàk. La yud – un semplice punto – indica l’altruismo e il bitùl, (annullamento di fronte a Dio), mentre l’alef rappresenta, in questo contesto, i bisogni egoistici. Quando le forze negative vogliono rubare l’energia spirituale dal luogo di santità e benedizione si aggiunge alle lettere kuf bet (iniziali delle parole kedusha – santità e brakhà – benedizione), la lettera alef, in modo da formare la parola “akov” (alef kuf bet), le stesse lettere di avàk – polvere: simbolo della lotta contro l’edonismo e il narcisismo. In altre parole quando le lettere kuf bet – santità e benedizione, che corrispondono al successo nel lavoro, sono anticipate da un senso di umiltà, rappresentato dalla YUD, allora abbiamo “yabòk”, ovvero il “passaggio oltre il fiume” che simboleggia lo status della redenzione finale. Mentre quando il successo è legato al proprio IO, allora troviamo la alef (ego), prima delle lettere kuf bet (successo lavorativo), che forma la parola avàk – polvere che è lo status dell’esilio: quando Giacobbe deve combattere il simbolo della materialità solleva un grande polverone. Però alla fine della notte, ovvero alla fine dell’esilio, Giacobbe vincerà la sfida, debellando l’angelo del malvagio Essàv e riuscendo a passare da avàk a yabòk, dall’esilio e l’ego, verso la redenzione e l’umiltà. Perciò in una situazione salutare, la santità e la benedizione seguono la yud יבק – yabòk (Or Ha Torà Shir Hashirìm 719). Giacobbe eleva per primo la sua famiglia e le sue proprietà portandole attraverso il fiume “yabòk” (che comprende anche le stesse lettere del nome “Yaakov”) – e unendo il potere del Tòhu al fulcro del Tikkùn. Tuttavia sa che ancora ha bisogno di coinvolgere l’indomito Esaù e deve abbassarsi al suo livello, al fine di riscattare le “scintille” ultra-potenti che rimangono ancora nei “frammenti spezzati” al suo interno. Quindi torna per i “vasetti”, atto che lo porta verso l’immancabile battaglia notturna con l’angelo e la conseguente “polvere” (“avàk-ego”) che deve ancora essere trasformata in “yabòk-annullamento” (Torà Or Vayishlàkh 25a). In effetti, la polvere è così intensa che “l’uomo si è coperto di polvere”. Questo potrebbe anche spiegare il motivo per cui Giacobbe chiede all’angelo (quando l’angelo lo pregò di liberarlo): “Lasciami andare, perché il giorno irrompe”: “Sei un ladro o un giocatore d’azzardo, che hai paura del mattino?” Il denaro da solo, senza una direzione spirituale, diventa corrotto sotto forma di furto o gioco d’azzardo. Al che l’angelo gli risponde: “Sono un angelo, e dal giorno in cui sono stato creato, non è maturato il mio tempo per lodare Dio fino ad ora”. Per quanto difficile possa essere la battaglia, indipendentemente dalle nuvole di polvere che ha creato, Giacobbe prevale nella sua lotta con i tentacoli del materialismo. Concetto celato in questa frase e “la polvere dei loro piedi salì fino al Trono Divino”: Giacobbe lottando per compiere la sua missione di portare lo spirito nella materia (Esaù), raggiunge l’essenza del Divino che è dentro di lui, lo “stato super-cosciente”, che per conto suo non avrebbe potuto raggiungere.
Il Prezzo della Vittoria
“L’articolazione dell’anca di Giacobbe si è lussata mentre lottava”. La materia e lo spirito non sono ancora compatibili, quindi bisogna trasformare la polvere “avàk” in altruismo yabòk – bitùl, che è rappresentato dal divieto di mangiare il nervo sciatico scaturito dalla ferita all’anca. Ora, Giacobbe è pronto per incontrare Essàv realmente e non il suo angelo. Come risultato del suo trionfo sull’angelo lo stesso Essàv è stato un po’ abbattuto, il suo cuore si apre a suo fratello e i due finalmente si riconciliano. Le due nazioni e mondi, le due forze cosmiche che sono Essàv e Giacobbe, sono entrambe maturate al punto in cui possono cominciare a coesistere tra loro. I saggi discutono se questa sia stata una riconciliazione completa e sincera. L’argomento riflette la difficoltà di integrare i due. In entrambi i casi è iniziato il processo di risoluzione del contrasto tra materia e spirito. Eppure, questo è solo l’inizio del processo, solo ora inizia ad essere palese l’importanza della lotta storica tra spirito e materia e di tutta la polvere che creerà fino al momento dell’alba della redenzione, dove finalmente la materia sarà rettificata e lo spirito prevarrà (vedi Zohar porzione 170a). Oggi ognuno di noi ha in sé un simile microcosmo una battaglia simile. Dopo aver costruito una casa e una famiglia forti e aver assicurato la loro protezione, dobbiamo ancora rientrare nel “ring” – il “campo di battaglia” in cui lotteremo contro la potenza del richiamo della prosperità e del successo. In queste occasioni anche noi siamo soli. Quel posto tranquillo dove affrontiamo alcune delle nostre più profonde sfide interiori ci potrà sembrare lontano. Quando lo spirito si scontra con la materia, le battaglie genereranno polvere e molti di noi sono coperti di polvere. Ma ricordiamo che la nostra polvere è cara e preziosa a Dio – perché è il risultato di una lotta che è lo scopo stesso dell’esistenza. E la nostra polvere sale direttamente al Trono Celeste e genera energie senza precedenti che trasformano il mondo in cui viviamo. Dobbiamo essere consapevoli del fatto di avere il potere di prevalere, il potere di “Israèl”, il nome dato a Giacobbe dall’angelo di Essàv, la benedizione che emerge dalla lotta polverosa, “Perché hai lottato con il divino e con l’uomo e hai trionfato”. Soprattutto, dobbiamo sapere che Giacobbe combatté la parte più difficile della nostra guerra. E la sua battaglia permette a tutti noi di non essere sopraffatti dall’avidità e dalla corruzione del mondo. Il suo trionfo ci rende tutti capaci di integrare le forze della materia e dello spirito che lottano tra loro da millenni. Incredibile come una apparentemente banale lotta tra fratelli, nasconda in realtà un conflitto etico tra spirito e materia che dura fino a oggi, e tutto per causa di una NOTTE BUIA DI BEN 3590 ANNI FA!!!
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Ricordiamo come dalla sera del 5 Dicembre, fino a Pèssakh, si chiedono le piogge (anche in diaspora), non solo all’inizio della Amidà, ma anche dentro la nona benedizione di Barekh Alenu dove aggiungiamo Veten Tal Umatar.
Se qualcuno sbaglia o non si ricorda di aver recitato la giusta benedizione (solo entro il 1° mese) deve ripetere la Amidà.
19 di KISLEV
Da quando è nata la chassidùt, ebrei e non ebrei, osservanti e non (e talvolta persino gli stessi chassidìm) si pongono questa domanda: quale cambiamento sostanziale ha apportato la chassidùt all’ebraismo e al mondo? La Torà infatti è rimasta la stessa, le mitzvòt sono sempre le stesse; persino i cambiamenti in alcune piccole usanze, operati dalla chassidùt, sono basati su fonti antichissime. D’altro canto, è indubbio che la nascita della chassidùt sia stata una vera rivoluzione, poiché essa ha infuso un nuovo spirito nella vita ebraica, al punto da influire, anche forse inconsciamente, persino su coloro che sono dichiaratamente non chassidìm.
In una lettera scritta in occasione del 19 kislèv, il Rebbe Rashàb, rabbi Shalom Ber di Lubàvitch, illustra con due sole parole l’essenza della chassidùt. Egli descrive così gli effetti che ha avuto per l’ebraismo e l’umanità il di 19 kislèv, giorno “dell’esplosione” del pensiero e del movimento chassidico: “Ci sono state date la luce e la vitalità della nostra anima”. Queste due parole, “luce e vitalità”, riassumono l’intero significato della chassidùt.
Che Genere di Cambiamento?
Qual è la differenza in una stanza al buio o quando è illuminata? A livello degli oggetti che si trovano in essa tutto rimane invariato. La luce non crea nulla di nuovo e nulla aggiunge a ciò che si trovava già nella stanza. D’altro canto, non si può negare che la differenza c’è ed è sostanziale: quando la stanza è buia, gli oggetti sono privi di rilevanza, è difficile coglierne il vero valore e anziché farne un uso proprio e utile si rischia di inciamparvi, di danneggiarli e persino di farsi male.
Così è anche per la vitalità, lo spirito vitale non aggiunge nulla all’essenza stessa del corpo: gli arti sono gli stessi arti, gli organi rimangono anch’essi gli stessi organi. Ma è ovvio che il corpo può giacere come un minerale, senza valore e importanza, e può anche diventare una creatura viva, rigogliosa, piena di energia e forza. Tutto dipende dalla vitalità.
Questi due concetti – luce e vitalità – spiegano come si possano cambiare le cose da un estremo all’altro, senza dover aggiungere nulla alla loro essenza. Lo stesso oggetto, lo stesso corpo, può essere quindi vivo e luminoso o al contrario cupo e morto.
Non si Può Farne a Meno
La chassidùt, nella sua vera essenza, è luce e vitalità. La sua definizione più diffusa è quella di “Profondità della Torà e anima della Torà”. Essa rivela una luce nuova che rende ancor più vive e rigogliose le mitzvòt della Torà.
La Torà è la stessa Torà, le mitzvòt sono le stesse mitzvòt, ma con la chassidùt esse irradiano ancora di più luce e vita. Con l’avvento della chassidùt, infatti, molti studiosi iniziarono a concepire in maniera diversa la Torà e a osservarne i precetti con calore, energia e gioia. La routine e l’abitudine hanno così lasciato il posto a un’ondata di vita interiore che ha colmato la vita ebraica.
La chassidùt porta un messaggio che sembra contrastante, contraddittorio. Studiandola, risulta chiaro che le sue radici affondano nel Talmùd, nei midrashìm, nelle opere dei grandi pensatori e filosofi ebraici, nei libri di Cabalà e così via, come se tutto fosse già stato detto e scritto. Ma l’approccio e la maniera di spiegare i concetti rivelano un mondo totalmente nuovo, nuove profondità, nuova chiarezza e nuovi legami fra tutti i campi della Torà. Grazie alle spiegazioni della chassidùt, ogni concetto, ogni argomento, acquisisce un nuovo status; essa illumina e rende viva la Torà, proiettandone gli insegnamenti in una dimensione totalmente nuova.
Ci si può quindi chiedere che cosa ne fosse dello studio della Torà prima dell’avvento della chassidùt: si brancolava forse nel buio? Non si capivano forse gli insegnamenti della Torà? Si aveva forse una visione distorta della realtà spirituale ebraica?
Si viveva semplicemente come prima che venissero redatte la Mishnà, la Ghemarà e le altre grandi opere di pensiero e legislative: a quel tempo gli studiosi erano in grado di dedurre i medesimi insegnamenti semplicemente dai versetti della Torà. Nel corso delle generazioni però sono sorte nuove necessità, il mondo è cambiato e l’ebreo è diventato meno capace di trarre le stesse conclusioni dai soli testi studiati dal padre. In risposta alla crescente debolezza spirituale che ha colpito nei secoli il popolo ebraico, sono nate opere “nuove” e pensieri “innovativi”, che nella loro essenza in realtà non hanno nulla di nuovo, giacché tutto fu insegnato a Moshè sul monte Sinày.
Prima della nascita della chassidùt, quindi, gli ebrei sapevano trarre dalla Torà e dalle mitzvòt stesse la loro luce e la loro profondità.
Ora, però, che la chassidùt è stata rivelata per volontà divina in risposta alle necessità delle nostre generazioni, è molto difficile raggiungere la stessa perfezione nello studio della Torà e nell’osservanza delle mitzvòt senza la luce e la vitalità che essa ci dona con i suoi insegnamenti.
Novità o non novità, di certo comunque oggi non se ne può fare a meno.
Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor
(lezione di 21 nov. 2018 su Vayishlàkh 36mn)
Nuova lezione bomba 12/12/19 di questa settimana
VAYISHLAKH 8°: GRANDI INSEGNAMENTI DI VITA
Valutiamo Sempre le Importanti Decisioni Senza Ego
Due prospettive
Sherlock Holmes e il dr. Watson vanno in campeggio insieme, montano una tenda pronti per godersi un tranquillo riposo vicino al fuoco. Nel cuore della notte, Sherlock si gira verso il dr. Watson e dice: “Allora, cosa stai pensando adesso?”
Watson risponde: “Sherlock! È fantastico. Sto guardando le stelle celesti che si librano sopra di noi, sono sopraffatto dallo splendore romantico della notte, avvolto da questa vista pittoresca. E tu, invece a cosa stai pensando”? chiede Watson.
“Che qualcuno ha rubato la nostra tenda”, risponde Sherlock.
Doni, Preghiera E Guerra
Dopo trentaquattro anni di separazione dai suoi genitori, Giacobbe lascia Lavan, assieme a tutta la sua famiglia, per tornare a casa sua, in Terra di Israele. Ancora in viaggio apprende che suo fratello Esaù sta avanzando verso di lui con un imponente esercito, determinato a ucciderlo.
I nostri saggi osservano da questo episodio della Torà (Vayishlàkh), come Giacobbe prepara il confronto con Esaù attraverso una triplice strategia: “doni, preghiera e guerra”. Quindi, Giacobbe come prima cosa invia doni sontuosi a Esaù nella speranza di placare la sua ira: capre, pecore, cammelli, mucche, tori e asini. Successivamente, inizia una sincera e fervente preghiera, sottomettendo la sua sorte e quella della sua famiglia alla compassione di Dio. Solo alla fine, Giacobbe prepara se stesso e la sua famiglia a una vera e propria guerra con Esaù.
La Battaglia Quotidiana
Le storie nella Torà non sono solo eventi accaduti a un certo punto della storia, che coinvolgono personaggi particolari. Sono anche riflessi di episodi spirituali ed emotivi che possono verificarsi continuamente in ogni cuore umano.
L’uomo è una dualità intrinseca, poiché è allo stesso tempo un “mucchio di polvere” e una “visione di Dio”. I fratelli gemelli, Giacobbe ed Esaù, incarnano queste forze antitetiche all’interno della stessa personalità di ogni essere umano: Esaù incarna la nostra identità egoista, egocentrica e animalesca; mentre Giacobbe personifica la nostra anima trascendente, spirituale e idealista.
L’inimicizia e la rivalità tra i fratelli riflettono la tensione e la lotta tra queste due forze nelle nostre vite: la lotta tra il nostro ego e la nostra umiltà, tra le nostre voglie egoistiche e le nostre nobili aspirazioni, tra le nostre impulsive lussurie e le nostre brame altruistiche.
Nessuno di noi è esente da questo confronto quotidiano con “Esaù”. Siamo costantemente sopraffatti da stati d’animo egoistici e appetiti immorali. Queste incessanti richieste della nostra coscienza egoista e bestiale rappresentano una continua minaccia mortale per il nostro “Giacobbe” interiore. In che modo possiamo affrontare queste potenti forze, che apparentemente sono molto più potenti delle forze sante dentro di noi? Utilizzando la vincente strategia in tre fasi di Giacobbe: doni, preghiera e guerra!
Onorare Il Tuo Animale
Prima di tutto, dobbiamo concedere al “nostro” Esaù alcune risorse fondamentali. Dobbiamo riconoscere la coscienza animale che vive in noi e onorare la presenza dei suoi essenziali e legittimi bisogni: mangiare, dormire, fare esercizio fisico, guadagnarci da vivere e impegnarci in una relazione continua con il mondo fisico che ci circonda. L’anima animale merita di ricevere da noi un sontuoso omaggio quotidiano che include il nostro tempo, energia e risorse.
Tuttavia, come possiamo assicurarci di non esagerare? Come possiamo garantire che i nostri tributi quotidiani all’identità animale dentro di noi non la mettano al centro della nostra vita, soppiantando l’anima spirituale come il vero nucleo della nostra identità? Per evitare questo rischio, Giacobbe deve impegnarsi nella preghiera: “Salvami”, grida Giacobbe a Dio, mentre Esaù si sta avvicinando, “dalla mano di mio fratello, dalla mano di Esaù. Ho paura di lui, perché potrebbe venire e colpirmi”.
Non sarebbe necessario temere l’influenza di Esaù se fossimo distaccati dalla realtà di Esaù, se dovessimo vivere come asceti spirituali. Eppure l’ebraismo esige che Esaù diventi il nostro “fratello”; ossia che impieghiamo i nostri bisogni corporei e animali nel lavoro che dobbiamo svolgere nel mondo fisico che ci circonda. In queste condizioni, l’unico modo in cui possiamo assicurarci che Esaù non domini e controlli la nostra vita è attraverso la preghiera.
Il Dono Della Preghiera
Che cos’è la preghiera? Proprio come c’è un tempo per coinvolgere l’anima animale e rendere omaggio ai suoi bisogni e desideri, ogni giorno c’è un momento in cui lasciamo andare la nostra identità fisica ed entriamo nell’oasi trascendente della nostra anima. Questi è il momento in cui mettiamo a dormire l’ego e scopriamo il nostro amore interiore e la nostra spiritualità. Tutto il giorno, pensiamo alle nostre “tende”, dimore; mentre solo durante la preghiera ci concentriamo sulle stelle, sullo splendore e sul significato dell’esistenza. Abbiamo mai provato veramente il potere della preghiera su di noi? Purtroppo, è sempre più difficile trovare delle vere “oasi spirituali” dove trovare la giusta concentrazione e intenzione, nel nostro mondo freneticamente materialista. È un peccato, perché mancando dell’esperienza quotidiana della preghiera autentica diventiamo inevitabilmente vulnerabili all’attacco di Esaù.
Ad esempio, quando già al mattino presto non preghiamo, meditiamo e non colleghiamo con Hashèm le nostre anime, spesso ci manca il coraggio e la visione per controllare i nostri desideri fin dall’inizio della giornata: ad esempio, un’eccessiva dipendenza dal cibo; oppure al lavoro potremmo non avere la forza di condurre i nostri affari onestamente ecc. La preghiera assicura che il tributo che presentiamo alla nostra anima animale non ci esaurisca completamente, non ci porti via tutto di noi, il nostro vero “sé”.
Ultima Spiaggia
Tuttavia, tutto quanto sopra non è sufficiente. Giacobbe deve anche prepararsi alla guerra. Alcuni degli impulsi e delle passioni della nostra anima animale non possono essere affrontati solo attraverso la preghiera. Dobbiamo dichiarare guerra contro di esso come dice il Talmùd Berakhòt 5a: l’istinto animalesco deve essere educato con severità, perché se lasciato libero rischia di prendere il comando della vita e fare cadere la persona molto in basso.
A volte durante il giorno o la notte, siamo sopraffatti da un forte, animalesco bisogno di Esaù che brucia nei nostri cuori come una fornace. In quel momento c’è solo una cosa da fare: dobbiamo dare un “pugno in faccia” al nostro impulso animalesco e andare avanti con la nostra vita. La guerra è una cosa cattiva, ma a volte è la nostra unica speranza di sopravvivere all’assalto di un demone che è determinato ad ucciderci.
Una storia
Uno dei grandi maestri chassidici, Reb Simkha Bunam di Psheskha, una volta osservò che la vera definizione di un uomo spirituale è colui che immagina sempre di avere la testa sdraiata in una ghigliottina, il suo Yètzer Harà (cattiva inclinazione) che si libra sopra di esso, pronto a tagliare la sua testa in un momento.
“Ma Rebbe”, chiese uno dei Chassidim, “e se uno non avesse quella sensazione?”
“In quel caso”, rispose il Rebbe, “vuol dire che la sua testa è già stata tagliata via.”
Basato sugli scritti del Rebbe Shneur Zalman di Liadi che questo mercoledì si festeggia il capodanno della rivelazione della Chassidut il 19 di Kislev.
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QUANDO L’AMORE DIVENTA ODIO!
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La Parashà di Vayishlàkh tratta in sintesi i seguenti argomenti:
Ya’akòv invia messaggeri a Essàv con parole di pace. I messaggeri tornano e raccontano a Ya’akòv che il fratello è in arrivo con quattrocento uomini armati. Ya’akòv, impaurito divide il suo accampamento in due e prega HaShèm di aiutarlo. Ya’akòv manda, in diverse fasi doni a Essàv sperando che cambi idea e non lo attacchi.
Ya’akòv attraversa il fiume e combatte con l’angelo di Essàv. Ya’akòv vince, ma l’angelo lo colpisce al nervo sciatico e lo chiama Israèl. Per questo ancora oggi gli ebrei non mangiano il nervo sciatico degli animali.
Ya’akòv ed Essàv si incontrano “pacificamente”. Essàv propone a Ya’akòv di accompagnarlo, ma questi rifiuta a causa del bestiame e dei bambini. Ya’akòv giunge a Shekhèm, dove acquista un terreno vi si stabilisce.
Dinà viene rapita da Shekhèm, il figlio del re. Il re viene a chiederla in moglie per il figlio a qualunque costo. I figli di Ya’akòv accettano, a condizione che tutti i loro uomini si circoncidano. Al terzo giorno della convalescenza quello più doloroso, Shim’òn e Levì uccidono tutti. HaShèm ordina a Ya’akòv di trasferirsi a Bet El e di erigervi un altare. Dopo essersi liberato di qualunque oggetto idolatra di Shekhèm. Ya’akòv parte.
Morte di Devorà, la nutrice di Rivkà. HaShèm si rivela di nuovo a Ya’akòv promettendogli la terra di Kenà’an.
Durante il viaggio verso Efràt, Rakhèl partorisce Binyamìn e muore: Rakhèl viene sepolta a Efràt, dove Ya’akòv erige un monumento sulla sua tomba.
Ya’akòv giunge dal padre Yitzkhàk che scompare all’età di 180 anni; Essàv e Ya’akòv lo sepelliscono.
La discendenza di Essàv, otto re che regnano in successione su Edòm.
La Parashà di Vayishlàkh contiene un divieto, di mangiare il nervo ischiatico (32,33)
MIDRASHIM
Ya’akòv Lotta con l’Angelo (Bereshìt 32,25-31)
Midràsh Bereshìt Rabbà 77;Tifèret Tziyòn 75,3;Talmùd Khullìn 91;Midràsh Tankhumà B.
(a pagina 660 del volume Bereshìt edizioni Mamash ).
Morte e Sepoltura di Rakhèl (Bereshìt 35,19-20)
Midràsh Bereshìt Rabbà 81-82.
(a pagina 663 del volume Bereshìt edizioni Mamash ).
SIKOT
Il Messaggio Insito nel Nome.
(a pagina 730 del volume Bereshìt edizioni Mamash ).
Ya’akòv nei Panni di Essàv.
(a pagina 734 del volume Bereshìt edizioni Mamash ).
VAYISHLAKH 5771: L’EBREO CON IL MONDO O CONTRO IL MONDO?
Per la nostra generazione in esilio, circondata da nemici, è necessario trovare un equilibrio tra l’affrontare il nemico e l’annullamento di sè. Dal comportamento di Yaakòv, attraverso il Midrash Rabbà e la Chassidut, inizia un viaggio unico che ci porta ad approfondire il significato del mondo in equilibrio tra il bene e il male, della ragione della loro esistenza.
VAYISHLAKH 5770: QUANDO L’AMORE DIVENTA ODIO!
Il malvagio regno di Menashè è caratterizzato da forti analogie con il comportamento di Timnà. Un viaggio ricco di approfondimenti psicologici che si addentrano nelle ragioni che possono trasformare l’amore in odio, nei meccanismi insiti nell’antisemitismo. Quando si ama profondamente qualcosa, se non si riesca ad avere, è facile che il sentimento si trasformi in odio!
VAYISHLAKH 5769: ANTISEMITISMO, LE RADICI LONTANE DELL’ODIO
I tre comportamenti di Yaakòv di preparazione all’incontro con Essàv rappresentano la guida per tutte le generazioni in esilio di fronte ai nemici e alle radici dell’odio. Essàv si presenta come un fratello, in tale concetto si nascondono diversi aspetti: dalla natura irrazionale dell’odio al pericolo dell’assimilazione.
VAYISHLAKH 5768: SIMBOLO DELLA REDENZIONE
I ricchi simbolismi presenti nella sfida tra Yaakòv ed Essàv. D-o non interviene nel fermare Essàv, il suo angelo custode e lascia Yaakòv solo davanti alla sofferenza. L’ultimo patriarca corrisponde all’ultimo esilio, il suo rientro in terra santa introduce il valore della redenzione.
VAYISHLAKH 5766: IL DONO DI YAAKOV
La preparazione di Yaakòv all’incontro con Essàv. Il dono, il modo in cui viene presentato, le parole che lo accompagnano rappresentano un insegnamento per ogni generazione quando si deve affrontare l’odio e le avversità. La lotta tra Yaakòv e l’angelo custode di Essàv simboleggia la temporaneità delle difficoltà dell’esilio. Un viaggio ricco di approfondimenti nei simbolismi insiti nel ritorno dell’ultimo patriarca in Terra Santa, che ci insegna come affrontare le difficoltà della nostra generazione.
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Una risposta a “VAYISHLAKH: 13 KISLEV 5785 > 8 LEZIONI PRECEDENTI”
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