EKEV 5784: 3 LEZIONI

17 Agosto 2024 0 Di HaiimRottas

Questo Shabbàt 24 Agosto 2024, 20 del mese di AV 5784 leggeremo la Parashà di Ekèv Deuteronomio 7: 12 – 11: 25

HAFTARÀ
Isaia 49: 14 – 51: 3.

EKEV

In occasione dell’anniversario della scomparsa di Rabbi Levi Yitzhak, il 20 di Av, che quest’anno cade proprio l’ottantesimo anniversario del papà del Rebbe, grande studioso e cabalista, proponiamo questo toccante articolo. Buona lettura!

Un Padre Ricco
Un povero mendicante chiede l’elemosina dal barone Rothschild. Scontento della somma che gli era stata data, il mendicante si lamenta: “Tuo figlio mi ha dato il doppio. «Beh, mio figlio può permetterselo», disse il barone Rothschild. “Ha un padre ricco…”.

Doni di Legna
Il Talmud riporta una narrazione che si verificò il 20 di Av, nel processo di ristabilimento della vita ebraica in Terra Santa nel IV secolo a.e.v., in seguito alla distruzione del Primo Tempio. Quando il popolo ebraico tornò nella Terra di Israele, dopo settant’anni di esilio in Babilonia, per reinsediare la terra e ricostruire il Bet Hamikdàsh (Sacro Tempio) di Yerushalàyim, affrontò molte difficoltà. La comunità era piccola e povera (la maggior parte degli ebrei scelse di rimanere in esilio; solo 42.000 di loro fecero ritorno) e minacciata da molti nemici. In contrasto con la gloria dorata del Primo Tempio, costruito da Re Salomone all’apice del potere e della prosperità ebraica, il Secondo Tempio era fatto di semplice pietra e malta. La tesoreria del Tempio non poteva nemmeno permettersi di pagare la legna da ardere per l’Altare.
Diverse famiglie si sono fatte avanti per risolvere il problema. Ognuno ha donato una grande quantità di legna da ardere; Quando le scorte portate da una famiglia erano esaurite, un’altra famiglia portava la sua donazione. In questo modo, nove famiglie fornirono legna per il primo anno critico dell’esistenza del Bet Hamikdàsh, fino a quando la tesoreria del Tempio poté permettersi di procurarsi il legno in modo indipendente.
Per premiare la loro generosità, i profeti dell’epoca istituirono che la data in cui ogni famiglia iniziava a donare la legna, fosse fissata nel calendario del Tempio. Ogni anno, quando arrivava il giorno di una determinata famiglia, a questa veniva concesso il privilegio di fornire di nuovo legna per l’Altare, anche se i forzieri del Tempio erano pieni di denaro e di legna da ardere. Queste donazioni sono state accompagnate da una cerimonia speciale e la giornata è stata celebrata come una festa per la famiglia donatrice.
Uno dei giorni dell’offerta di legna era il 20 di Av, durante il quale una famiglia chiamata “Pàkhat-Moab”, della tribù di Yehudà-Giuda, portava la legna al Tempio.

Dibattito sulla Genealogia
Ora, il Talmud si impegna in una discussione riguardante l’identità della famiglia intitolata “Pàkhat-Moab”. Chi erano e da dove venivano? Il Talmud cita una discussione tra due dei più grandi saggi, Rabbi Mèir e Rabbi Yossi, due famosi Tannaìm (studiosi talmudici) che vivevano in Israele nel II secolo e.v., circa cento anni dopo la distruzione romana del Secondo Tempio.

QUANDO RUT CAMMINAVA DA SOLA &
REB LEVI YITZHAK BALLAVA DA SOLO

Secondo l’opinione di Rabbi Mèir, la famiglia che la Mishnà chiama “Pàkhat-Moab” la sua discendeva dal re Davide, vissuto circa cinque secoli prima. Secondo il punto di vista di Rabbi Yossi non era un discendente del re Davide, bensì proveniva dal nipote di Davìd, Yoav ben Tzeruyà, che serviva come comandante in capo degli eserciti di re Davide. La madre di Yoav, Tzeruyà, era una sorella del re Davide, quindi Yoav era il nipote di Davide.
Perché la famiglia era denominata “Pàkhat-Moab”? Perché, secondo entrambe le opinioni, i membri di queste famiglie erano discendenti di Rut, una donna moabita che si convertì all’ebraismo ed era la bisnonna di Davide e di sua sorella Tzeruyà. Rut, infatti, sposò Boàz ed ebbe un figlio di nome Ovèd, il padre di Yishày, il padre del re Davide. “Pàkhat Moab” significa un “capo di Moab”, e Rut, infatti, era una principessa moabita che divenne ebrea.

Chi Se ne Importa…?
Eppure l’intera discussione sembra superflua. Il Talmud si rivolge a un evento accaduto centinaia di anni prima, quando una particolare famiglia donò della legna al Tempio. Perché è importante sapere se facevano risalire la loro discendenza a Davide o a suo nipote? Per di più, la discussione si svolge tra i saggi talmudici che vissero un secolo dopo la distruzione del Tempio, in cui l’intera tradizione era una cosa della storia. Discutere in un momento del genere l’esatta genealogia della famiglia che un tempo contribuì con il legno in un giorno specifico, anche se i loro discendenti portarono avanti questa tradizione per tutta l’era del Secondo Tempio, sembrerebbe irrilevante.
C’è qualcos’altro di non detto in questa narrazione. Inoltre, la Torà ci proibisce di ricordare ai convertiti la loro origine non ebraica perché la cosa potrebbe farli sentire a disagio. La Torà vede questo come un grande peccato e lo ripete numerose volte. Perché, allora, la Mishnà descrive questa famiglia come “Pàkhat-Moab”, i discendenti di Moab, uno degli antichi acerrimi nemici del popolo ebraico? Specialmente in questo contesto, quando i nostri saggi cercano di lodare la famiglia e la sua generosità, perché dovremmo enfatizzare le sue complicate origini?
A meno che, ovviamente, questo dettaglio non faccia luce sull’intera storia.

Il Vero Dare
Il “tempo limite” per il taglio del legno nella terra di Israele era il 15° di Av, giorno che segna il culmine dell’estate. Dopo questa data, il calore del giorno diminuisce e il legno che viene tagliato è più umido e soggetto a vermi, pertanto era proibito utilizzare tale legno, poiché poteva essere infestato da vermi e non è idoneo per l’altare. Quindi la famiglia che contribuì con la legna il 20 di Av portava legna al Tempio in un momento in cui la loro scorta di legna non poteva più essere rifornita con legna di buona qualità, perciò i loro doni erano tenuti in particolare considerazione.
Inoltre, le famiglie che donavano il legno non lo facevano per il proprio beneficio, ma piuttosto per il bene della comunità e del Santo Tempio. Questo legno sarebbe stato usato anche dagli israeliti che erano obbligati a portare un’offerta al Tempio, e i peccatori che dovevano espiare i loro peccati portando un’offerta. Queste famiglie avrebbero potuto pensare: “Perché dovremmo rinunciare al legno prezioso per prenderci cura dei peccatori ebrei? Che portino la loro legna!” Eppure essi diedero via la loro legna in modo che ogni singolo ebreo potesse portare il suo sacrificio sull’altare del Tempio.
Stare in piedi in una foresta nel caldo torrido di un’estate israeliana per tagliare la legna è un compito arduo ed estenuante. Eppure questa famiglia rimase nella foresta per molti giorni, settimane e forse mesi, tagliando enormi quantità di legna. E poi presero tutta questa legna e la diedero via in modo che ogni singolo, anche un ebreo di cui non avevano mai sentito parlare e che aveva commesso molti peccati, potesse godere di una fiamma ardente nel Tempio e offrire i suoi sacrifici all’Onnipotente.
Inoltre, le moltitudini di ebrei che hanno beneficiato del contributo di questa famiglia, non saprebbero mai a chi è dovuto il merito. Non c’era una “targa” sull’altare che ricordasse a ogni visitatore chi fosse il responsabile del legno donato. Questa è stata una donazione fatta senza riconoscimenti. E lo fecero non a malincuore, ma con immensa felicità, al punto che ogni anno avrebbero segnato questo giorno come un giorno di festa, poiché lo consideravano uno dei giorni più felici della loro vita!
Una tale famiglia, che dona in questo modo e con tanta gioia, professa una certa caratteristica morale unica che scorre nelle sue “vene”. Questo è il motivo per cui il Talmud si impegna in una discussione riguardante la genealogia di questa famiglia che donava legna il 20 di Av. Ciò che il Talmud sta cercando di capire non è solo la genealogia dei fatti, ma da dove questa famiglia ha ereditato questo tipo di generosità? Chi ha educato questi bambini?
E la risposta è “Pàkhat-Moab”: questa famiglia proveniva da una donna di nome Rut, una principessa moabita che divenne ebrea. È la sua storia che spiega la loro generosità.

La Storia di Rut
Questa storia è trascritta in modo commovente nel libro biblico di Rut. Inizia nella Terra di Israele colpita dalla carestia durante il periodo storico dei Giudici, approssimativamente nell’anno ebraico 2787 (973 a.e.v.). Il ricco e influente ebreo Elimèlekh e la sua pia moglie Naomi, insieme ai loro due figli, Makhlòn e Kilyòn, abbandonano la loro terra e il loro popolo in cerca di un futuro migliore. In Giudea, Elimèlekh era assediato dai fardelli della vita comunitaria ebraica e dall’assalto dei mendicanti affamati in cerca di cibo e denaro. Pertanto, si trasferisce con la sua famiglia nella terra pagana di Moab, situata nell’odierna Giordania, sulla riva orientale del fiume Giordano.
Nella terra di Moab, la famiglia perde la sua fortuna ed Elimèlekh muore. I suoi figli sposano principesse moabite: Makhlòn sposa Rut e Kilyòn sposa Orpà. Rut e Orpà erano le figlie di Eglòn, re di Moab. Poco dopo i loro matrimoni, Makhlòn e poi Kilyòn muoiono improvvisamente. Naomi, un tempo stimata, è ora una vedova senza un soldo e senza figli, una straniera in terra straniera. Suo marito ed entrambi i suoi figli sono morti. È rimasta sola con due giovani nuore che sono vedove anche loro. Quindi, Naomi decide di tornare a casa, in Terra Santa.
Quando il periodo di lutto per i suoi figli finisce, Naomi inizia il suo arduo e doloroso viaggio di ritorno alla sua terra e al suo popolo. Rut e Orpà cominciano fedelmente ad accompagnarla. Fanno insieme quaranta passi. Ma poi Naomi li ferma. Le scoraggia dal continuare il viaggio, esortandole invece a tornare alle case dei genitori e alla ricca vita di palazzo della loro giovinezza.
“Tornate, figlie mie”, dice loro Naomi. “Perché dovreste venire con me? Sono una vecchia vedova distrutta; La vita è stata crudele con me. Voi ragazze avete un futuro brillante davanti a voi. Siete giovani e belle. Tornate indietro e aprite un nuovo capitolo della vostra vita”.
Una nuora, Orpà, si lascia convincere. La logica sobria della sua pia suocera le si addice bene. Scambia la sua fragile e anziana suocera con un futuro nuovo e pieno di speranza, di nuovo con la sua gente e la sua cultura.
Ma l’altra nuora, Rut, non si lascia convincere dalla supplica della suocera. È determinata a condividere un destino comune con Naomi, qualunque cosa il futuro le possa riservare.
“Orpà”, dice il Tanàkh, “baciò sua suocera in segno di addio, ma Rut si strinse a lei”.
Con parole eroiche e immortali, custodite nei cuori maestosi del nostro popolo, Rut dichiara: “Dovunque tu vada, andrò io. Dove alloggerai tu, alloggerò io. Il tuo popolo è il mio popolo. Il tuo Dio è il mio Dio. Dove muori tu, morirò io”.
E così è stato. Orpà tornò a Moab, dove iniziò una nuova vita. Rut, invece, rimase volontariamente con sua suocera (probabilmente una cosa del genere non è mai più accaduta nella storia ebraica) e divenne ebrea, anche se ora era indigente e sola. Proveniente da un ambiente reale, aristocratico e ricco, Rut era ora isolata e povera. Era una convertita proveniente da una nazione che era vista come un acerrimo nemico del popolo ebraico (al punto che a nessun maschio convertito da quella nazione è permesso di sposare donne ebree), quindi sapeva che le “sopracciglia” si sarebbero alzate, quando la gente avrebbe sentito parlare delle sue origini. Questa ex principessa fu costretta a unirsi ai mendicanti di Israèl per raccogliere il grano avanzato dai proprietari dei campi, in modo da poter sopravvivere.

L’Anima di Rut
Perché Rut fece un sacrificio del genere? Perché ha sottoposto la sua vita a tante difficoltà, quando non aveva assolutamente alcun obbligo di seguire la suocera?
La sua foto e la sua biografia non sono state pubblicate su nessun sito web. Non era una “storia”, una sensazione, una “donna di valore”. Nessuno cantava le sue lodi e si meravigliava del suo impegno. A questo punto della storia, Rut non era altro che una povera vagabonda, lontana dai riflettori. Ciò che la ispirò fu una sola causa, espressa nel summenzionato proclamo a Naomi: “Dovunque andrai tu, andrò io. Dove alloggerai tu, alloggerò io. Il tuo popolo è il mio popolo. Il tuo Dio è il mio Dio. Dove muori tu, morirò io”. Il suo proposito non era altro che la verità. Nessuna “fanfara”, nessuna attenzione, nessuna ricompensa, nessun conforto e nessun riconoscimento. Rut era una “principessa interiore”, senza il bisogno di conferme esterne. Ha fatto tutto per Hashèm, solo per Lui, e questo era sufficiente.
Alla fine, il suo nome è stato inciso negli annali della nostra storia. Rut sposò un giudice di nome Boàz e diedero alla luce un ragazzo di nome Ovèd, padre di Yishày, che generò il re Davide. Rut era la bisnonna di Davide. L’intera dinastia reale davidica, compreso lo stesso Mashìakh, deriva da una donna moabita convertita all’ebraismo: Rut.
Perché lei, una convertita moabita, divenne la madre dei reali ebrei? Perché nell’ebraismo, la definizione di un vero leader è qualcuno che non ha come obiettivo la fama, l’onore o il potere. Il suo unico “ordine del giorno” era di servire Hashèm e il Suo popolo. Questo è ciò che era Rut: anni prima che qualcuno conoscesse il suo nome, si era impegnata anima e corpo per la causa. “Dovunque tu vada, andrò io. Dove alloggerai tu, alloggerò io. Il tuo popolo è il mio popolo. Il tuo Dio è il mio Dio. Dove muori tu, morirò io”.

L’Impatto di una Madre
Circa sei secoli dopo, la famiglia di Israèl Pàkhat-Moab che viveva all’inizio dell’era del Secondo Tempio, dimostrò una generosità straordinaria e disinteressata. Rimanevano per settimane in una foresta ardente, impegnati in un lavoro straziante, al fine di dare un contributo che non poteva essere restituito, a beneficio di persone che non conoscevano e che non conosceranno mai, oltretutto molte di esse erano tra peccatori di Israele.
Da dove hanno ottenuto questo livello di devozione? Il Talmud è ansioso di scoprirlo.
La risposta: venivano dalla famiglia di Davide o dal suo generale Yòav. Eppure questo non basta! Davìd e Yoav erano entrambi grandi uomini, ma già in tenera età erano diventati popolari e influenti, le loro lodi erano cantate tra le moltitudini. La loro fama raggiunse l’intera nazione. Questa famiglia, al contrario, possedeva la qualità unica di un impegno totale e disinteressato, anche senza ricevere alcun riconoscimento. Da dove viene tutto questo?
Da «Pàkhat, Moab!» Questo fu il dono di Rut, la principessa moabita che si lasciò tutto alle spalle per intraprendere un viaggio sconosciuto che non le avrebbe procurato altro che il disprezzo del suo nuovo popolo che non amava Moab. Perché Rut ha fatto questo allora? Perché “Il tuo popolo è il mio popolo. Il tuo Dio è il mio Dio. Dove muori tu, morirò io”.
Qui abbiamo una classica illustrazione dell’epigenetica: Rut visse circa sei secoli prima che questa famiglia donasse il legno. Eppure nell’ebraismo, il comportamento dei genitori, dei nonni e dei bisnonni, lascia un’impronta profonda sui loro figli e discendenti, anche molti secoli dopo. Rut inculcò qualcosa nella sua famiglia che non si allontanò da loro nemmeno centinaia di anni dopo.

Il Padre del Rebbe
Ho trovato commovente che il 20 di Av, il giorno commemorato nel Talmud come il giorno in cui i discendenti di Rut hanno donato il loro legno al Tempio, sia anche lo yahrzeit (anniversario della scomparsa) del grande leader, saggio e cabalista, Rabbi Levi Yitzkhàk Schneerson (1878-1944), padre del Rebbe Lubavitch, morto in esilio in Kazakistan, dopo che i comunisti lo avevano imprigionato ed esiliato a causa del suo lavoro nell’insegnamento e nel sostegno della Yiddishkeit (il mantenimento e la diffusione della Torà e dell’ebraismo) in Russia. Come Rut, ci sono stati gli anni della sua vita in cui è stato completamente sotto i “riflettori” del comunismo e quindi esiliato dal regime stalinista in un remoto villaggio del Kazakistan. Dalla sua posizione di rabbino più importante e influente in Russia fu catapultato in una città senza ebrei e con a malapena le necessità di base per la vita.
Sua moglie, Rebbetzin Chana, che si era volontariamente unita a lui nel suo esilio, descrive il comportamento del marito in quelle condizioni folli. Un’immagine che non riesco a togliermi dalla mente. È Simkhàt Torà. In passato, Rabbi Yitzkhàk guidava le danze festive nel grande shul di Dnipropetrovsk, in Ucraina, dove prestava servizio come rabbino capo. Centinaia e centinaia di ebrei venivano a ballare con lui. C’era una speciale melodia gioiosa che cantava ogni anno a Simkhàt Torà ed era conosciuta in città come “La canzone dei rabbini”. Suo figlio, il Rebbe di Lubavitch, cantava anche lui questa canzone a ogni Simkhàt Torà.
Nel 1944 invece si trovava in un appartamento con una camera da letto, infestato da topi, pieno di fango, con il freddo che penetrava nelle pareti sottili della capanna. Il suo padrone di casa non era amichevole con gli ebrei e aveva molti maiali che vagavano per la casa.
Ma era Simkhàt Torà! La Rebbetzin Chana descrive come improvvisamente vide sul volto di suo marito lo stesso splendore degli “anni buoni”. Solo al mondo, senza un solo studente o amico, Reb Yitzhàk iniziò a dire “Ata Hareta” (una preghiera recitata durante Simkhàt Torà) con lo stesso tono profondamente emotivo con cui lo aveva sempre fatto. E poi ha iniziato a cantare. Quale canzone? La sua solita canzone, Hakafòt, che cantava ogni anno nel suo shul. Per ore danzò, con il volto illuminato da uno splendore proveniente da un altro mondo. Era l’incarnazione delle parole immortali di Rut: “Dovunque tu vada, andrò io. Dove alloggerai tu, alloggerò io. Il tuo popolo è il mio popolo. Il tuo Dio è il mio Dio. Dove muori tu, morirò io”.

La Lezione Per Noi
L’intera narrazione del 20 Av contiene una lezione vitale per ognuno di noi. A volte pensiamo a noi stessi: ha importanza quello che faccio in privato? Se posso essere onorato da una cena di gala, va bene. Se almeno mia suocera riuscisse a scoprire le mie buone azioni e a lodarmi, sarebbe meraviglioso. Se tutti allo shul mi dicessero “yasher koach, Possa la tua forza essere arricchita”, sarebbe fantastico. Ma fare qualcosa di gentile per un’altra persona senza che nessuno lo sappia? Fare una mitzvà che non ha un impatto visibile sul mondo? Aiutare un prossimo ad avvicinarsi a Dio senza che lui o lei scopra mai che il merito è mio? Importa se mi trattengo dall’urlare o insultare il mio coniuge o mio figlio o il mio dipendente quando nessuno saprà mai cosa ho appena fatto?

Oscar Wilde una volta disse: “La sensazione più bella del mondo è fare una buona azione in modo anonimo e farla scoprire a qualcuno”. Ma nell’ebraismo, il nostro paradigma di leadership e ispirazione è una donna di nome Rut. Lei ci ha insegnato che non viviamo per i riconoscimenti degli altri, ma per Hashèm, per la verità. Dio sa cosa facciamo o non facciamo. Ogni buona azione compiuta in modo anonimo è conosciuta e apprezzata dal nostro Creatore. Hashèm abbraccia ogni respiro, ogni sacrificio e ogni Mitzvà che facciamo per amor Suo.

Tratto da uno scritto di Y. Y. Jacobson basato sui discorsi pronunciati dal Rebbe di Lubavitch il 20 Av negli anni 5711 e 5732 (22 agosto 1951 e 31 luglio 1972)

COME SUPERARE LE PREOCCUPAZIONI

Se in cuor tuo dovessi pensare: “Questi popoli sono molto più numerosi di me, come potrò cacciarli? Non temerli! Ricorda sempre quello che Hashèm, il tuo Signore, ha fatto al faraone e a tutto l’Egitto” (Devarìm7, 17-18)
La consapevolezza di come l’Onnipotente ci ha già prestato il Suo aiuto, ci permette di sconfiggere ogni preoccupazione.
La fiducia in Hashèm, il bitakhòn, elimina l’angoscia. Cos’è la preoccupazione? La paura di non riuscire ad affrontare situazioni future. Ma, se rammentiamo che l’Onnipotente ci ha già fornito aiuto in casi simili nel passato, sarà più facile avere fede in Lui nel presente. Moshè disse ai figli d’Israèl che, se dubitavano di poter sconfiggere i popoli che risiedevano nella terra di Canaàn, avrebbero dovuto ricordare come l’Onnipotente li aveva già soccorsi contro gli egiziani.
Pertanto ogni volta che siamo preoccupati del futuro, pensiamo “In che modo l’Onnipotente ha già dimostrato di poterci aiutare in difficoltà simili?”
Se temiamo nuove situazioni, cerchiamo di rammentarne altre che ci hanno causato ansia, ma che abbiamo affrontato comunque con successo.

…di attaccarvi a Lui [Hashèm]  (Devarìm 11, 22)
Il bitakhòn infonde alla persona pace e serenità e permette di studiare Torà!

Rabbi Mèir Simkhà Hacohèn commentando questo versetto affermò che il concetto di bitakhòn, fiducia in Hashèm, è accennato solo in forma allusiva nella Torà, non lo troviamo come esplicito comandamento: “Abbi fede in Hashèm”. Di conseguenza il nostro versetto costituisce il precetto di avere bitakhòn.
Uno degli esempi più belli di totale fiducia in qualcuno è il figlio di un re che ha fiducia in suo padre, questi lo ama ed è in grado di provvedere a tutte le sue necessità. Una tale situazione è paragonabile alla nostra relazione con l’Onnipotente, che è il nostro Re e Padre: appoggiarsi ad Hashèm significa vivere con questa consapevolezza. L’immediato beneficio per chi interiorizza tale attributo è la percezione di pace e serenità interiore. Il vantaggio spirituale si traduce, inoltre, nella propensione allo studio della Torà e al legarsi a studiosi di Torà. Tipico esempio di carenza di bitakhòn è quella persona che si preoccupata di far studiare ai propri figli la Torà, poiché ha paura che  nella vita essi potrebbero avere difficoltà finanziarie. Una persona provvista di bitakhòn, invece, è libera e felice di consentire ai propri figli di studiare Torà.
A volte, il Brisker Rav, Rabbi Yitzchok Zev Solovetchik, aveva difficoltà ad ottenere abbastanza denaro da distribuire mensilmente ai suoi studenti sposati. Quando gli fecero notare che se fosse riuscito a procurarsi in anticipo la disponibilità di alcune mensilità, non avrebbe avuto di che preoccuparsi, il Brisker Rav rispose: “Anche se mi offrissero una somma enorme da tenere in banca per pagare gli studenti, non la vorrei. Tale stato di “incertezza” mi permette di adempiere, ogni mese, alla mitzvà del bitakhòn. Non rinuncerei a questa mitzvà per nessuna cifra al mondo!”

Anche questa settimana proponiamo due brani, attinenti alla parashà settimanale, Èkev, estratti dal libro “Saggezza Quotidiana” basato sugli insegnamenti del Rebbe e dei maestri chassidici.
Come è noto il libro di Devarìm, il quinto e ultimo libro della Torà, è dedicato principalmente al discorso di commiato che Moshè declama ai membri del popolo di Israèl, poco prima della sua morte e del loro ingresso nella terra di Israele. Discorso che contiene preziosi insegnamenti di vita, anche per noi oggi.
I due brani scelti sono intimamente collegati, poiché spiegano come riuscire ad arrivare a “Imitare Hashèm”, almeno in uno dei sui principali attributi, quello della misericordia.
Il primo passaggio è di cercare di amare Hashèm in almeno uno dei due possibili modi descritti; il secondo passaggio ci porta inevitabilmente a cercare di essere come Lui, ossia misericordiosi oltre i limiti della logica di questo mondo. In fondo non chiediamo spesso e volentieri ad Hashèm di fare questo nelle nostre vite? “Dio ti prego vorrei questo miracolo…” oppure: “Ti prego non merito…” ecc..
In sintesi se riusciamo ad “Amare Hashèm” inevitabilmente e, oseremmo dire, obbligatoriamente, non potremmo fare altro che cercare di comportarci come Lui. Quindi, cosa aspettiamo? Diamoci da fare e miglioriamo le nostre vite e quelle altrui cercando di “risplendere” con la luce della misericordia.

B’H’ EKEV Imitando Hashèm 19/08/2022

VERA SENSIBILITÀ ANCHE NELLE PICCOLEZZE
La Torà è un Manuale di Vita Sempre

La sensitività verso i sentimenti altrui non è un concetto discrezionale secondo la Torà.
Una volta era venuto dal grande maestro Baba Sali una persona per chiedere una benedizione per guarire da un grave male alle gambe. Allora il maestro gli chiese il suo nome e gli promise che avrebbe pregato per lui.
Poco dopo il Baba Sali in persona ebbe male alle gambe…
La moglie gli chiese come mai fosse successo proprio in quel momento? Il Baba Sali le rispose che per poter pregare come si deve col profondo del cuore per fare curare le gambe della persona doveva sentire lui stesso quanto fosse grande quel dolore alle gambe, perciò chiese ad Hashem di fargli sentire quel male per poter pregare con tutte le sue forze…

Questo comportamento esemplare di sensibilità è noto nella Torà ed è una delle basi dell’ebraismo, per questo tutti i grandi maestri hanno questo attributo, perché amare il prossimo come se stesso vuole dire anche questo: così come siamo molto sensibili a noi stessi cosi lo dobbiamo essere verso gli altri.
Questo insegnamento lo troviamo nella parashà di questa settimana nel primo verso, dove la Torà ci ordina di osservare anche i precetti del “tallone”, ovvero quei precetti che una persona tende a sottovalutare e dare meno importanza. Questi sono i precetti del tallone, poiché il tallone è alla fine del corpo la parte più bassa e forse meno sensibile, perciò ci ordina Hashem che solo quando osserviamo tutti i precetti in maniera totalmente equa, solo allora riceveremo tutte le elevate benedizioni elencate in seguito (cap 7, 12):
…E l’Eterno, il tuo DIO, ti ha preservato l’alleanza e la grazia che giurò a tuoi avi, e ti amerà e ti benedirà e benedirà il frutto del tuo ventre e il frutto della tua terra… e Hashem ti rimuoverà ogni malattia…
Per quale ragione è così importante l’osservanza del “tallone” da determinare una ricompensa così grande?
La spiegazione mistica è che i precetti che abbiamo ricevuto nella Torà sono la volontà di Hashèm che è al di sopra dell’intelletto. Dio vuole che abbiamo un rapporto con lui razionale studiano e capendo la Torà e un rapporto irrazionale osservando i precetti. Il legame irrazionale è più alto, perché non è limitato alla comprensione dell’uomo: alcuni capiscono di più, altri di meno, perciò è un legame dosato in base a ogni persona; mentre le azioni delle mizvòt – precetti sono tutti uguali nell’azione, pertanto l’unione con Hashèm che deriva dalle mizvòt trascende l’intelletto umano perciò è infinita.
Per questo la nostra parashà di Ekev – tallone ci insegna che se osserviamo i precetti facendo una scaletta di priorità: prima i dieci comandamenti, poi quelli più importanti e via dicendo, allora le nostre azioni e mizvòt non oltrepassano i limiti della logica umana, perché si fanno delle differenze tra i precetti e quindi le benedizioni che riceveremo dall’Eterno saranno limitate parallelamente al nostro comportamento.
Solo quando osserviamo i precetti più semplici, con lo stesso entusiasmo dei dieci comandamenti, si nota la vera unione con Hashèm in maniera infinita e senza “contaminazioni” del proprio IO e del proprio cervello e di conseguenza il successo nella vita sarà al di sopra della natura.
In altre parole, il vero amore per Dio si evince nelle cose semplici quando sono fatte con entusiasmo.
Il midrash racconta che Yehoshùa, il braccio destro di Moshè, ha meritato di guidare il popolo dopo Moshè grazie alla sua sensibilità verso gli altri e per il suo rispetto verso Hashèm al punto che puliva i luoghi di preghiera e di studio addirittura con la sua barba.
Lo stesso è successo 2000 anni dopo con il padre di Rashi che puliva la sinagoga perfino con la sua barba tanto era grande il suo amore per Hashèm, ed è per questo che ha meritato di avere un figlio talmente speciale come Rashi.
Mio padre Yaakov ben Rachel e Shlomo è un grande esempio di amore per Hashem e verso ogni persona di qualsiasi credo.
Mio padre si assicurava che tutti i libri (sia del suo Tempio o anche di quelli in giro) fossero in ordine: li ricuciva tutti e li copriva come fossero nuovi e poi li profumava con l’acqua di rose, perché i libri della Torà sono la parola di Hashèm e devono essere sempre tenuti in ordine.
Faceva questo con entusiasmo e amore più di un affare milionario.
Lo faceva con costanza e grande passione anche all’età di 92 anni e non solo con i libri, ma anche i tallet e i rotoli…

I Vivi Impareranno – והחי יתן אל לבו
Concludo con una storia per dare un esempio di sensibilità unica al mondo che ho imparato da mio padre, che ho sentito con le mie orecchie dal
portinaio Fred dopo che l’anima di mio padre ha lasciato questo mondo fisico.
Nel palazzo dove abitava mio padre in 1360 Ocean Parkway a Brooklyn c’è una brava persona che lavora come portiere e si chiama Fred. Ci tengo a sottolineare che non è ebreo e non c’è una profonda amicizia con lui e questo rende ancora più unica la seguente storia (una delle tante). Venti anni fa è successo questo episodio di grande insegnamento di vita.
Mio padre era sempre sorridente e amico di tutti, perciò ogni volta che passava lo salutava come un amico con tanto calore.
Se pensiamo che molti non salutano in generale, tanto meno i portieri! E anche quando si salutano sembra spesso come una “pilota automatico”, senza guardare negli occhi la persona, senza neanche il “regalo” di un sorriso positivo che potrebbe cambiargli la vita.
Nel saluto di mio padre non c’era niente di automatico e ogni persona era come se fosse la più importante al mondo e la prova tangente sono i seguenti fatti.
Un giorno del 2009, mio padre salutando cortesemente Fred come al solito nota che la sua faccia è giù di morale, anche se Fred cercava di non farsi notare. Con la solita delicatezza mio padre si accorge che c’è qualcosa di diverso e gli chiede come mai fosse così strano il suo umore.
Normalmente, infatti le persone sono immerse nei proprio pensieri, nel proprio lavoro e non si accorgono dei cambiamenti altrui. Ma anche quando qualcuno si accorge cerca di evitare di chiedere domande, per evitare di doversi impegnare a risolvere i problemi degli altri. Il pensiero comune è: “ho già abbastanza problemi per conto mio e non ho bisogno di imbarcarmi anche quelli degli altri”.

Per mio padre invece non è così, perciò chiese a Fred come mai era meno sorridente del solito. Fino a qui abbiamo già tre comportamenti eccezionali dalla norma: saluto caloroso non automatico, accorgersi della tristezza e notare i sentimenti altrui (pur non essendo un amico o un famigliare), infine chiedere con affetto il perché di questo disagio come per dire cosa possiamo fare per rimediare. Ma ancora il bello deve venire.

Allora Fred dice a mio padre che si era appena sposato e il suo frigo era TOTALMENTE VUOTO che prima di uscire di casa aveva assicurato la moglie che sarebbe tornato con un acconto dal suo stipendio mensile di 500$. Dato che li capitava di chiedere al supervisore di dargli un anticipo con esito positivo, era sicuro che a un novello sposo il supervisore avrebbe esaudito questa richiesta e ha garantito alla moglie che per sera avrebbero avuto da mangiare.
La causa della sua malinconia di quel giorno era che il supervisore gli aveva negato l’anticipo, per una discussione che avevano avuto e così Fred era così depresso che mi racconta: “la mia dignità era così abbattuta che non sarei tornato a casa a mani vuote, dato che ero appena sposato non potevo permettermi un’umiliazione così forte, piuttosto mi sarei suicidato”.
Allora mio padre gli chiede se sapeva verniciare e Fred dice di si. Mio padre gli chiede quanto sarebbe il costo di verniciare la casa di mia sorella, oltre il materiale, e Fred dice 500$.
Allora mio padre gli dice: “Va bene! Allora vernici la casa e ti darò subito i tuoi 500$”. Fred chiede a mio padre se poteva dargli un anticipo e mio padre tira fuori tutta la cifra pattuita e gli da 500$ in mano.
Fred rimane incredulo, come se fosse rinato improvvisamente dalla tomba che si voleva scavare.
Mio padre poteva anche darli un prestito di 500$ che Fred gli avrebbe reso a fine mese, ma dandogli un lavoro lo ha aiutato senza degradarlo e questo vale oro, perché ogni persona ha l’immagine di Dio e rispettare la dignità vuole anche dire rispettare Dio che si trova impregnato nella nostra immagine.
Tutto questo succede in pochi secondi e senza pensarci troppo.
Come dice Fred: “tuo padre aveva talmente tanta dignità di se stesso e autostima che non poteva vedere intorno a lui qualcuno a cui mancasse la propria dignità e faceva di tutto per aiutare le persone senza sentirsi superiore, senza pensare che stava cambiando la vita a qualcuno, senza fare pesare o umiliare nessuno, tutto con semplicità e GRANDE UMILTÀ, come se non avesse fatto niente di speciale”.

(storia che mi ha raccontato Fred con le lacrime sul volto, dopo il funerale di mio padre)

LA TORÀ DI HASHÈM È PERFETTA, RISTORA L’ANIMA (Salmi 19;8) Nella Parashà di questa settimana troviamo un verso MOLTO IMPORTANTE: “Egli (Hashèm) ti ha afflitto e ti ha fatto provare la fame, ti ha dato da mangiare la manna che non conoscevi e che non conoscevano neppure i tuoi padri; per farti capire che l’uomo non vive di solo pane, ma che l’uomo vive di tutto ciò che esce dalla bocca di Hashèm” (Devarìm 8;3) Da questo verso comprendiamo due cose: la manna rappresenta qualcosa di diverso dal cibo ordinario, come il pane essa è connessa all’idea di qualcosa che “esce dalla bocca di Hashèm” e sazia l’uomo. Importante è notare come, in ebraico, la parola manna “MAN” è composta da due lettere, Mem-Nun che possono essere lette come l’acrostico della seguente espressione: “Meshivat Nèfesh” – “Ristora l’anima” (Salmi 19;8) Questa frase si trova nei Salmi di Davìd, nel seguente versetto: “La Torà di Hashèm è perfetta, ristora l’anima (meshivat nèfesh). La testimonianza di Hashèm è degna di fede, rende saggio l’uomo incolto” Grazie a questo salmo possiamo scoprire che la manna allude alla sacra scrittura, la santa Torà, capace di nutrire e saziare l’anima, oltre che il corpo, di chi studia e medita su di essa. Quanto appena detto trova la sua conferma nel valore numerico della parola manna (90) equivalente al termine מים – màyim – acqua (90) e non a caso i nostri saggi affermano: “NON C’È ACQUA, SE NON LA TORÀ” L’uomo, dunque, non vive di solo pane, ma anche dell’acqua salvifica che sgorga dalla Torà, quindi dalla fonte primaria di ogni sostentamento: Hashèm. CHI NUTRE IL CORPO SENZA L’ANIMA RISCHIA UNO SBILANCIAMENTO VITALE! SE OGGI ABBIAMO NUTRITO IL CORPO PERCHÉ NON NUTRIRE ANCHE L’ANIMA! * COME SUPERARE LE PREOCCUPAZIONI Se in cuor tuo dovessi pensare: “Questi popoli sono molto pi numerosi di me, come potrò cacciarli? Non temerli! Ricorda sempre quello che Hashèm, il tuo Signore, ha fatto al faraone e a tutto l’Egitto” (Devarìm7, 17-18) La consapevolezza di come l’Onnipotente ci ha già prestato il Suo aiuto, ci permette di sconfiggere ogni preoccupazione. La fiducia in Hashèm, il bitakhòn, elimina l’angoscia. Cos’è la preoccupazione? La paura di non riuscire ad affrontare situazioni future. Ma, se rammentiamo che l’Onnipotente ci ha già fornito aiuto in casi simili nel passato, sarà più facile avere fede in Lui nel presente. Moshè disse ai figli d’Israèl che, se dubitavano di poter sconfiggere i popoli che risiedevano nella terra di Canaàn, avrebbero dovuto ricordare come l’Onnipotente li aveva già soccorsi contro gli egiziani. Pertanto ogni volta che siamo preoccupati del futuro, pensiamo “In che modo l’Onnipotente ha già dimostrato di poterci aiutare in difficoltà simili?” Se temiamo nuove situazioni, cerchiamo di rammentarne altre che ci hanno causato ansia, ma che abbiamo affrontato comunque con successo. …di attaccarvi a Lui [Hashèm] (Devarìm 11, 22) Il bitakhòn infonde alla persona pace e serenità e permette di studiare Torà! Rabbi Mèir Simkhà Hacohèn commentando questo versetto affermò che il concetto di bitakhòn, fiducia in Hashèm, è accennato solo in forma allusiva nella Torà, non lo troviamo come esplicito comandamento: “Abbi fede in Hashèm”. Di conseguenza il nostro versetto costituisce il precetto di avere bitakhòn. Uno degli esempi più belli di totale fiducia in qualcuno è il figlio di un re che ha fiducia in suo padre, questi lo ama ed è in grado di provvedere a tutte le sue necessità. Una tale situazione è paragonabile alla nostra relazione con l’Onnipotente, che è il nostro Re e Padre: appoggiarsi ad Hashèm significa vivere con questa consapevolezza. L’immediato beneficio per chi interiorizza tale attributo è la percezione di pace e serenità interiore. Il vantaggio spirituale si traduce, inoltre, nella propensione allo studio della Torà e al legarsi a studiosi di Torà. Tipico esempio di carenza di bitakhòn è quella persona che si preoccupata di far studiare ai propri figli la Torà, poiché ha paura che nella vita essi potrebbero avere difficoltà finanziarie. Una persona provvista di bitakhòn, invece, è libera e felice di consentire ai propri figli di studiare Torà. A volte, il Brisker Rav, Rabbi Yitzchok Zev Solovetchik, aveva difficoltà ad ottenere abbastanza denaro da distribuire mensilmente ai suoi studenti sposati. Quando gli fecero notare che se fosse riuscito a procurarsi in anticipo la disponibilità di alcune mensilità, non avrebbe avuto di che preoccuparsi, il Brisker Rav rispose: “Anche se mi offrissero una somma enorme da tenere in banca per pagare gli studenti, non la vorrei. Tale stato di “incertezza” mi permette di adempiere, ogni mese, alla mitzvà del bitakhòn. Non rinuncerei a questa mitzvà per nessuna cifra al mondo!”

Un caloroso Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor

FALSA FELICITA!

“E ti fece provare la fame e ti dette da mangiare la manna” (Deut. 8, 3)

Leggiamo questa settimana la parashà di Ekev, dove Israèl durante la sua permanenza nel deserto si cibò della manna, come è detto: “E ti fece provare la fame e ti dette da mangiare la manna”. La manna era un cibo molto particolare, molto più spirituale e diverso dal cibo che conosciamo.
A differenza del pane che viene dalla terra la manna era di origine celeste ed era bianca ed era dolce come il miele (Es. 16, 31), non aveva scarti perciò viene paragonata alla Torà che è una saggezza totalmente spirituale e senza scarti. Invece la saggezza e l’intelligenza che provengono dall’uomo sono paragonate al pane, poiché non sono totalmente spirituali e hanno degli “scarti”.
Così come il pane viene ingerito nel corpo e diventa parte integrante di esso, una cosa unica, in modo analogo ciò accade con il “pane spirituale”, la Saggezza Divina: le parole di Torà entrano nella mente e la Saggezza diventa una cosa unica con chi la studia.

Il pane che viene dalla terra ha un solo gusto, il gusto del pane ed esso produce anche uno scarto che viene eliminato dal corpo al termine della digestione. Così è la saggezza generata dagli uomini. Per via dei limiti umani non tutto è evidenza e verità, quindi ci sono degli “scarti”. Inoltre più si acquisiscono nozioni e concetti, invece di diventare più umili e capire quanto siamo piccoli e limitati, si rischia di provare ORGOGLIO per la conoscenza acquisita: uno scarto non voluto e potenzialmente nocivo.

Invece, la manna, il pane dal cielo, ha molti gusti. Qualsiasi gusto che si desidera provare è contenuto in essa. Non ha uno scarto, poiché la manna viene totalmente assorbita dal corpo in quanto essendo un cibo divino non ha avanzi. Questa è l’infinita Saggezza Divina, contenuta nella Torà, che non ha i limiti della saggezza umana.

Una persona che studia Torà sente quanto la sua conoscenza è limitata e quanto ancora ha da imparare per crescere. Infatti, lo si studia la Torà porta a volerla studiare sempre di più, secondo quanto è scritto nella nostra parashà: “…e ti fece provare la fame e ti dette da mangiare la manna…”. Mangiare la manna risveglia la “fame” in colui che la mangia, egli vuole studiare di più, capire di più e imparare senza fine come quando si “assapora l’infinito” che non sazia mai. Perciò lo studio della Torà non provoca orgoglio in colui che ci si applica, anche se ha studiato a lungo. Al contrario, più si studia e più ci si rende conto della grandezza della Torà poiché è la Saggezza Divina che non ha limiti. Questo porta ad annullarsi in modo opposto alla saggezza degli uomini che invece conferisce un senso di “pienezza”.

Consigli del “Finto Amico”

Lo yètzer harà (inclinazione al male) è esperto nel suo lavoro: sa che non riuscirà a persuadere l’ebreo che la Torà non è importante, perché la Torà è cara a ogni ebreo. Allora lo yètzer harà comincia a sostenere il contrario: poiché la Torà ha un valore così alto, non ha senso approfondirla così tanto. Non finiremmo mai di studiarla e anche se ci impegnassimo tanto non riusciremmo mai a capirla completamente, poiché la Torà non ha limiti. È preferibile, dice lo yètzer harà, non approfondirla. Basta leggere un paragrafo al giorno o fissare una lezione settimanale!

Allora cosa consiglia lo yètzer harà? Esso ci stimola a immergerci nella vita materiale, dicendoci che poi potremo godere dei suoi successi.

Sforziamoci a non seguire questi stimoli, perché ci allontaneremo completamente dalla via della Torà. Dice il Talmùd che all’inizio lo yètzer harà si presenta solo come un “passante”, poi come un “amico” e alla fine diventa il padrone di casa e comincia a dirigere tutte le nostre azioni.
In conclusione lo yètzer harà vuole che sia la materialità a provocare piacere all’uomo, ma la verità è opposta: l’essenza dell’ebreo è lo spirito, perciò solo studiando Torà egli può sentirsi completo.

Cosa accade quando pensa di aver raggiunto la felicità ma in realtà non l’ha raggiunta? Egli cerca di coprire e camuffare questa mancanza con sempre più materia sperando di riempire questo “vuoto”. In realtà sta vivendo una vita illusoria e l’agognata felicità gli sfuggirà sempre.
Cerchiamo di trovare il giusto equilibrio tra le esigenze del corpo e quelle dell’anima nutrendo entrambe con il cibo a loro più consono. Solo in questo modo troveremo la giusta armonia e avremo una vita felice e serena.

Shabbat Shalom Buone vacanze e buon riposo fisico e dello spirito
Rav Shlomo Bekhor

La sensitività verso i sentimenti altrui non è un concetto discrezionale secondo la Torà.

Una volta era venuto dal grande maestro Baba Sali una persona per chiedere una benedizione per guarire da un grave male alle gambe. Allora il maestro gli chiese il suo nome e gli promise che avrebbe pregato per lui.

Poco dopo il Baba Sali in persona ebbe male alle gambe…

La moglie gli chiese come mai fosse successo proprio in quel momento? Il Baba Sali le rispose che per poter pregare come si deve col profondo del cuore per fare curare le gambe della persona doveva sentire lui stesso quanto fosse grande quel dolore alle gambe, perciò chiese ad Hashem di fargli sentire quel male per poter pregare con tutte le sue forze…

Questo comportamento esemplare di sensibilità è noto nella Torà ed è una delle basi dell’ebraismo, per questo tutti i grandi maestri hanno questo attributo perché amare il prossimo come se stesso vuole dire anche questo: così come siamo molto sensibili a noi stessi cosi lo dobbiamo essere verso gli altri.

Questo insegnamento lo troviamo nella parashà di questa settimana nel primo verso, dove la Torà ci ordina di osservare anche i precetti del “tallone”, ovvero quei precetti che una persona tende a sottovalutare e dare meno importanza. Questi sono i precetti del tallone, poiché il tallone è alla fine del corpo la parte più bassa e forse meno sensibile, perciò ci ordina Hashem che solo quando osserviamo tutti i precetti in maniera totalmente equa, solo allora riceveremo tutte le elevate benedizioni elencate in seguito (cap 7, 12):

…E l’Eterno, il tuo DIO, ti ha preservato l’alleanza e la grazia che giurò a tuoi avi, e ti amerà e ti benedirà e benedirà il frutto del tuo ventre e il frutto della tua terra… e Hashem ti rimuoverà ogni malattia…

Per quale ragione è così importante l’osservanza del “tallone” da determinare una ricompensa così grande?

La spiegazione mistica è che i precetti che abbiamo ricevuto nella Torà sono la volontà di Hashèm che è al di sopra dell’intelletto. Dio vuole che abbiamo un rapporto con lui razionale studiano e capendo la Torà e un rapporto irrazionale osservando i precetti. Il legame irrazionale è più alto, perché non è limitato alla comprensione dell’uomo: alcuni capiscono di più, altri di meno, perciò è un legame dosato in base a ogni persona; mentre le azioni delle mizvòt – precetti sono tutti uguali nell’azione, pertanto l’unione con Hashèm che deriva dalle mizvòt trascende l’intelletto umano perciò è infinita.

Per questo la nostra parashà di Ekev – tallone ci insegna che se osserviamo i precetti facendo una scaletta di priorità: prima i dieci comandamenti, poi quelli più importanti e via dicendo, allora le nostre azioni e mizvòt non oltrepassano i limiti della logica umana, perché si fanno delle differenze tra i precetti.

Solo nei precetti più semplici, osservati con lo stesso entusiasmo dei dieci comandamenti, si nota la vera unione con Hashèm in maniera infinita e senza “contaminazioni” del proprio IO e del proprio cervello.

In altre parole, il vero amore per Dio si evince nelle cose semplici quando sono fatte con entusiasmo.

Il midrash racconta che Yehoshùa, il braccio destro di Moshè, ha meritato di guidare il popolo dopo Moshè grazie alla sua sensibilità verso gli altri e per il suo rispetto verso Hashèm al punto che puliva i luoghi di preghiera e di studio addirittura con la sua barba.

Lo stesso è successo 2000 anni dopo con il padre di Rashi che puliva la sinagoga perfino con la sua barba tanto era grande il suo amore per Hashèm, ed è per questo che ha meritato di avere un figlio talmente speciale come Rashi.

Mio padre Yaakov ben Rachel e Shlomo è un grande esempio di amore per Hashem e verso ogni persona di qualsiasi credo.

Mio padre si assicurava che tutti i libri (sia del suo Tempio o anche di quelli in giro) fossero in ordine: li ricuciva tutti e li copriva come fossero nuovi e poi li profumava con l’acqua di rose, perché i libri della Torà sono la parola di Hashèm e devono essere sempre tenuti in ordine.

Faceva questo con entusiasmo e amore più di un affare milionario.

Lo faceva con costanza e grande passione anche all’età di 92 anni e non solo con i libri, ma anche i tallet e i rotoli…

I Vivi Impareranno – והחי יתן אל לבו

Concludo con una storia per dare un esempio di sensibilità unica al mondo che ho imparato da mio padre.

Nel palazzo dove abitava mio padre in Ocean Parkway a Brooklyn c’è una brava persona che lavora come portiere e si chiama Fred. Ci tengo a sottolineare che non è ebreo e non c’è alcun legame tra noi e venti anni fa è successo questo episodio di grande insegnamento di vita.

Mio padre era sempre sorridente e amico di tutti, perciò ogni volta che passava lo salutava come un amico con tanto rispetto.

Se pensiamo che molti non salutano in generale, tanto meno i portieri! E anche quando salutano di solito è fatto come una “pilota automatico”, senza guardare negli occhi la persona, senza neanche il “regalo” di un sorriso positivo che potrebbe cambiargli la vita.

Nel saluto di mio padre non c’era niente di automatico e ogni persona era come se fosse la più importante al mondo.

Un giorno, mio padre salutando cortesemente Fred come al solito nota che la sua faccia è diversa, anche se Fred cercava di non farsi notare. Con la solita delicatezza mio padre si accorge che c’è qualcosa di diverso e gli chiede come mai fosse così strano il suo umore.

Normalmente, infatti le persone sono immerse nei proprio pensieri, nel proprio lavoro e non si accorgono dei cambiamenti altrui. Ma anche quando qualcuno si accorge cerca di evitare di chiedere domande, per evitare di doversi impegnare a risolvere i problemi degli altri.

Il pensiero comune è: “ho già abbastanza problemi per conto mio che non ho bisogno di imbarcarmi anche quelli degli altri”.

Per mio padre invece non è così, perciò chiese a Fred come mai era meno sorridente del solito.

Allora Fred dice a mio padre che si era appena sposato e il suo frigo era TOTALMENTE VUOTO che prima di uscire di casa aveva assicurato la moglie che sarebbe tornato con un acconto dal suo stipendio mensile di 500$, dato che avrebbe chiesto al supervisore di dargli un anticipo.

La causa della sua malinconia di quel giorno era che il supervisore gli aveva negato l’anticipo, per una discussione che avevano avuto e così Fred era così depresso che mi racconta: “la mia dignità era così abbattuta che non sarebbe tornato a casa a mani vuote, dato che era appena sposato, piuttosto si sarebbe suicidato”.

Allora mio padre gli chiede se sapeva verniciare e Fred dice di si. Mio padre gli chiede quanto sarebbe il costo di verniciare la casa di mia sorella, oltre il materiale, e Fred dice 500$.

Allora mio padre gli dice “va bene! Allora vernici la casa e ti darò subito i tuoi 500$”. Fred chiede a mio padre se poteva dargli un anticipo e mio padre tira fuori tutta la cifra pattuita e gli da 500$ in mano.

Fred rimane incredulo, come se fosse rinato improvvisamente.

Mio padre poteva anche darli un prestito che gli avrebbe reso a fine mese, ma dandogli un lavoro lo ha aiutato senza degradarlo.

Tutto questo succede in una frazione di secondi e senza pensarci troppo.

Come dice Fred: “tuo padre aveva talmente tanta dignità di se stesso e autostima che non poteva vedere qualcuno intorno a lui che gli mancasse la propria dignità e faceva di tutto per aiutare le persone senza sentirsi superiore e che stava salvando la vita di qualcuno, senza fare pesare o umiliare nessuno, tutto con semplicità e GRANDE UMILTÀ, come se non avesse fatto niente di speciale”.

(storia che mi ha raccontato Fred con le lacrime sul volto, dopo il funerale di mio padre)

Ti riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.

Un caloroso Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor

EKEV
Al seguente link troverai la lezione sulla nostra parashà in formato mp3:
http://www.virtualyeshiva.it/2010/07/29/ekev-5770-18-av-5770-29-luglio-2010/
dal seguente link si può scaricare il file audio immediatamente, senza aprire la pagina web:
http://www.virtualyeshiva.it/files/10_07_29_ekev5770_santita_dinamica_sammaritani_kutim.mp3

 SANTITA: VALORE ASSOLUTO O DINAMICO?

Una discussione tra rabbi Yonatan un Samaritano e l’asinaio di rabbi Yonatan ci fa capire le divergenze di visioni del mondo!

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FALSA FELICITA’!

Gli ebrei Durante la loro permanenza nel deserto si cibarono della manna, come è detto: “… e ti fece provare la fame e ti dette da mangiare la manna”. La manna è un cibo molto particolare diverso dal cibo che conosciamo. Molto più spirituale del nostro cibo. Infatti era celeste, a differenza del pane che viene dalla terra.

Non a caso la manna viene paragonata alla Torà.

La saggezza e la mente sono paragonate al pane. Questo viene ingerito nel corpo e diventa parte di esso. In questo modo il pane diventa una cosa unica con l’interiorità del corpo. Lo stesso succede con il “pane spirituale”, la saggezza: le parole di Torà che l’ebreo impara entrano nella sua mente e diventano parte di esso. Così la saggezza diventa una cosa unica con chi la studia.

Il pane che viene dalla terra ha un solo gusto, il gusto del pane. Ma esso ha anche uno scarto che viene eliminato dal corpo al termine della digestione. Così è la saggezza umana. Gli studi che vengono dall’esterno (non di Torà) sono limitati. L’ebreo impara, capisce e prova piacere in questo. Egli sente di riuscire per tutto il tempo in cui progredisce nello studio. E nel momento in cui conclude tutto l’argomento e lo domina, comincia a provare orgoglio per la conoscenza che ha acquisito. Anche in questi studi c’è uno scarto non voluto e forse anche nocivo.

La manna, il pane celeste, ha molti gusti. Qualsiasi gusto che si desidera provare è contenuto in essa. Non ha uno scarto, è tutto manna. Questa è la Saggezza Divina, che è contenuta nella nostra Torà. La Torà non è limitata. Una persona che studia Torà sente quanto la sua conoscenza è limitata e quanto ancora ha da imparare per crescere. Quando si studia Torà si vuole studiare ancora di più, secondo quanto è scritto nella parashà: “…e ti fece provare la fame e ti dette da mangiare la manna…” Mangiare la manna risveglia la “fame” in colui che la mangia, egli vuole studiare di più, capire di più e imparare senza fine. Ma lo studio della Torà non provoca orgoglio in colui che la studia, anche se ha studiato tanto. Al contrario, più studia maggiore è la sua conoscenza della grandezza della Torà, e poiché la Saggezza Divina non ha limiti egli si annulla completamente.

Lo yétzer harà (inclinazione al male) è esperto nel suo lavoro: sa che non riuscirà a persuadere l’ebreo che la Torà non è importante, perché la Torà è cara a ogni ebreo. Allora lo yétzer harà comincia a sostenere il contrario: poiché la Torà ha un valore così alto, non ha senso approfondirla così tanto. Non finiremmo mai di studiarla e anche se ci impegnassimo tanto non riusciremmo mai a capirla completamente, poiché la Torà non ha limiti. É preferibile, dice lo yétzer harà, non approfondirla. Basta leggere un paragrafo al giorno o fissare una lezione settimanale!

Allora cosa consiglia lo yétzer harà? Esso ci stimola a immergerci nella vita materiale, dicendoci che poi potremo godere dei risultati.

Sforziamoci a non seguire questi stimoli, perché ci allontaneremo completamente dalla via della Torà. Dice il Talmùd che all’inizio lo yétzer harà è solo un “passante” nei nostri dintorni, poi entra in noi come “ospite” e alla fine diventa il padrone di casa e comincia a dirigere tutte le nostre azioni.

In conclusione lo yétzer harà vuole che sia la materialità a provocare piacere all’uomo, ma la natura dell’ebreo è opposta: l’essenza dell’ebreo è lo spirito, perciò solo studiando Torà egli può sentirsi completo.

Quando uno pensa di aver raggiunto la felicità ma in realtà non la raggiunta e cerca di coprire e camuffare questa mancanza con sempre più materia sperando di risolvere questo “vuoto”, in realtà vive in un illusione e non sarà mai veramente felice.

Cerchiamo di trovare il giusto equilibrio tra le esigenze del corpo e dell’anima accontentadole entrambi ognuna con il SUO cibo e sicuramente troveremo il giusto equilibrio e avremo una vita felice e serena.

EKEV 5770 – SANTITA: VALORE ASSOLUTO O DINAMICO?
Una discussione tra rabbi Yonatan un Samaritano e l’asinaio di rabbi Yonatan ci fa capire le divergenze di visioni del mondo!